Pensieri
su Padre Radcliffe
Premessa
Nel panorama
della teologia cattolica odierna, una figura di spicco è il Padre Timothy
Radcliffe, ex-Maestro del mio Ordine, esponente di un moderato modernismo,
sensibile alle istanze più vive della teologia e della Chiesa di oggi.
Rispondendo però ad esse, il Padre Radcliffe, come è nello stile dei
modernisti, concede troppo alla modernità, con la conseguenza di suggerire
soluzioni che si scostano dalle indicazioni della Chiesa per una modernità che
non sia in contrasto col Vangelo. In questo mio articolo, cerco di correggere
queste vedute conducendole ad una modernità conforme agli insegnamenti della
fede. Accorpo qui due miei articoli sul Padre Timothy Radcliffe, uno scritto
nel 2017 ed un altro di adesso.
Un’intervista
al Padre Radcliffe del 2017
Sul
quotidiano La Stampa Società apparve
il 27 luglio 2017 un’ intervista a Padre Timothy Radcliffe di Alain Elkann. Mi
sono piaciute alcune cose che ha detto, come l’importanza dell’amore per la
verità e per il silenzio, la bellezza della fede nel suo rapporto con la
ragione, la vita fraterna domenicana, che ogni uomo è fatto per raggiungere Dio
e quindi chiamato alla salvezza e la convivenza pacifica dei fedeli delle varie
religioni.
Vorrei fare
però alcune osservazioni. Non mi sento di condividere alcune sue affermazioni,
che riporto qui con le mie relative critiche. Do un numero alle domande dell’intervistatore
contenenti le risposte del Padre Timothy Radcliffe, e di seguito metto le mie
osservazioni. Tra graffette le parole del Padre.
1.
Alla domanda dell’intervistatore: Lei pensa che tutte le religioni
siano mezzi per raggiungere lo stesso luogo? Padre Timothy Radcliffe risponde: «Sarei
lieto di dirlo, ma è oltre la nostra capacità di comprensione».
Io avrei risposto precisando che tutte le
religioni sono mezzi umani più o meno imperfetti per raggiungere Dio. Ma solo
la religione cristiana cattolica tra tutte è la più elevata, perché fondata
dallo stesso Figlio di Dio, Gesù Cristo, Mediatore Unico e perfetto, Che ci fa
sapere che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo.
2.
«Le guerre fanno parte della storia dell’umanità e in guerra si
usa ogni mezzo per vincere, tanto il nazionalismo quanto la religione. Non è
corretto dire che c’è la religione all’origine della guerra. Direi piuttosto
che gli esseri umani hanno coltivato la violenza usando la religione per
imporla o per giustificarla».
Faccio osservare che Padre Timothy Radcliffe
fa una falsa generalizzazione. La guerra può avere un fine giusto: per esempio,
la difesa della patria, la liberazione di un popolo oppresso, l’abbattimento di
un regime tirannico, la riconquista di un territorio occupato dal nemico, la
liberazione dei cristiani dall’oppressione degli islamici o dei comunisti.
Non bisogna confondere la violenza col giusto
uso della forza. La violenza è ingiustizia e viene punita dal codice civile e
militare; il giusto uso della forza è atto di fortezza, che può giungere
all’eroismo ed è il principio del valor militare, degno del massimo onore. Il
disprezzo o la condanna indiscriminata della guerra come tale, senza distinguere
quella giusta da quella ingiusta, è segno di animo meschino, pavido e
falsamente pacifico, che finisce per tollerare che i prepotenti opprimano i
deboli e li lascino indifesi.
Quanto alle guerre di religione, non sempre
esse sono state manifestazione di violenza, che hanno strumentalizzato la
religione, ma in alcuni casi esse sono state mosse col preciso intento di
salvare la civiltà cristiana. La difesa della religione può giustificare una
guerra, come avvenne per esempio nella battaglia di Lepanto o nelle guerre di
Israele narrate dall’Antico Testamento, anche se è vero che la religione può
essere un pretesto che nasconde avidità di potere o volontà di dominio, come fu
la guerra dei prìncipi luterani contro la Chiesa per impossessarsi dei beni
della Chiesa.
Non è vero, pertanto, come pensava Marx, che
le guerre avvengono sempre per interessi economici, e che quelli ideali servono
solo a coprire i primi. Anche questa idea è segno di animo gretto e barbaro,
che non capisce che l’uomo non è una bestia, ma tiene all’onore, alla giustizia
e al diritto.
