L’avventura della metafisica - Parte Sesta (6/6)

 

L’avventura della metafisica

Parte Sesta (6/6) 

 

L’uomo-essere e l’essere-uomo

 Con questa concezione della metafisica si può immaginare che cosa diventa la metafisica e che cosa diventa l’uomo: la metafisica si immiserisce e restringe, si chiude nei limiti della storia, del corruttibile e del contingente, e lo sguardo diventa incapace di riflettere, di penetrare, di approfondire, di distinguere, di unire, di intuire, di astrarre, di spaziare, di sintetizzare nell’ordine dell’essere,  nonchè di purificarsi ed elevarsi al mondo del puro spirito, e dell’orizzonte infinito dell’intelligenza, della conoscenza, della coscienza, della logica, dell’anima, degli angeli, della verità, della libertà, della vita, del sacro, del mistero, del divino, della trascendenza, dell’infinito, dell’assoluto, dell’eterno.

L’uomo[1], per Rahner, è «l’assoluta apertura all’essere in genere»[2]. Questa maniera metafisica di definire l’uomo è certamente suggestiva, perchè effettivamente l’uomo, come osserva anche San Tommaso, in quanto possiede un’anima spirituale, è un ente è «atto a convenire con ogni ente» (natum convenire cum omni ente)[3].

È anche vero che la metafisica è al servizio dell’uomo nel senso che, come nota San Tommaso al seguito di Aristotele, benchè essa orienti l’uomo ad un essere che lo trascende, Dio, nel contempo però essa, come riconosce anche la Bibbia, è una scienza regolatrice, unificante ed organizzatrice delle altre scienze, quindi assicura capacità di governo e di conduzione delle stesse cose umane. Osserva infatti San Tommaso:

 

«Tutte le scienze e le arti sono ordinate all’unità, cioè alla perfezione dell’uomo, che è la sua beatitudine. Per cui occorre che una di esse regga tutte le altre, ed essa giustamente rivendica il titolo di sapienza»[4].

Così la metafisica guida anche le scienze morali non però entrando nel dettaglio dei doveri da mettere in pratica, cose di loro competenza, ma indicando il  fine ultimo dell’agire umano, la scala di valori da rispettare e lo spazio concettuale all’interno del quale l’azione deve muoversi, perché l’uomo non fatichi invano e non cerchi quello che non può trovare o  per cose per le quali non ne vale la pena.

Resta sempre tuttavia che la metafisica è ordinata alla beatitudine dell’uomo non nel senso che l’uomo sia l’oggetto supremo della metafisica, ma nel senso che egli se ne serve per raggiungere il suo fine ultimo, che è Dio, bene supremo che trascende la semplice ontologia come scienza dell’ente (ciò che ha l’essere) e riguarda lo stesso ipsum Esse, oggetto della teologia.

L’uomo dunque, benché aperto mediante l’intelletto all’essere universale, non appartiene come ente all’ordine trascendentale se non in quanto si pone con lo spirito in relazione con quest’ordine; con lo spirito egli trascende ogni limite; s’innalza alla conquista dell’assoluto, ha la percezione dell’eterno e dell’infinito, ne sente l’attrattiva e il desiderio. Si rende disponibile all’influsso della grazia che lo rende figlio di Dio; diventa, come dice Rahner, «uditore della Parola».

Rahner, tuttavia, sembra rendersi conto dell’inganno che viene da una visione puramente spiritualistica dell’uomo e cerca di rimediarvi con l’introduzione dell’elemento materiale, ma lo fa ispirandosi a una concezione relativistica della natura umana, per cui questa appare come un semplice materiale mutevole e plasmabile ad arbitrio dalla libertà della persona.

Rahner non tiene conto del fatto che l’uomo non è semplicemente apertura all’essere. Il suo orientamento verso Dio è insito nella sua natura come semplice inclinazione, ma sta alla responsabilità di ciascuno di noi metterlo effettivamente in atto o meno, perché in forza del libero arbitrio c’è chi dice di sì a Dio e c’è chi Gli dice di no e non per questo l’uomo perde la sua apertura all’essere.

Certo, l’apertura all’essere è costitutiva della mente umana. Anche chi odia la metafisica, se pensa, pensa per forza all’essere, dato che l’oggetto del pensiero è l’essere. Ma se l’uomo poi non sceglie deliberatamente di aprirsi all’ipsum Esse, a Dio, a che cosa gli serve l’apertura all’essere? Anche il dannato dell’inferno conserva la sua apertura all’essere, ma a che gli è servita, se non ha scelto di aprirsi a Dio?

Questo vuol dire che dobbiamo distinguere l’essenza dell’uomo dalla sua perfezione morale, nella quale trova la sua felicità e il compimento ultimo delle sue potenzialità positive. Un conto è essere uomo e un conto è essere un uomo felice. Non basta essere uomo per essere felice.  Il semplice esercizio della libertà non dà ancora la felicità, se non avviene nell’osservanza della legge naturale e divina.

