Timore di
Dio e paura di Dio
Tutta la sapienza è timore di Dio
Sir 19, 18
Il timor di
Dio è virtù preziosissima
L’uomo nella vita presente avverte in sé due
impulsi contrari: o la volontà di decidere lui ciò che è bene e ciò che è male
o l’impulso ad accettare che sia Dio a dirgli ciò che è bene e ciò che è male.
Se si persuade della prima alternativa, prova un senso di sicurezza nel sapere
ciò che è bene e ciò che è male, dato che è lui a decidere. Se invece accoglie
da Dio questa conoscenza, allora gli sorgono due tipi di timore: ho capito
veramente che cosa è bene e che cosa è male? Ho messo o non ho messo in pratica
la volontà di Dio? Mi salverò o mi perderò?
Chi ritiene di poter e dover decidere lui in
totale autonomia, non ha nessun timore di Dio, perché per lui, ammesso che Dio
esista, Dio non ha nessuna parte nel dirgli cosa deve o non deve fare, per cui
non ha da temere alcun castigo se disobbedisce, così come non si attende alcun
premio se obbedisce.
Invece il timore di Dio è un atteggiamento
dell’animo, per il quale il timorato di Dio, avvertendo l’infinita maestà
divina legislatrice e giudice e rivendicatrice del bene e del male, prende
molto sul serio o in estrema considerazione la volontà di Dio e i giudizi divini
e vi fa la massima attenzione, sapendo che dall’obbedire o disobbedire alla sua
volontà dipende il suo destino eterno.
Il timor di Dio, per la Sacra Scrittura, è
virtù grande, dolce e preziosa ed è lodato in molti modi; molti sono i suoi
vantaggi: «il timore del Signore prolunga i giorni» (Pr 10,27); «nel timore del
Signore è la fiducia del forte» (Pr 14, 26); «con il timore del Signore si evita
il male» (Pr 16,6); «il timore del Signore è gloria e vanto» (Sir 1,9); «il timore
del Signore allieta il cuore» (Sir 1,10); «nulla è meglio del timore del
Signore» (Sir 23, 27); «beata l’anima che teme il Signore» (Sir 34, 13-17); «il
timore del Signore solleva il cuore» (Sir 40, 26); «il timore del Signore è
come un giardino» (Sir 40,27); «il timore del Signore è fonte di vita» (Pr
14,27); «il timore del Signore conduce alla vita» (Pr 19, 23); «frutto di
umiltà è il timore di Dio» (Pr 22, 24).
Particolarmente sottolineato è il rapporto con
la sapienza, dono dello Spirito Santo che fa gustare la bontà del Signore: «il
timore del Signore è una scuola di sapienza» (Pr 15, 33); «tutta la sapienza è
timore di Dio» (Sir 19, 18); «principio di saggezza è il timore del Signore»
(Sal 111, 10); «il timore del Signore è principio di scienza» (Pr 1,7); «fondamento
della sapienza è il timore di Dio» (Pr 9,10); «pienezza di sapienza è temere il
Signore» (Sir 1,9-29); «il risultato del timore del Signore è la sapienza» (Sir
21, 11).
Il timor di Dio può essere timore di
offendere Dio col peccato, cosa che è dettata dall’amore per Dio; e questo è il
timore filiale, certamente lodevole e virtuoso; ma può essere anche timore
della pena, con sguardo rivolto verso se stessi. Certo, questo atteggiamento
suppone la convinzione che Dio possa punire, per cui è sì un atteggiamento religioso,
ma gretto. Tutto sommato, però, comporta pur sempre la considerazione di Dio come
proprio bene. Per cui non è alla fin fine da condannarsi, anche se non brilla
per virtù. È, questo, il timore servile. Peggiore è invece il comportamento di chi
non teme neanche la pena o perché non crede in Dio o perché pensa che Dio non
castighi. Costoro mettono il timore degli uomini al posto del timore di Dio.
L’empio non
teme Dio, ma gli uomini
Mentre l’empio e l’irreligioso, privo del
timor di Dio, di Dio se ne infischia o da Lui non teme alcun castigo, se fa ciò
che giudica male, trova sempre il modo di assolversi, giacché ha sempre la
libertà di giudicare bene ciò che ha fatto. Al contrario, può capitare che ci
sia un uomo pio e religioso, che si avverte peccatore, e crede di peccare in
continuazione, nonostante ogni sforzo in contrario.