Si nota nelle idee pacifiste di Padre Timothy
Radcliffe l’utopismo razionalista ed ingenuo e alla fine, al di là delle
intenzioni, pericoloso e guerrafondaio, tipico di Rousseau e dell’illuminismo massonico,
che considera una “natura umana” elaborata a tavolino, astrattamente presa ed
originariamente “buona”, a prescindere dalla sua drammatica condizione storica,
conseguente al peccato originale, natura che invece ha bisogno di essere
disciplinata e frenata, all’occorrenza, anche con severità.
Infatti, come insegna l’esperienza, l’umanità
con le sole forze della ragione e della volontà non è sempre in grado di
correggere le deviazioni e di realizzare perfettamente, attraverso opportune
trattative ed azioni politiche, la giustizia e la pace, peraltro in una
prospettiva meramente terrena, ma necessita dell’aiuto della grazia, come
dimostra la storia della civiltà cristiana e della Chiesa.
3.
«Sono un grande fan di
Papa Francesco, sta compiendo meraviglie facendo progredire la Chiesa in modo
più rilassato e meno centralizzato. Certo, incontra resistenza, ma ci sta
guidando verso la libertà e la spontaneità, riuscendo a entrare in contatto con
ogni comunità».
Dal modo col quale Padre Timothy Radcliffe
qualifica se stesso nei confronti del Papa, ‒ «fan di
Papa Francesco» ‒ come se si
trattasse un divo del cinema o di un campione dello sport, si comprende
all’evidenza che la visuale sotto la quale egli si pone per considerare e
valutare l’operato del Papa, è del tutto insufficiente e fuorviante, e
meraviglia moltissimo in un Domenicano che è stato capo dell’Ordine per quasi
dieci anni.
Per questo il giudizio di Padre Timothy
Radcliffe sul Papa è falsato e denota la sua provenienza da quell’ambiente
modernista-liberal-massonico, che con somma astuzia e ingentissimi mezzi
economici e mediatici, da tempo ormai esercita, nei confronti del Successore di
Pietro, una raffinata quanto smaccata opera di adulazione e finta devozione,
che purtroppo non manca di produrre un certo effetto sulle grandi masse di
fedeli sprovveduti e secolarizzati, nonchè sul Papa stesso, la cui guida della
Chiesa gli è difficile sia per la drammatica esistenza di aspri conflitti
intraecclesiali e sia per la difficoltà che egli ha a metter pace e concordia.
Padre Timothy Radcliffe, con le sue
dichiarazioni, dà mostra di errare nell’interpretare l’azione del Papa e di non
comprenderne affatto ‒ cosa grave
in un Domenicano ‒ né la vera
personalità e missione apostolica e neppure di comprendere la vera, drammatica
situazione attuale della Chiesa, più volte denunciata da Benedetto XVI, ma
anche la Chiesa nelle sue vere prospettive e speranze.
Padre Timothy Radcliffe, da come si esprime,
sembra vivere in un’atmosfera ovattata, fatta di ingenui entusiasmi giovanili,
senza percepire ‒ oggi che si
parla tanto di “discernimento” ‒ né la profondità della crisi, né quella dei
valori che stanno emergendo, che sono quelli di un’autentica attuazione del
Concilio Vaticano II, non nell’interpretazione modernista scillebexiana e
rahneriana, ma secondo gli insegnamenti autentici dei Papi del post-concilio,
da S.Paolo VI al Papa presente, non senza essere in continuità con la
Tradizione nell’ascolto supremo della Parola di Dio e di quello che lo «Spirito
dice alle Chiese» [Ap 2,7].
E quando dico “tradizione” intendo riferirmi
alla Sacra Tradizione, ossia alla custodia, conservazione e trasmissione
apostolica orale infallibile del dato rivelato: in sostanza, alla predicazione
del Vangelo.
Oggi il Papa non ha bisogno di «fans» – questi lasciamoli alle partite
di calcio, la fede è una cosa seria –, neppure di acri accusatori farisei; non
ha bisogno di essere lisciato e coccolato, non ha bisogno di essere “corretto”
nella retta fede, anzi chiede a noi di ascoltarlo come maestro della fede e
interprete infallibile della Tradizione e della Scrittura, nonché ha bisogno di
essere aiutato e consigliato da collaboratori leali, saggi ed efficienti, che
non diano scandalo al popolo di Dio.
Ha bisogno di essere illuminato, confortato,
consolato, incoraggiato e liberato dai Giuda, dagli intrallazzatori e dagli
arrivisti, che l’attorniano come api attorno al miele. Sull’esempio di una
Santa Caterina da Siena il Papa ha bisogno di essere insistentemente esortato
con franchezza, carità e rispetto a compiere il suo dovere per l’onore di
Cristo e il bene della Chiesa.