Questo vuol dire che l’apertura all’essere non basta a definire il bene dell’uomo, ossia l’attuazione sana delle sue inclinazioni e potenzialità. Per ottenere questo, occorre rifarsi ad una vera antropologia, che consideri con attenzione ed oggettività le caratteristiche proprie, precise ed esclusive della natura umana e le sue proprie leggi e finalità, una natura che distingue l’uomo dagli altri enti del reale e dagli altri viventi.

Non basta definire l’uomo in termini di essere, perché in fin dei conti ogni ente è apertura all’essere divino, fine ultimo di tutte le cose. Ma la norma di vita dell’uomo non è la stessa della pianta, del cavallo o del cane o dell’angelo. E dunque, se l’uomo non vuol semplicemente vegetare o vivere come un animale o non ha la pretesa di agire come fosse un puro spirito e neppure si sente di uguagliarsi a Dio, al fine di regolarsi nella vita, dovrà ben conoscere, in base ad una conoscenza sicura ed oggettiva della natura umana[5], quali sono i suoi doveri, quali le regole del suo agire e non credere di poter fare tutto quello che gli viene in mente per il semplice fatto di essere un’apertura all’essere.

Il concetto rahneriano di «apertura», desunto da Heidegger (Offenheit) è bello ed oggi usatissimo, ma ha un doppio senso: un conto è l’essere aperto nel senso di potersi aprire e un conto è l’essere effettivamente aperto. La chiusura non è di per sé un male, se ciò che adesso è chiuso si può aprire. Una porta non chiusa a chiave, anche se attualmente chiusa, di può aprire e quindi in tal senso si può dire che è aperta.

L’uomo è essenzialmente aperto con l’intelligenza all’essere in quanto vero, ma non con la volontà. Sta a lui in tal senso, sta alla scelta di ciascuno di noi, aprirsi o chiudersi all’essere in quanto bene e Dio, sommo essere e sommo bene.

Il semplice vero non basta a definire il bene dell’uomo, se non interviene il volere e quindi lo scegliere quale essere. Occorre che si apra all’essere con la volontà. Occorre cioè che l’essere appaia come bene, come appetibile, come praticabile. La semplice apertura intellettuale all’essere, propria dell’uomo in quanto tale, fonda la conoscenza della verità, ma non basta a fondare la morale.

La mente umana, se vuol pensare, si apre necessariamente all’essere, ma si apre a Dio, sommo essere, solo per libera scelta, potendo la volontà appetire un bene che non è Dio.  Eppure la mente resta sempre nell’orizzonte dell’essere. Quindi il fatto che sia aperta a Dio potenzialmente in tutti per il fatto stesso di essere uomini o donne, non vuol dire che la scelta sia attualmente in tutti, ossia che  tutti facciano necessariamente la scelta di Dio.

Quanto poi alla natura umana, è importante tener presente che, come sappiamo anche dal dogma cattolico[6], essa non è, come crede Rahner, una semplice possibilità astratta,  un qualcosa di indeterminato e di indefinibile, un materiale informe che può assumere infinite forme, quante ognuno vuol imprimere in essa, no: la natura umana è un’entità ben precisa ed immutabile, creata da Dio, comune a tutti gli individui, base quindi dell’uguaglianza e fratellanza umane, entità sostanziale vivente, dotata di accidenti propri, composta di anima e corpo, corruttibile nel corpo, immortale nell’anima, composta di materia e forma, dualità di maschio e femmina, delimitata e definita quindi per genere e differenza, sì che l’agire umano deve lasciarsi regolare, moderare e misurare da ben precise leggi  poste da Dio stesso nella natura maschile e femminile, affinchè l’uomo possa raggiungere il fine per il quale è stato creato.

Una stima esagerata della dignità umana, che calca troppo sulla potenza del pensiero e della volontà, un’enfasi eccessiva del rapporto dell’uomo con l’essere, con l’assoluto, con lo spirito, con l’eterno o con l’infinito, crea nell’uomo una superbia e un’arroganza, che Dio castiga con la stoltezza e la schiavitù della carne, perchè l’uomo, mancando dell’umiltà di assoggettarsi alla disciplina morale, non controlla più le sue passioni e crede di essere libero e illuminato, laddove invece diventa cieco e schiavo della carne. Così succede che gli idealisti, che pur spesso sono menti geniali, cadano in certi pensieri o propositi spropositati, assurdi ed empi, la cui follia è riconoscibile anche da un bambino, come avviene nella favola del re nudo.