Costui, invece di avere un semplice timore di
aver offeso Dio, di meritare il giusto castigo, ed esser pronto a pentirsi,
certo del perdono divino, può esser preso dallo spavento e dall’angoscia per
quanto ha fatto o teme di aver fatto, dalla disperazione di salvarsi, dallo
scoraggiamento e dalla paura o addirittura dal terrore di Dio, che gli appare giudice
crudele adirato contro di lui e da una forte irritazione contro Dio, che ha permesso
che peccasse e lo punisce o minaccia di punirlo per atti che non riesce ad
evitare. È, questa, la paura di Dio, quella paura che Adamo peccatore dice a
Dio di provare nei suoi confronti (Gen 3, 10).
Inoltre capita che queste persone che sono
spaventate dal peccato, non vedono razionalmente perché un peccato è peccato e
credono che ciò dipenda dal mero arbitrio divino che così ha voluto. La loro
concezione etica non è basata sulla ragione, ma sull’emozione o la suggestione
o su di usi criticamente non vagliati. Questo era lo stato d’animo di Lutero prima
della famosa «esperienza della torre», nella quale si fece la convinzione ferrea
che Cristo gli aveva promesso che comunque lo avrebbe salvato, solo che avesse
avuto ferma fede di ciò.
D’altra parte il timor di Dio ha una speciale
relazione con la virtù della speranza. Al timore ed alla speranza corrispondono
in Dio rispettivamente le due virtù che operano nel campo della problematica
attinente alla salvezza dell’uomo: la misericordia e la giustizia. Oggetto
della speranza è l’ottenimento della misericordia che salva. Oggetto del timore
è l’eventuale attuarsi della giustizia punitiva.
Dio
può recare spavento anche al giusto,
ma
questi non cade mai nella paura
Dunque
vediamo l’immensa differenza che esiste fra il timore di Dio e la paura di Dio.
Il timore di Dio, così come ne ho accennato, è un sentimento più che
ragionevole, che, basato sul rispetto sacro della legge divina, e quindi
sull’amor di Dio, aiuta ad evitare il
peccato sapendo a che cosa porta il peccare.
Invece la paura di Dio è un sentimento ostile
verso Dio adirato e offeso dal peccato, un Dio nel quale non vediamo il nostro
creatore e salvatore, un Dio che non ci ispira fiducia, un Dio oppressore, che
se non ci fosse, sarebbe meglio, un Dio sentito come temibile nemico, dal quale
occorre difendersi e stare alla larga, così come staremmo alla larga da un cane
che potrebbe azzannarci.
La Bibbia nota come Dio incuta terrore ai
suoi nemici o agli empi (Es 23,27; I Sam 14,15; II Cr 17,10; 20, 29; Sap 5, 2 e
6,5; Sal 9,21; Is 33,14). Il Signore è terribile con gli idolatri, poiché
«annienterà tutti gli idoli della terra» (Sof 2,11). Egli è «tremendo sopra
tutti gli dèi» (I Cr 16,25); è «grande e tremendo» (Dn 9,4), «tremendo nelle
imprese» (15, 11). «Dio è grande, forte e terribile» (Dt 10,17); «tremendo è il
Signore, l’Altissimo» (Sal 47,3); «tremendo è Dio dal suo santuario» (cf Sal
68,36); «santo e tremendo è il suo Nome» (Sal 111, 9); il suo Nome è «grande e
tremendo fra le nazioni» (Mi 1,14). Egli è il «Tremendo» (Sal 76,12).
Ed è talmente viva la coscienza dell’uomo
peccatore di non esser degno di stare alla presenza di Dio, che anche il giusto
dell’AT si convince di non poter restare in vita davanti ad una sua apparizione
(Gen 32, 31; Es 19,21; 20,19; 33,20; Giud 13, 22-23, ecc.); spaventosa è la manifestazione
di Dio sul monte Sinai alla consegna a Mosè delle tavole della Legge (Es 19,
18-19). Questo senso della propria indegnità ha un’eco, benché attenuata, nel
NT, dove abbiamo per esempio Pietro, che, dopo la pesca miracolosa, non si
sente degno, come peccatore, di avvicinarsi al Signore (cf Lc 5.8). Ma può
capitare anche al giusto di provare spavento davanti a Dio (Sal 88, 17).