Padre Timothy Radcliffe si immagina un Papa
promotore di una Chiesa “rilassata” come il tale che, comodamente rilassato in
poltrona, si gode uno spettacolo televisivo. La sua Chiesa “decentralizzata” è
un eufemismo pietoso ma non troppo, per celare o ignorare lo stato confusionale nel quale oggi la
Chiesa si trova in un bellum omnium
contra omnes tra cardinali, vescovi, teologi, preti e religiosi in temi di
fede e di morale.
Secondo Padre Timothy Radcliffe Papa
Francesco ci sta guidando verso una Chiesa «libera e spontanea». Ma per
raggiungere tal fine, non c’è bisogno del Successore di Pietro: basta un buon
trattato di psicologia. Il Papa guida la Chiesa ben più in alto: all’ascolto
della Parola di Dio, all’imitazione di Cristo, alla liberazione dal peccato,
alla vita di grazia, alla vittoria sul mondo e su Satana, alla comunione dei
santi, all’esercizio della carità, alla perfezione evangelica, alla
disponibilità alle sollecitazioni dello Spirito Santo, alla conquista del Regno
di Dio, all’eterna beatitudine.
4.
«Il Papa riesce ad entrare in contatto con ogni comunità»
Certo, egli è il Padre comune di tutti figli
di Dio, è mandato da Cristo ad annunciare il Vangelo a tutto il mondo, deve
comprendere i bisogni più profondi di tutti, deve saper apprezzare i valori di
tutte le religioni, deve inviare a Cristo coloro che sono «affaticati ed
oppressi» [Mt 11,28].
Il Papa dimostra certo una straordinaria
energia ed attitudine nel contatto con le folle. Ma esse, fuorviate da una
interpretazione secolaristica dell’azione del Papa ad opera dei grandi
mass-media, interpretazione che il Papa stesso non pare sufficientemente
smentire, che cosa poi vedono nel Papa? Il simpatico propagandista di una
morale “rilassata” o l’uomo di Dio che ci sollecita a guardare in alto? Se il
Papa «incontra resistenze», dovrebbe chiedersi che cosa esse significano. Certo
ci sono i soliti lefevriani e farisei; ma c’è anche chi gli vuole bene ed è
sincero amico e desidera vederlo tendere alla santità.
5.
«Dobbiamo pregare per la fratellanza fra le fedi, non fomentare le
divisioni».
Mi meraviglia in un Domenicano questa
imprecisione di linguaggio, che fa pensare ad una visione relativistica ed
indifferentista della religione. Egli sembra confondere la fede con l’opinione.
Le opinioni possono essere molte, anche in contrasto tra di loro, e questo è
normale. Ma la fede in Dio è una sola, così come la verità è una sola, perché è
verità oggettiva, certa, assoluta ed universale.
Bisogna dunque favorire la fratellanza tra i
fedeli delle diverse religioni. Non ha senso invece parlare di «fratellanza fra
le fedi», come non ha senso la fratellanza tra il vero e il falso. Non si deve
dividere ciò che dev’essere unito, ma si deve dividere ciò che va separato. Lo
spirito di pace non è fare il doppio gioco o servire due padroni. In tal senso
Cristo dice di essere venuto a portare una «spada» [Mt 10,34].
«Chi non è con me» – dice il Signore (Mt
12,30) – «è contro di me». Se il Corano nega ciò che insegna Cristo, non
possono contemporaneamente aver ragione Cristo e il Corano. Per conseguenza, le
religioni non sono come i partiti in un parlamento o la pluralità degli
istituti religiosi all’interno della Chiesa Cattolica. In questi casi le varie
formazioni si integrano e si completano a vicenda per rappresentare la
totalità: o l’intera cittadinanza di una nazione o l’intero corpo ecclesiale.
Invece la questione del rapporto fra le
religioni non è di ordine semplicemente sociale; non è semplicemente di
competenza dello Stato, in applicazione del diritto di libertà religiosa, per
cui lo Stato deve curare la pacifica convivenza dei gruppi in esso esistenti;
non si tratta solo di rispettare le diversità tra le religioni, ma più
profondamente la questione tocca il problema della verità delle dottrine delle religioni.