L’esperienza trascendentale

di Johannes Lotz

Johannes Lotz propone una metafisica basata non sull’intellezione dell’ente colto astrattivamente e giudicativamente partendo dall’esperienza sensibile delle cose esterne, ma mediante l’esperienza dell’autocoscienza, alla maniera di Cartesio, così come questa autocoscienza si esplicita in Kant con quella che egli chiama «filosofia trascendentale», per la quale egli non chiama più trascendentale l’ente, come avviene nella metafisica aristotelico-tomista, ma l’intelletto o la ragione in quanto contengono rispettivamente concetti e idee a priori, detti forme a priori,  come condizione di possibilità della conoscenza degli oggetti dell’esperienza.

Lotz, a somiglianza di Maréchal, ritiene che il trascendentale kantiano sia conciliabile con quello tomista, nel senso che mentre questo espliciterebbe la nozione dell’ente contenuta nel trascendentale kantiano, questo offrirebbe la fondazione critica e riflessa del realismo e del trascendentale tomista[7].

Ma le cose non stanno così. In realtà dalle forme a priori dell’intelletto e dalle idee della ragione kantiane non è possibile ricavare nessuna nozione dell’ente o dell’essere, come si era illuso anche Rosmini[8], ossia non si può ricavare una vera metafisica realista, ma chi ha capito ed esplicitato veramente il trascendentale kantiano nelle sue vere virtualità è stato Fichte, che ha compreso che l’idealismo kantiano poteva reggere da solo senza appoggiarsi a quel residuo di realismo che era la cosa in sé.

Se infatti vogliamo eventualmente trovare la presenza dell’ente nella filosofia kantiana, non dobbiamo cercarla sotto le forme a priori, ma dietro alla cosa in sé. Questo sarebbe il vero trascendentale; ma è chiaro che Kant, spostando il trascendentale dall’oggetto al soggetto, e seguendo l’egocentrismo di Cartesio, ha orientato l’intenzione del conoscere dalla realtà esterna all’io penso, ha attribuito al soggetto umano un’autosufficienza ontologica che negli epigoni di Kant porterà al panteismo e all’ateismo. Il trascendentale kantiano non è il trascendentale «moderno», ma è il trascendentale sbagliato. E il trascendentale tomista non è quello «classico», ma quello giusto.

Quanto poi a credere che debba esser Kant a dare la fondazione critica al realismo, questa è un’idea sbagliata, perché la metafisica tomista sa benissimo costruirsi una ben fondata critica della conoscenza con i propri mezzi, come ha dimostrato abbondantemente il Maritain[9] senza dover ricorrere a Kant, che sostituisce l’idealismo al realismo.

La metafisica che propone Lotz comporta un’esperienza intellettuale ed affettiva ad un tempo, da lui chiamata «esperienza trascendentale»[10], dove entra in gioco sia l’intelletto che la volontà, sia l’intendere che il volere. È un esperire congiunto del proprio io, del proprio sentire, del proprio intende e del proprio volere. Dunque un’esperienza dell’essere, del vero e del bene trascendentali, implicitamente includenti l’io, il mondo e Dio. Ma esiste una simile esperienza? Non ricorda forse la concezione ontologista o l’innatismo cartesiano o l’idealismo hegeliano o la fenomenologia husserliana?

È chiaro come Lotz s’inserisce nel filone volontaristico della filosofia cristiana, che ha i suoi inizi con lo scotismo, sviluppo cristiano della metafisica platonica del bene come epèkeina tes usias, al di là dell’ente, da cui l’importanza essenziale dell’eros nella percezione della verità. Nella VII Lettera di Platone, infatti, ha origine quella conoscenza «per affinità», alla quale lo stesso San Tommaso[11] si ispira per spiegare l’esperienza mistica nella quale la verità è conosciuta nella luce della carità e il sapere è effetto dell’amare.

Il Lotz, in questa impostazione della metafisica è preceduto dal Padre Joseph Maréchal[12], il quale negli anni ’20 del secolo scorso, tentò, con una serie di studi accurati, di mostrare che è possibile ottenere il realismo tomista dalla filosofia trascendentale kantiana mettendo in rilievo il dinamismo dell’intelletto nella percezione dell’ente. In tal modo il punto di partenza attivo della metafisica tomista, ossia l’intelletto che agisce in vista di cogliere l’ente viene assimilato alla ragion pratica kantiana che agisce operando il bene secondo la legge morale conformemente all’ideale della ragione. Kant afferma che la sua critica pone le condizioni per edificare la metafisica come scienza[13].

Da notare al riguardo, come mostra il Maritain[14], che la stessa gnoseologia kantiana è vittima di una confusione del sapere col fare, un principio che sarà adottato da Fichte e che, attraverso Schopenhauer, Schelling ed Hegel, arriverà fino a Nietzsche.

Ora, Maréchal crede di poter ricavare appunto la metafisica come scienza in accordo con la metafisica di San Tommaso interpretando però in un senso volontarista la gnoseologia dell’Aquinate, come già aveva fatto Pierre Rousselot[15] all’inizio del secolo.