Lutero ha
scambiato il timore di Dio col terrore per un fantasma
Timor di Dio e paura di Dio si assomigliano,
come un fungo commestibile assomiglia al fungo velenoso, benché tra di loro ci sia
una differenza abissale, perché il timore di Dio fa fuggire il peccato ed è
l’inizio della sapienza, mentre la paura Dio rende Dio odioso, e uccide l’anima
gettandola nella disperazione, e come rimedio genera una irragionevole
presunzione, che rende insensibili alla conversione e al pentimento bloccando
il cammino della salvezza, perché il soggetto si ritiene già salvo.
Data questa somiglianza ingannevole, occorre saper
distinguere con la massima cura questi sentimenti, e quindi occorre fare la
massima attenzione a non cacciare assieme alla paura di Dio anche il timor di Dio,
oppure, all’opposto, a non coltivare una irragionevole paura di Dio, che
paralizza la confidenza in Lui, tormentando l’anima con gli scrupoli.
È stato il cammino di Lutero, passato dalla più
tormentosa scrupolosità alla più smaccata spavalderia, scambiata per confidenza
in Dio; è stato il suo errore per il quale egli, pensando di mantenere l’umiltà
di considerarsi peccatore bisognoso della divina misericordia, in realtà mancava
dell’umiltà di obbedire a Dio, Che comanda le opere della penitenza, e
ritenendosi da esse dispensato col suo apostatare dalla vita religiosa, assumeva
un atteggiamento arrogante e spavaldo, convintosi di essere un predestinato,
convinzione che poi il Concilio di Trento proibì (cf Denz. 1540) e praticando
quella falsa fiducia in Dio, che il Concilio di Trento avrebbe chiamato «inanis
haereticorum fiducia», consistente nell’«accontentarsi di credere che i propri peccati
sono rimessi per la sola fiducia e certezza che sono stati rimessi»
(Denz.1533).
Questo Dio nel quale l’eretico asserisce di
avere fiducia non è il vero Dio, al quale deve rispondere del suo operato, ma
una proiezione fantastica del suo desiderio di un Dio che non procuri fastidi,
ma lasci liberi di fare quello che si vuole, con la promessa della salvezza
finale assicurata, come gli scatti di carriera per gli impiegati dello Stato.
La paura fisica di per sé è uno stato emotivo
che hanno anche gli animali. Ma esiste anche una paura interiore, che prova
solo l’uomo e che è ben peggiore, soprattutto quando si riferisce a Dio. La
paura, in generale è quello stato d’animo per il quale esso avverte con
angoscia l’incapacità di difendersi da una forza ostile incombente. Se si tratta
della paura fisica, in molti casi la soluzione è la fuga: il gatto fugge
all’arrivo del cane. Ma se il nemico è interiore, lo si può avvertire come
inevitabile e la paura è tanto più grande quanto maggiore è il danno che il
nemico può farci.
E quale danno può essere maggiore di quello che
ci può procurare un Dio adirato che ci incolpa di peccati inevitabili e ci
minaccia di mandarci all’inferno, nonostante tutti gli sforzi ascetici che
facciamo per accontentarlo: confessioni su confessioni ed osservanze regolari
rigorosissime? Ora Lutero, paradigmatico esempio del pauroso di Dio, da giovane
monaco vedeva Dio appunto cosi. Una visione certamente distorta, ed è appunto
una visione del genere che genera la paura di Dio.
L’amore sta
col timore o lo scaccia?
Sulla questione del timor di Dio sembrerebbe
di trovare un contrasto fra S.Paolo e S.Giovanni. S.Giovanni infatti
sembrerebbe espellere il timor di Dio dall’alta virtù, ossia dall’amore
perfetto. Egli infatti, fa questo ragionamento: «Nell’amore non c’è timore; al
contrario, l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un
castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (I Gv 4, 18). S.Paolo, invece,
inserisce il timore nel cammino della salvezza: «Attendete alla vostra salvezza
con timore e tremore» (Fil 2,11).