E su questo punto il Domenicano dovrebbe
essere particolarmente sensibile. Al riguardo, dobbiamo dire che la Chiesa
Cattolica riconosce la presenza di valori salvifici anche nelle altre
religioni, misti tuttavia ad errori. Infatti, la pienezza della verità
salvifica è patrimonio esclusivo della dottrina cattolica, come afferma ancora
il Concilio Vaticano II nel decreto Unitatis
redintegratio II.
Per
questo la Chiesa ha anche il compito di respingere o correggere gli errori
contenuti nelle altre religioni, perché tutti gli uomini sono chiamati a
convertirsi a Cristo per il tramite della Chiesa, come ha precisato il Concilio
di Firenze nel 1442, anche se è possibile, come ha insegnato il Concilio
Vaticano II, appartenere alla Chiesa in modo inconscio.
Il Padre Timothy Radcliffe sembra dunque
condividere la teoria di Edward Schillebeeckx, secondo il quale la vera
religione risulta dalla somma di tutte le religioni, per cui ognuna di esse
darebbe il suo contributo alla edificazione del tutto, un po’ come
un’enciclopedia risulta dai contributi dei collaboratori. Infatti, secondo
Schillebeeckx, “nessuna religione particolare esaurisce il problema della
verità”[1].
“Di conseguenza, possiamo e dobbiamo dire che c’è più verità religiosa in tutte
le religioni messe assieme che in ogni singola religione”[2].
Questo che vuol dire? Che il Corano aggiunge
verità salvifiche che non sono contenute nel Vangelo? Che il Vangelo non può
permettersi di correggere il Corano? Schillebeeckx non si rende conto che le
verità salvifiche sono state rivelate da Dio per il tramite di Cristo e della
Chiesa in un certo numero e raccolte nel Simbolo Apostolico. Le altre religioni
non aggiungono nuove verità, che non siano già contenute nel Credo cristiano,
ma semmai ne mancano di qualcuna. Per questo, la posizione di Padre Radcliffe,
in quanto riflesso delle idee di Schillebeeckx, non è per nulla conforme alla
dottrina della fede.
Alla radice
la verità
Un titolo
infelice
Il Padre
Timothy Radcliffe ha di recente scritto un libro dal titolo: «Alla radice la
libertà». Dico subito di non averlo letto. Perciò non intendo e non posso
entrare nel merito di quello che dice. Non so peraltro se ho capito bene ciò
l’Autore intende dire con quel motto. E non so neppure se ciò che sto per dire si
trovi anche in quel libro. Mi farebbe piacere. Ma non importa. Quel che adesso
m’interessa e penso possa interessare anche il Lettore, è un commento a quel
motto in se stesso.
Mi ha
colpito infatti il titolo del libro e devo dire subito francamente che non mi ha
colpito in modo favorevole. E vado a spiegare il perchè. Chiarisco però
anzitutto che quello che pertanto intendo fare e mi è legittimo fare qui, è prendere
in considerazione questo titolo come tale, circa il quale vorrei svolgere qualche
considerazione, come se si trattasse di una frase o un motto presi a sé. Questi sono i precisi limiti
del discorso che sto per fare.
Vorrei
allora osservare a queste parole che le cose non stanno così come le recita il
titolo. E vorrei prendere spunto dalle parole di Padre Radcliffe per proporre al
Lettore alcune mie considerazioni alternative. Vorrei allora dire subito che alla
radice della vita spirituale non c’è la libertà, ma la verità. E stupisce
trovare questo aperto volontarismo come titolo del libro di un teologo
domenicano, appartenente ad un Ordine religioso, il cui motto è notoriamente
VERITAS.
È strano,
quindi, che l’Autore sembri non ricordare le notissime parole del Signore, secondo le quali la verità ci fa liberi (cf
Gv 8,32). Dunque, la radice della nostra vita spirituale è la verità, non la libertà.
Questa segue all’atto della conoscenza, che è veramente il primo atto del nostro
spirito, dal quale segue tutto il resto. Diversamente, avremmo quel noto capovolgimento
dell’ordine, che si chiama volontarismo.
Certamente è
impossibile conoscere la verità più alta, quella divina rivelata, la verità di
fede senza la buona volontà e in particolare l’umiltà, che è quella virtù che ci
rende aperti al reale, ci fa accettare ciò che siamo e quindi i doni ricevuti da
Dio, il nostro totale dipendere da Lui, e ci fa anche riconoscere i nostri limiti
e i nostri peccati. Il che ci porta alla conversione ed alla confidenza nella misericordia
di Dio.