Il Maréchal con la sua teoria del «dinamismo» dell’intelletto sembra confondere l’esercizio dell’attività intellettuale, che è certamente volontario, con la specificità o essenza dello stesso atto conoscitivo, alla maniera kantiana, per la quale l’intelletto non riceve la forma della cosa, ma dà la forma a priori all’oggetto, la cui materia è colta a posteriori dall’esperienza della cosa esterna.

Similmente Rosmini sarà tratto in inganno dalla suddetta visione kantiana fabbricatrice o poietica del conoscere, con la differenza che Rosmini pone come unica forma a priori l’idea dell’essere o essere ideale. Ora, bisogna dire con tutta chiarezza che il conoscere, in realtà, non è un composto di materia e forma come un artificiato, ma, per esprimerci in linguaggio scolastico, è un habere in anima formam rei extra animam intentionaliter sive repraesentative vel per verbum interius, ossia per mezzo di una similitudine mentale della cosa che è il concetto della cosa stessa. Senza questa gnoseologia realista la metafisica o è una costruzione per aria o è un surrogato della mistica frutto dell’emozione creativa.

Il volere al posto dell’essere

Il volontarismo comporta una riduzione dell’intelletto alla volontà e quindi la confusione dell’essere col volere e dell’ens col bonum. L’intelletto è umiliato davanti a una volontà prepotente che vuol sostituirsi a lui combinando guai. Il vero allora non dipende dalla recettività o potenzialità o passività dell’intelletto ma dall’attività o tendenza pratica o affettiva della volontà. All’umiltà dell’intelletto che vuol assoggettarsi al reale per essere nella verità (adaequatio iuntellectus et rei), la volontà pretende di comandare alla realtà perchè sia quello che vuole lei. In tal modo l’azione non è illuminata dalla verità conosciuta, ma la verità emerge dall’azione stessa.

Si comprende come simile dottrina sia dannosa sia dal punto di vista speculativo, perché dirige l’intelletto verso il nulla o il chimerico anziché verso l’essere e sia dal punto di vista morale, perchè fa agire la volontà alla cieca, non illuminata dalla verità.

Tale dottrina si sposa bene col fanatismo e con i regimi dittatoriali, dove ciò che importa è obbedire e si combina con la vita dissoluta, schiava delle passioni. Certo, nelle forme leggere, è compatibile con la teologia e l’etica cristiana, come in Duns Scoto od Ockham, dove il vero continua a guidare l’azione, benché dipenda dal volere e non dal sapere. Scoto ammette l’esistenza del vero, ammette che il bene è un vero, ma sostiene che è la volontà che determina il bene.

Nel volontarismo il bene non dipende dalla verità ma dalla volontà; la volontà appare in Scoto come perfezione pura[16] indipendente in Dio dall’intelletto e ad un tempo identica all’intelletto. Qui il sapere si salva benché identico al volere; tuttavia basterà che Ockham sostituisca l’universale dell’intelletto col concreto della volontà, che il bene non trova più la sua ragione nel vero, ma nella semplice volontà.

Per Ockham infatti Dio vuole il bene non perché è sapiente, ma perché è libero e onnipotente. Quando Dio agisce, non mette in pratica il vero, ma ciò che vuole è con ciò stesso bene e vero bene. Egli è libero di decidere lui ciò che è bene ed è svincolato dal vero perchè egli stesso con la sua volontà stabilisce ciò che è vero.

Per il volontarismo il bene non dipende dalla verità, ma dalla stessa volontà, per cui non è bene ciò che  è vero, ma ciò che è voluto. Nella visione volontaristica la ragione del comando non è più la stessa ragione, ma la pura volontà, per cui il volere non appare come pratica del sapere ma come pratica dello stesso volere. L’agire non è motivato, ma è fine a se stesso. Si intuisce quanti pericoli per l’ordine morale si nascondono, magari sotto pretesto dell’amore o della libertà, in una visione del genere.

Il volontarismo contiene un principio di offuscamento dell’intelletto, che, se lasciato libero di agire, prende il sopravvento fino alle estreme conseguenze e finisce per assoggettare l’intelletto ad un impulso cieco, che non è più la volontà, non più illuminata dall’intelletto, ma è la passione o l’appetito sensitivo senza freni morali.

Cartesio è maestro di volontarismo. Il suo cogito, come ha notato bene il Fabro, è in realtà un volo. Come si accorgerà Fichte, non è un adeguarsi, un ricevere, un accogliere l’altro, ma un porre (setzen), che è un imporre. È un atto di violenza.  Gentile dirà che è un creare se stessi (autoctisi). Il dubbio circa la veracità dei sensi non è risolto, sicchè la certezza cartesiana non è una umile certezza necessitata dall’evidenza, ma forzata dalla mia volontà. L’assenso del giudizio non è effetto di una visione oggettiva, ma di una decisione arbitraria, gratuita e interessata, tipica del volontarismo. 