L’amore perfetto, per Giovanni, è l’amore disinteressato
di chi è proiettato totalmente in Dio, dimentico di sé stesso. Egli sa
benissimo che se disobbedisce a Dio, sarebbe castigato e si premura
diligentissimamente di evitare il peccato, ma, preso com’è dall’amore di Dio, non
pensa affatto a cosa potrebbe succedergli se peccasse: è troppo occupato
nell’amare. Viceversa, il vero timore è certo motivato dall’amore. E per questo
c’è un amore che sta con il timore. Ma non è perfetto, perchè qui l’amore pensa
a Dio, ma pensa anche a sé stesso, sia pur lecitamente. Non è del tutto
proiettato su Dio, come nell’amore perfetto.
Quanto a S.Paolo, dice una cosa che condividerebbe
senz’altro anche S.Giovanni. Qui Paolo si pone sul piano generale dell’acquisto
della salvezza. Invece Giovanni distingue il modo inferiore dell’amore - l’amore
imperfetto – dal modo superiore – l’amore perfetto – di acquistare la salvezza.
È chiaro che in linea di principio Giovanni, come Paolo, non esclude affatto il
timore. Esso è escluso solo sul piano dell’amore perfetto. Ed è interessante fare
un confronto fra l’ateo e il santo a questo proposito: entrambi escludono il timor
di Dio: l’ateo perché si dimentica di Dio per curarsi di sè; il santo perché si
dimentica di sé per curarsi di Dio.
Il timore di
Dio è un dono dello Spirito Santo
Secondo il profeta Isaia il timor di Dio non è
solo una virtù umana, ma è anche un dono dello Spirito Santo e per l’esattezza
uno dei doni spirituali, dei quali, come
è detto in Is 11,7, sarà dotato il «germoglio che spunterà dal tronco di
Iesse», ossia il Messia. Nel testo ebraico timore,
yireàt, viene ripetuto due volte ai vv.2 e 3. La traduzione dei Settanta ha
ricavato dalla medesima parola due concetti diversi; eusèbeia, pietas, pietà e
fobos, timor, timore, sicché il numero dei doni da sei in ebraico passa a
sette in greco. Questo fatto testimonia di quanta ricchezza di significato
abbia il termine yireat, se i
Settanta hanno potuto ricavare da quella parola due concetti.
Secondo S.Tommaso, il dono del timore sarà presente
anche in cielo[1]. L’Aquinate,
infatti, col suo solito radicalismo speculativo, che va al fondo delle cose, individua
la radice profonda del timor di Dio nella percezione beata della sua infinita
trascendenza e maestà, e cita al riguardo le parole di S.Gregorio Magno, che
dice: «gli stessi spiriti celesti, che incessantemente vedono Dio, tremano (contremiscunt) nello stesso contemplarLo.
Ma questo tremore, affinché per essi non sia penale, non è di timore, ma di
ammirazione»[2]. E
S.Agostino: «col nome di casto timore viene significata quella volontà, per la
quale sarà necessario che noi non vogliamo peccare, e non per la sollecitudine
dell’infermità, affinché forse non pecchiamo, ma per la tranquillità della
carità che evita il peccato»[3].
Insomma, il timor di Dio, attuato nella sua
fondamentale essenza, come riverenza gioiosa verso la Maestà divina, viene a
far parte della beatitudine. Se Lutero avesse meditato su queste parole
preziose di Agostino, che di peccato e di grazia se ne intendeva, forse avrebbe
capito come ci si deve atteggiare davanti alla Maestà divina da peccatori pentiti
e fiduciosi, e si sarebbe risparmiato l’angoscia caricata e teatrale, che lo
portò all’eresia.
Così avviene che, mentre il superbo si sente
oppresso, terrorizzato e schiacciato dalla Maestà divina sovrastante, che egli
sente come incombente e minacciosa, perché vorrebbe essere lui a dominare su
tutto, per l’umile, al contrario, questa infinita Maestà sovrastante e
trascendente, costituisce la sua gioia, il suo conforto, il suo sostegno, il
suo rifugio, ben contento di essere soggetto a Dio nel quale trova la sua perfetta
libertà e felicità.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 14 febbraio 2020
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