Credo quindi
che un titolo azzeccato sarebbe stato: «alla radice la verità» o volendo usare
le parole del credente, «alla radice la fede». Questa, infatti, è la verità
rivelata, corrispondente al concetto generale di verità del primo motto. E
difatti, come la verità naturale e razionale è la radice della vita umana, così
la fede è la radice della vita cristiana e l’inizio della salvezza. Tornerò su
ciò più avanti.
Parlo pertanto
di volontarismo, riallacciandomi
all’aureo detto di S.Agostino Nihil volitum, nisi cognitum. La libertà infatti
è condizione essenziale della volontà. La volontà non può essere costretta o
coartata: o si muove liberamente o non si muove. Non è possibile d’altra parte volere
ciò che non si conosce, almeno imperfettamente o di cui non si ha alcuna idea.
Il volere è volere di un oggetto previamente conosciuto e che appare
interessante per la volontà, ossia appare un bene o un fine, sicchè diventa
appetibile, amabile, desiderabile.
O se
vogliamo, volendo andare alla radice della nostra vita spirituale, come mi pare
sia l’intento dell’Autore, troviamo sì una volontà, ma allora sarà una volontà non
di potenza, ma di conoscenza, una volontà di adeguare il proprio intelletto al
reale così com’è, di accettare tutto il reale, quale che sia, anche quello che
non ci piace, che vorremmo diverso, ci spaventa, ci procura sofferenza o
confusione. Ci sarà il desiderio e la volontà di conoscere la verità, tutta la
verità, su me stesso, sul senso della mia esistenza, sulle mie origini, sulle
cose, su Dio, sul bene e sul male, sul dolore e sulla felicità. Sul senso vero
della libertà.
La radice
della vita dello spirito
Ora,
dobbiamo considerare che in generale la radice – termine metaforico - è il
punto di partenza, il fondamento, la base, l’energia originaria ed iniziale, dalla
quale sorge e scaturisce tutto il resto e alla quale il resto si alimenta. La parola ha immediatamente un senso riferito
alla vita vegetativa. L’albero non nasce dal tronco, dai rami, dalle foglie e
dai frutti, ma dalle radici. L’albero è buono e robusto, se le radici sono buone
e robuste. L’albero è quel dato albero, se le radici sono le radici di
quell’albero. Dalle radici dipende la vita dell’albero: se esse muoiono,
l’albero muore.
Ma le radici
non sono il tutto dell’albero. Sono solo la condizione sine qua non perchè l’albero si conservi, cresca, si sviluppi,
perché sia pienamente e definitivamente se stesso come natura comanda. Ma la
perfezione dell’albero, il punto d’arrivo del suo essere e del suo divenire non
sono le radici, ma l’albero stesso cresciuto nella sua pienezza.
L’espressione
«radice», presa dalla vita vegetativa, è una metafora significativa ed efficace
per rappresentare la dinamica della vita spirituale. Essa fa riferimento alla
sorgente di questa vita, a ciò su cui poggiare per crescere, a ciò che le dà le
risorse e la direzione del suo sviluppo.
Con
espressione astratta, ma più appropriata, si può dire che le radici sono i princìpi della vita spirituale. Se
paragoniamo invece lo sviluppo della vita spirituale alla costruzione di un
edificio, si può parlare allora della «base» o delle «fondamenta», alle quali, una
volta l’edificio terminato, corrispondono il «vertice», il «culmine» o la
«cima». E anche tutte queste espressioni sono metafore o immagini per
significare la perfezione somma, finale ed ultima della vita spirituale.
Ma c’è questa
differenza, che le radici di un albero hanno una forza vitale autonoma, che provoca
la crescita dell’albero, mentre nel caso delle fondamenta di un edificio, se non
c’è il costruttore che innalza i muri, le fondamenta da sole non producono nulla.
Per questo, il termine radice rappresenta
meglio la crescita vitale dello spirito che non termini come base o fondamento.
La radice,
ossia il punto di partenza e l’energia originaria dello spirito non è la
libertà, ma la verità. La verità, come dice Cristo, ci fa liberi (cf Gv 8,32) e
non è la libertà che ci rende veri, perché la verità è adeguazione del nostro
pensiero alla realtà e non libera creazione della realtà. Questo spetta solo a
Dio creatore.
Nella
conoscenza o nella scienza, condizioni psicologiche necessarie per esercitare
la libertà, non si tratta di essere «creativi», come si dice oggi, ma di essere
fedeli al dato reale, che non é creatura nostra, ma di Dio. La creatività,
semmai, riguarda l’arte e la poesia, e sempre in modo limitato, ma non il
sapere teoretico e morale.