Il vero, come dirà Vico, è il fatto, è l’azione compiuta. Il bene è bene per il semplice fatto che è stato un fatto. Per Fichte l’essere coincide con l’agire; per Schopenhauer la volontà di vivere è fine a se stessa; per Schelling il vero dipende dalla libertà. Per Marx dipende dalla prassi. La volontà vuole se stessa, come dirà Hegel, sicchè l’essere, in Nietzsche, come fa notare Heidegger[17], coinciderà con la stessa volontà di potenza. L’estremo volontarismo concepisce l’essere come volere, come fare e come prassi; l’essere diventa l’azione umana. La metafisica di Heidegger e di Rahner, che riducono l’essere all’essere umano, contengono virtualmente questo principio.

Oggi il volontarismo metafisico assume toni attraenti presentandosi come metafisica dell’amore in Giovanni Colzani od «ontologia trinitaria» in Piero Coda o il Dio «amore senza essere» di Jean-Luc Marion. È di moda il misticismo di Gregorio Palamas, per il quale noi in cielo non vedremo l’essenza divina, ma sperimenteremo solo l’amore[18]. Ma resta la perplessità su quanto queste visioni rispettano la trascendenza e l’inviolabilità della verità rispetto alle nostre concupiscenze, alla voglia di affermazione della nostra volontà e di dominio sulla realtà e sul prossimo.

La Chiesa promuove la metafisica

come preambolo razionale alla fede

Come sappiamo, il Concilio Vaticano II ha dato un nuovo impulso al progresso della filosofia e teologia cattoliche e quindi anche della metafisica riproponendo come modello il pensiero di San Tommaso in una forma nuova, tuttavia, rispetto a quella proposta dai Papi dei secoli passati, i quali si fermavano a lodare le qualità eccelse della dottrina tomista sottolineando la sua utilità nella diagnosi e nella cura dei mali dell’intelligenza filosofica e teologica del tempo, soprattutto dell’intellectus fidei.

Occorre tuttavia intendere bene il significato dell’appoggio che la Chiesa dà alla metafisica. La metafisica è ad un tempo il sapere base di ogni uomo e la più elevata delle scienze. Papa Francesco, riferendosi ad essa come sapere basilare, spontaneo, originario, elementare, infallibile, universale, intuitivo, lo ha chiamato «il sapere comune della gente». A questo livello di base essa è accessibile a tutti e comprensibile da tutti.

Importante è la distinzione fra la metafisica come scienza accademica ed erudita o disciplina scolastica e la metafisica come senso comune, «sapere della gente», come dice il Papa, sapere di base spontaneo ed irrinunciabile della mente umana e della ragione naturale.

Aggiungiamo che la nozione dell’essere, nozione-base della metafisica, è chiara anche al bambino quando comincia ad usare la parola e il verbo essere. Nessuno insegna al bambino che cosa è l’essere. Lo capisce da solo sentendo pronunciare i tempi e i modi del verbo essere. Da solo si forma il concetto dell’essere e lo sa esprimere con la parola essere.

Tuttavia le sue nozioni originarie, comprese dalla mente intuitivamente, senza che le siano date le definizioni, come per esempio l’uso del verbo essere, o termini come «cosa», «io», «mio», «qualcosa», «sempre», «tutto», «vero», «buono», «questo», «voglio», «posso», «faccio», «penso», e simili sono apprese da tutti facilmente sin dalla fanciullezza.

Ciò vuol dire che l’intuizione o percezione o intellezione o esperienza dell’essere è spontanea e naturale alla mente umana come tale. In tal senso anche il bambino sa che cosa è l’essere, altrimenti non userebbe il verbo essere. La sua mente compie, inconsapevolmente ed implicitamente, un atto astrattivo col quale prescinde da tutti gli enti e si apre la possibilità di conoscere quel sommo e primo ente perfettissimo che è Dio[19], la cui essenza coincide col suo essere.

E d’altra parte anche il più consumato metafisico non sarà mai in grado di comprendere esaustivamente i segreti dell’essere, i quali, a parte i segreti della natura e del cuore imano, conducono al mistero stesso infinito dell’Essere divino. Da qui la possibilità per la metafisica di un continuo ed indefinito progresso ed approfondimento.

Tuttavia questo sapere metafisico può diventare scientifico mediante il ragionamento e l’apprendimento scolastico. È così che è nata la filosofia scolastica promossa dalla Chiesa. La metafisica diventa scientifica quando la ragione, applicando il principio di causalità, si eleva dal sapere sensibile delle cose materiali alla scienza di quelle spirituali, al vertice delle quali trova Dio. Abbiamo allora la metafisica scientifica o accademica, un sapere riservato a docenti e studiosi, incaricati dalla Chiesa della formazione del clero e dei laici interessati a questa disciplina.