L’attività
dello spirito inizia con quella dell’intelletto congiuntamente a quella della
volontà. L’intelletto, utilizzando l’evidenza sensibile immediata, pronuncia
spontaneamente e necessariamente i giudizi primi, immediatamente evidenti, che
costituiscono le prime verità, fondamento di ogni successiva acquisizione
conoscitiva. Sono la nozione dell’ente e del vero, l’affermazione
dell’esistenza delle cose, il principio di identità, di non contraddizione, di
causalità e di finalità[3].
Congiuntamente
all’atto dell’intelletto entra in funzione il libero arbitrio, il quale ha la
facoltà di muovere o non muovere l’intelletto alla formazione di quei giudizi,
e successivamente alla formazione di tutti gli altri dedotti da quei primi, nel
campo speculativo e nel campo morale.
Qual è il
massimo dei valori dello spirito?
Qual è il
vero posto della libertà nella vita dello spirito? Si trova alla radice? No, si
trova al culmine, al vertice[4].
La libertà è lo scopo, la pienezza ed il
fine della vita cristiana, come dice S.Paolo: «Siete stati chiamati a libertà»
(Gal 5,13). Ma poi l’Apostolo precisa immediatamente: «Purchè però questa
libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne» (ibid.).
Ma la vera
libertà, prosegue l’Apostolo, sta nell’esercizio della carità. È – prosegue
S.Paolo – libertà dal male; è dono della grazia di Cristo, e cioè precisamente
libertà dal peccato, dalla morte e da quel legalismo farisaico, che più tardi
si sarebbe espresso nel pelagianesimo, per il quale l’uomo crede di poter
acquistare la grazia ed autodivinizzarsi col proprio merito e la propria
volontà. Sarà poi questo, a partire dal sec.XVIII, il sogno della massoneria e
dell’idealismo tedesco.
Che cosa è meglio?
La libertà o la carità? Cosa è che rende più felici? Qual è la più alta perfezione?
Dov’è di più la santità? La carità è meglio della libertà. La carità, come dice
Paolo, è «il vincolo della perfezione» (Col 3,14). E d’altra parte – precisa
S.Paolo (I Cor 2,6) - «tra i perfetti parliamo di sapienza», che è dono dello
Spirito Santo ed effetto della carità. È conoscenza affettiva dei misteri
divini, che fa pregustare la gioia della visione beatifica.
La libertà,
invece riguarda il soggetto come tale, libero da ogni male di pena e di colpa.
Riguarda il singolo. Invece la carità riguarda la comunione con gli altri e con
Dio. Essa riguarda il fatto che il soggetto si trovi in relazione finale con
Dio e col prossimo, che gli assicura il possesso del sommo bene e della felicità.
Ora per il
singolo è meglio essere in comunione, il che è assicurato dalla carità, che non
dalla sua libertà di singolo, che in fin dei conti è funzionale alla comunione
della carità. Solo Dio può vivere da solo, benché Egli stesso sia trinitario.
Anche la solitudine eremitica è sempre rapporto con Dio e col prossimo.
Inoltre la
libertà del singolo vale di meno della libertà collettiva, che è assicurata dalla
carità. L’aspirazione alla libertà dev’essere quindi ordinata dalla carità. È
qui che si trova la santità. Preferire la libertà alla carità è egoismo. E la libertà
è fine della vita cristiana solo in quanto condizione ottimale della carità.
Inoltre,
bisogna stare attenti che la carità è frutto dell’obbedienza. Noi amiamo coloro
ai quali obbediamo, Dio innanzitutto. Ora è vero che la vera libertà sta
nell’obbedienza, perché è obbedendo a Dio che ci liberiamo dal male. In lege libertas, dicevano i Latini. Non
è vera libertà quella che non tien conto delle promesse, della parola data e degli
impegni presi, quella che vorrebbe scuotere il giogo della legge o sciogliere
il vincolo dell’obbligo morale o spezzare un legame di fedeltà, ma è segno di
superbia, è stolta volubilità, è incostanza, è indisciplina, infedeltà, tradimento,
defezione e ribellione. Occorre sì esser liberi da impacci e da freni; ma occorre
sapere ben distinguere ciò che lega la volontà, perché la potenzia nel bene, da
ciò che la lega nella schiavitù del male.
Ma chi
obbedisce limita la propria libertà di fatto o di partenza, anche se in vista
di una migliore libertà ottenuta obbedendo. Assoluto invece è la carità, della
quale più ce n’è, meglio è. La libertà,
quindi, non è un assoluto, ma è regolata e relativa al conseguimento dei nostri
fini, al soddisfacimento delle nostre esigenze
ed al compimento dei nostri doveri.