Papa Francesco nel solco dei Predecessori

È in linea con questa prassi educativa secolare della Chiesa che Papa Francesco, nel solco delle indicazioni conciliari, ripropone il pensiero dell’Aquinate[20] come stimolo di progresso e come soccorso ai bisogni intellettuali e spirituali del nostro tempo e come metodo critico per il vaglio delle proposte teoretiche che ci vengono dalla modernità. Dice il Papa:

«San Tommaso è la fonte di una tradizione di pensiero della quale è stata riconosciuta «la novità perenne». Il tomismo non deve essere un oggetto da museo, ma una fonte sempre viva, secondo il tema del vostro Congresso: “Vetera novis augere. Le risorse della tradizione tomista nel contesto attuale”. Occorre promuovere, secondo l’espressione di Jacques Maritain, un “tomismo vivente”, capace di rinnovarsi per rispondere alle domande odierne. Così, il tomismo va avanti seguendo un doppio movimento vitale di “sistole e diastole”. Sistole, perché bisogna prima concentrarsi sullo studio dell’opera di San Tommaso nel suo contesto storico-culturale, per individuarne i principi strutturanti e coglierne l’originalità. Dopo, però, viene la diastole: rivolgersi nel dialogo al mondo odierno, per assimilare criticamente ciò che di vero e giusto c’è nella cultura del tempo»[21].

La raccomandazione fatta a favore di Tommaso da parte del Concilio e più di recente dal Papa attuale evidenzia invece l’utilità dei princìpi, del metodo e degli assiomi fondamentali (pronuntiata maiora) del tomismo per vagliare, discernere e trascegliere nell’immensa produzione del pensiero moderno o in ciò che comunque attira gl’interessi degli uomini di oggi, di antico o di moderno, i valori che possono essere assunti nel patrimonio della sapienza cristiana, sempre restando valido il dovere di individuare pericoli, lacune, rischi, insidie, errori ed eresie, al fine di avvertire, confutare, richiamare, correggere, purificare, liberare, eliminare l’errore.

Il Concilio ci ricorda in tal modo la perenne importanza della metafisica come scienza dell’ente e dell’essere. Chiede ai metafisici di chiarire il vero significato del termine «metafisica», cosa di cui c’è sempre bisogno, perchè spesso il termine viene usato in un senso sbagliato provocando equivoci e fraintendimenti che generano per la metafisica antipatie e ripugnanze, che non esisterebbero, se la parola fosse usata nel suo senso giusto e proprio, come fanno per esempio i tomisti.

Il sapere dell’infanzia evangelica

Resta sempre attuale il dovere dei metafisici di testimoniare, mostrare e dimostrare l’utilità ed anzi necessità della metafisica, come sapere primario, intuitivo, originario, radicale, certissimo, universale e fondante per la fondazione e giustificazione di tutte le scienze, le arti e le virtù, nonché per la retta interpretazione della rivelazione cristiana e quindi per l’esegesi biblica, per la teologia e per la formulazione dei dogmi e degli articoli di fede proposti ed insegnati dal Magistero della Chiesa.

In tal modo e per tali gravi motivi tutti i Papi del postconcilio, fino al presente Pontefice, si sono mantenuti su questa linea pastorale, avvertendoci in merito anche dei fraintendimenti, delle false interpretazioni del Concilio e condannando le opposizioni ad esso.

Infatti, dalla fine del Concilio, per quanto riguarda la metafisica come tanti altri aspetti della vita cristiana rinnovati dal Concilio, sono sorte due correnti devianti in conflitto fra di loro e in competizione nel riservare a se stesse il titolo di vero cattolico e l’appartenenza alla vera Chiesa: una di tipo conservatore, la sedicente Chiesa «tradizionale», che ha sospettato di modernismo le dottrine del Concilio e quindi si è rifiutata di accoglierle. L’altra, sedicente o cosiddetta «progressista», ma in realtà modernista, interprete del Concilio in senso modernista.

La prima, credendo di salvare contro le false innovazioni del Concilio, la tradizione e l’ortodossia cattolica e quindi la vera metafisica e il vero tomismo, vedendo nel pensiero moderno solo l’abbandono della metafisica, non ha capito la presenza di istanze metafisiche nel pensiero moderno, è rimasta ferma a un tomismo chiuso alla comprensione, apprezzamento ed integrazione dei valori della metafisica moderna, come per esempio quella di Kant, di Hegel, di Bergson, di Husserl, di Heidegger o di Severino. 

Tutto ciò è avvenuto contro lo spirito stesso della metafisica tomista, la quale, per la sua immensa apertura intellettuale, per la sua onestà nel correggere i propri errori, per il suo insaziabile desiderio di progredire nel sapere, per la sua capacità di discernere il vero dal falso, è strutturalmente fatta per realizzare un progresso continuo nell’assoluta fedeltà ai suoi princìpi inconcussi ed incontrovertibili.

Questa corrente, pertanto, che il Santo Padre ha qualificato come indietrista, non vedendo nel pensiero moderno altro che l’assenza della metafisica o il disprezzo o l’incomprensione per la metafisica o l’abbandono della metafisica o l’esistenza di false metafisiche o il fraintendimento dell’essenza della metafisica o la presunzione di aver trovato un filosofare superiore a quello della metafisica, non trova niente di meglio che il ritornare al tomismo preconciliare, che aveva quei difetti di eccessiva polemica contro il pensiero moderno, difetti ai quali appunto il Concilio ha rimediato proponendo una metafisica certo fedele ai suoi immortali princìpi, ma appunto perché fedele ad essi, sono capaci di infiniti sviluppi, ordinando ai metafisici e ai tomisti di assumere i valori delle moderne metafisiche o quanto meno di saper scovare e valorizzare le istanze metafisiche anche là dove esse sono nascoste sotto apparenze mondane o sembrerebbero negate o non sono intese in maniera pienamente corretta.

In realtà la metafisica, come qualunque forma del sapere umano, ha un carattere di crescita e di aumento, ha un carattere progressivo. Partita con Parmenide in Occidente e con la letteratura vedantica in Oriente, dopo aver posto le sue basi e i suoi princìpi indistruttibili ed eterni, non ha fatto altro che progredire, accrescersi e migliorarsi lungo i secoli e i millenni, sicchè è chiaro che la metafisica di oggi, la metafisica moderna è migliore di quella antica o delle origini, così come una pianta cresciuta è meglio della pianta allo stato germinale. Il sapere evolve non nel senso che muti il suo oggetto, ma nel senso che esso, nel corso del tempo, viene conosciuto sempre meglio.

La nozione dell’essere che hanno i metafisici di oggi, grazie alle ricerche e alle conquiste dei metafisici dei secoli passati, è molto più approfondita dell’einai di Parmenide o del sat indiano. E pure l’esse tomistico è oggi meglio conosciuto di quanto lo stesso Tommaso ne avesse conoscenza. Tale nozione si vale anche della nozione biblica dell’hawàh, presente per esempio in Es 3,14.

La seconda corrente a causa di  un fraintendimento delle direttive conciliari, ha dato origine a una metafisica falsamente innovatrice, per lo più di origine cartesiana e quindi idealista, inquinata dagli errori della modernità, per il fatto che, alcuni metafisici, ingannati da questi errori e fraintendendo il vero senso della metafisica di San Tommaso, invece di assumere i valori della modernità nel patrimonio immarcescibile della perenne sapienza cristiana, hanno costruito filosofie e teologie non solo contrarie alla ragione, ma anche alla stessa fede. Confondendo il moderno col modernista, il modernismo è risorto ormai da 60 anni, seppure in forma diversa ma aggravata, come segnalò il Maritain sin dal 1966[22], modernismo che già a suo tempo fu condannato d San Pio X.

Il compito urgente che s’impone oggi per la metafisica, come per molti altri aspetti della vita cattolica ed ecclesiale, è quello della ricerca di una conciliazione, di una integrazione reciproca e di una sintesi, con esclusione degli opposti estremismi ereticali, fra l’impostazione passatista che ho descritto, non priva di valori, in particolare quelli attinenti alla dogmatica e la tendenza modernista, essa pue con i suoi valori, che sono l’esigenza di essere aperti alla modernità.

Ma ecco come le due tendenze possono integrarsi e correggersi a vicenda: i passatisti, elucidando l’immutabile verità del dogma, ma aggiornandosi alla luce del Concilio ed assoggettandosi alla guida dell’attuale Pontefice; i modernisti, rinunciando al loro soggettivismo, storicismo e relativismo dogmatico, per determinare la forma storica di vita cristiana e di sapere filosofico, metafisico, teologico e dogmatico che risultano dall’assunzione critica dei valori della modernità, alla luce dell’immutabile verità del dogma e del vero che ci insegna la metafisica.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 marzo 2024


Il concetto rahneriano di «apertura», desunto da Heidegger (Offenheit) è bello ed oggi usatissimo, ma ha un doppio senso: un conto è l’essere aperto nel senso di potersi aprire e un conto è l’essere effettivamente aperto.

L’uomo è essenzialmente aperto con l’intelligenza all’essere in quanto vero, ma non con la volontà. Sta a lui in tal senso, sta alla scelta di ciascuno di noi, aprirsi o chiudersi all’essere in quanto bene e Dio, sommo essere e sommo bene.

Quanto poi alla natura umana, è importante tener presente che, come sappiamo anche dal dogma cattolico, essa non è, come crede Rahner, una semplice possibilità astratta, un qualcosa di indeterminato e di indefinibile, un materiale informe che può assumere infinite forme, quante ognuno vuol imprimere in essa, no: la natura umana è un’entità ben precisa ed immutabile, creata da Dio, comune a tutti gli individui, base quindi dell’uguaglianza e fratellanza umane, entità sostanziale vivente, dotata di accidenti propri, composta di anima e corpo, corruttibile nel corpo, immortale nell’anima, composta di materia e forma, dualità di maschio e femmina, delimitata e definita quindi per genere e differenza, sì che l’agire umano deve lasciarsi regolare, moderare e misurare da ben precise leggi  poste da Dio stesso nella natura maschile e femminile, affinchè l’uomo possa raggiungere il fine per il quale è stato creato.