Quando la
libertà è piena, ha esaurito il suo compito, perché si suppone che il soggetto
non abbia bisogno di altro. Chi è libero da ogni male, come in paradiso, in cos’altro dovrebbe essere libero, se ha
già tutto ciò che desidera e fa già tutto quello che vuole e che può, senza
peccare e senza soffrire?
Eccessiva
può essere la libertà di coloro, i quali trasgrediscono i limiti
consentiti dalla legge; mentre viceversa
è frustrata la libertà di quelle persone, le quali o per ignoranza o per pregiudizi
o per scrupoli o per paura o per rispetto umano o per altri motivi, non approfittano
di tutto quello spazio di libertà che è loro consentito.
Lutero per
la libertà senza il libero arbitrio
Contro la pretesa
dell’autodivinizzazione o esaltazione prometeica delle forze umane si scaglierà Lutero, ma cadendo
nell’eccesso opposto di negare il libero
arbitrio, che invece, per quanto indebolito dal peccato originale, resta
sempre il mezzo e il modo naturale e indispensabile per l’uomo di agire in
grazia moralmente, responsabilmente e meritoriamente, nell’obbedire, sia pur
imperfettamente, ai divini comandamenti
ed alle leggi della Chiesa e di ottenere sempre di nuovo il perdono dei peccati
e la grazia della giustificazione.
Così per
Lutero il cristiano è paradossalmente schiavo e libero ad un tempo: schiavo, perché
il libero arbitrio resta schiavo del peccato; libero, perché, grazie alla fede,
fruisce della libertà del figlio di Dio, graziato gratuitamente senza il
bisogno delle opere buone, che sono impossibili. Ma ci domandiamo che libertà
produce una grazia, che lascia l’uomo schiavo del peccato.
È
interessante confrontare la negazione del libero arbitrio in Lutero e in Freud.
Lutero certamente ammette in linea di principio il primato dello spirito e
quindi la possibilità e il dovere che lo
spirito e la volontà abbiano il dominio della passione e della concupiscenza o,
come si esprime S.Paolo, della «carne». Ma ritiene che nella natura decaduta a
seguito del peccato originale il libero arbitrio non esiste, nel senso che è
schiavo della carne e del peccato. Esso però verrà ritrovato in cielo, dove
l’uomo sarà per sempre libero, grazie a Cristo, dal peccato.
Invece
tutt’altra atmosfera troviamo nella psicologia materialista freudiana, per la
quale l’energia radicale e direttiva dell’uomo non è affatto lo spirito, che
peraltro non viene negato, ma considerato solo come fondamentale istinto sessuale,
senza aspirazioni spirituali e tanto meno ultraterrene, che egli chiama libido, che si sublima nello spirito
restando materia, e che, come tale, sa muoversi nelle categorie della scienza –
lo psicanalista -, per liberare il
paziente dall’illusione del libero arbitrio, della religione e del destino
ultraterreno.
Per Lutero
Cristo ci rende liberi gratuitamente. Tuttavia egli non intende correttamente
questa gratuità, perché non sa conciliarla con le opere. Quando infatti il
Profeta Isaia invita ad impossessarsi dei beni messianici, «senza spesa» (Is
55, 1), perché sarebbero gratuitamente a disposizione di tutti, o quando
S.Paolo dice che l’elezione alla salvezza non è per le opere, ma per grazia,
«altrimenti la grazia non sarebbe grazia» (Rm 11,6), si pongono sotto il
profilo dell’azione divina, ma non
escludono affatto che il regno, sotto il profilo dell’agire umano, possa e debba essere oggetto di conquista (cf Mt 11,12), e che la perla preziosa debba «essere comprata» (Mt 13,46) o che, come dice il
Concilio di Trento in vari modi, citando i rispettivi passi biblici, il regno
di Dio debba essere acquistato con i meriti
delle nostre fatiche, dei nostri sacrifici, delle nostre opere buone e
dell’osservanza dei comandamenti.
Infatti la salvezza secondo la Rivelazione risulta
dal concorso dell’agire divino col libero
agire umano. Dio non salva dei pesi morti o chi vuol fare il furbo o
viaggiare o mangiare a scrocco o senza lavorare o chi resta attaccato ai propri
peccati e ai propri comodi, o che fa da bastian contrario, ma solo coloro che
si impegnano con tutte le forze a convertirsi, ad obbedire alle leggi di Dio,
ad operare generosamente, a seminare abbondantemente, ad arricchirsi di meriti,
a progredire continuamente verso il regno e a perseverare tenacemente fino alla fine.