È in linea con questa prassi educativa secolare della Chiesa che Papa Francesco, nel solco delle indicazioni conciliari, ripropone il pensiero dell’Aquinate come stimolo di progresso e come soccorso ai bisogni intellettuali e spirituali del nostro tempo e come metodo critico per il vaglio delle proposte teoretiche che ci vengono dalla modernità.

Immagini da Internet: Karl Rahner, Papa Benedetto XVI e Papa Francesco


[1] Cf il mio articolo L’antropologia di Karl Rahner, in Sacra Doctrina, 1, 1991, pp.28-55; Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, c. III.

[2] Ibid., p.66.

[3] Quaestio disputata De Veritate, q.1,a.1.

[4] Prooemium al Commento alla Metafisica di Aristotele, Editrice Marietti, Torino-Roma 1964, p.1.

[5] Questa trascuratezza o scetticismo o relativismo di comodo che dir si voglia nel determinare quali sono i caratteri essenziali e specifici della natura umana, quali sono le inclinazioni, facoltà, condizioni, possibilità, esigenze e finalità della natura umana si nota già nell’etica kantiana, certamente animata da un forte senso del dovere e dalla percezione dell’assolutezza ed universalità della legge morale,  ma poi latitante quando si tratta di stabilire quali sono i doveri da praticare per arrivare alla felicità. Sembra infatti che per Kant l’essenziale sia l’imporsi un dovere e agire per dovere. Riconosce che ogni uomo ha il senso del dovere. Ma poi, sembra che all’atto pratico, in concreto, ognuno sia libero di decidere lui che cosa è bene e che cosa è male. Come osserva il Maritain, c’è la forma della morale, ma manca la materia. Vedi la sua critica all’etica kantiana in La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia 1971,c.VI.

[6] Cf il Lateranense IV del 1215 (Denz.800), il Concilio di Viennes del 1312 (Denz.902)  e il Lateranense V del 1513 (Denz.1440).

[7] Cf Esperienza trascendentale, Vita e Pensiero, Milano 1993, pp.9-13. Vedi anche Metaphysica operations humanae methodo transcendentali explicata, Libreria Editrice dell’Università Gregoriana, Roma 1972, pp.16-18.

[8] Anche Heidegger ha creduto di poter trovare nel trascendentale kantiano una «precomprensione dell’essere» (Vorverständnis des seins) nascosta o implicita dietro alle idee e alle forme a priori. Vedi Kant et le problème de la métaphysique, Editions Gallimard, Paris 1953.

[9]

[10] Esperienza trascendentale, op.cit.

[11] Vedi Marco D’Avenia, La conoscenza per connaturalità in S.Tommaso D’Aquino, Edizioni ESD, Bologna 1992.

[12] Le point de départ de la métaphysique,  Louvain 1926.

[13] Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Carabba Editore, Lanciano 1924, pp.94, 137.

[14] Riflessioni sull’intelligenza, Editrice Massimo, Milano 1987, c.II.

[15] L’intellettualismo di San Tommaso, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 2000.

[16] Cf Walter Hoeres, La volontà come perfezione pura in Duns Scoto, Liviana Editrice in Padova, 1976.

[17] Cf Nietzsche, Edizioni Adelphi, Milano 2013.

[18] Yannis Spiteris, Palamas: la grazia e l’esperienza. Gregorio Palamas nella discussione teologica, con introduzione di Massimo Cacciari, Edizioni LIPA, Roma 1998.

[19] Il Catechismo di S.Pio X non sbaglia nel definire Dio come «essere perfettissimo». Evidentemente fu redatto da teologi acuti e pastori consumati che sapevano bene che già la mente del fanciullo è aperta all’idea dell’essere e capisce che cosa è l’essere. Oggi che ci si crede più intelligenti e più abili pastori si insinuano nella mente dei ragazzi delle idee di Dio per la quale Dio non si distingue da Babbo Natale o al Gigante Gulliver.

[20] Il 7 marzo scorso il Santo Padre in occasione di un convegno organizzato dalla Pontificia Accademia delle scienze sociali ha tenuto un importante discorso che si potrebbe considerare una vera e propria lectio magistralis di raccomandazione ed elogio del pensiero dell’Aquinate:

-      https://www.vatican.va/content/francesco/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2024/3/7/messaggio-laboratorio-pass.html

[21] Discorso ai partecipanti al congresso tomistico internazionale promosso dalla Pontificia Accademia di San Tommaso del 22 settembre 2022

[22] Le paysan de la Garonne, Desclée de Brouwer, Bruges 1966, p.16.

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