Lutero
ovviamente non negava la necessità delle buone opere per la salvezza. Le
ammetteva, ma solo come effetti inevitabili della fede e della grazia, non come
causa dell’aumento della grazia. Invece bisogna dire che le opere non sorgono
necessariamente, meccanicamente e deterministicamente dalla fede, come credeva
Lutero, il quale fraintendeva la
parabola evangelica dell’albero buono (Mt 7,17).
Lutero non
sia accorse o trascurò il fatto che Cristo lì non intende affatto negare la
possibilità che uno abbia la fede e sia in grazia, ma che, per colpa sua, perda la grazia o la fede stessa, non
mettendo in pratica le opere che la fede comanda. Gesù, con quel paragone,
intende invece dire che, se ci sono frutti buoni, vuol dire che l’albero è
buono.
Libero
arbitrio e libertà
Bisogna
distinguere il libero arbitrio dalla libertà. Si tratta sempre dell’esercizio
della volontà; solo che nel primo caso la volontà, nello stato di natura
decaduta ed inclinata al peccato, pur potendo in linea di principio scegliere
la giustizia e il peccato, tende a scegliere il peccato.
Nel secondo
caso, invece, che sarà pienamente proprio solo della natura beata, la volontà è
definitivamente libera da ogni male di pena e di colpa e fruisce per sempre in
cielo della visione beatifica di Dio. La volontà che pecca non è libera, ma, come
afferma Cristo, «è schiava del peccato» (Gv 8,34). Si deve dire allora che la
volontà del dannato resta eternamente schiava dello stesso peccato, al quale ha
voluto essere attaccata.
Tutti gli
uomini per natura posseggono il libero arbitrio; ma non tutti sono liberi o raggiungono
la libertà. Il libero arbitrio ce l’hanno anche i dannati dell’inferno; veramente
liberi sono solo i beati del paradiso. Sulla tomba di Martin Luther King c’è scritto: «finalmente libero!».
Il libero arbitrio
è inevitabile, a meno che uno non sia al di sotto dell’età di ragione, non sia un
demente o non si sia ridotto al livello delle bestie. In questo senso Sartre
dice che siamo condannati ad essere liberi. La libertà, invece, è una conquista
e un dono di Dio.
Nel processo
della giustificazione, l’atto umano in via di essere giustificato, ha una
duplice causa: c’è la causalità divina della grazia, che non manca mai di agire;
e c’è la libera causa umana, ossia il libero arbitrio, che può agire come non
agire, appunto perchè libera. Se l’uomo resiste alla grazia, essa non può
portar frutto. Se invece l’accoglie, mosso dallo stesso impulso della grazia,
l’uomo agisce nella libertà dei figli di Dio (cf Rm 8, 14-15), e raggiunge in
cielo la pienezza eterna della libertà, per cui la libertà non è la radice, ma
l’espressione piena e matura, la santità del vivere cristiano, corrispondente
alla perfezione della carità e pregustazione in terra della vita futura.
P.Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato,
12 maggio 2019
[1] Umanità, la storia di Dio, Queriniana
1992, p.215.
[2] Ibid., p.220.
[3] Cf J.Maritain, Sept leçons sur l’être
et les premiers principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1933.
[4] Cf la raccolta di scritti di
Tomas Tyn sul tema della libertà, che ho pubblicato sotto il titolo di La liberazione della libertà. Il messaggio
di P.TomasTyn ai giovani, Edizioni Fede&Cultura,Verona 2008.
Caro padre Giovanni,
RispondiEliminarileggendo questo suo articolo del 2019 mi sono ricordato di un articolo di un altro dei miei venerati maestri, padre Gustavo Eloy Ponferrada, altro grande tomista e maritainiano: "La verità, radice della libertà".
In lingua spagnola si trova al l'indirizzo: https://repositorio.uca.edu.ar/bitstream/123456789/12720/1/verdad-raiz-libertad.pdf
Caro Ross,
Eliminami fa molto piacere venire a conoscenza di questo discepolo di San Tommaso, che tratta del tema importantissimo, toccato da Nostro Signore, del rapporto tra verità e libertà, tema che purtroppo il pensiero idealistico ha capovolto facendo dipendere, come in Heidegger, la verità dalla libertà. E’ la tipica posizione del volontarismo, che invece di condurre alla libertà fa l’apologia della violenza e della sopraffazione.