Il problema della coscienza di sé in Cartesio (Seconda Parte)

 

 Il problema della coscienza di sé in Cartesio 

Seconda Parte di Tre Parti

 

V. Il dubbio metodico

È stoltezza dubitare di ciò che è indubbio. Tuttavia si può verificare se un dato principio è veramente indubitabile. Lo si pone in dubbio e si vede che cosa succede. Se ponendolo in dubbio mi accorgo che nel negarlo lo affermo o che per negarlo devo servirmi di lui, allora vuol dire che è innegabile ed indubitabile. Quindi assolutamente certo. Questo è il principio di non-contraddizione.

Il dubbio più radicale è l’«universalis dubitatio de veritate»[1]. Esso si risolve facendo riferimento al principio di non-contraddizione, che dice: Non est adfirmare et negare simul. Il quale principio a sua vola si basa sul principio d’identità: un ente non può essere e non essere simultaneamente e sotto il medesimo rapporto.

Non è proibito al filosofo formulare questo dubbio a livello di ipotesi; ma poi, esaminandone il valore, si accorge immediatamente che è assurdo, giacché, se dubito della verità, sarà vero per me che la verità non c’è. E allora è evidente che faccio appello alla verità per negare la verità e questa è un’evidente autoconfutazione.

Comunque, anche prendendo per buono il cogito cartesiano, è vero che se dubito, penso e se penso, esisto. Ma perché questo? Perché diversamente dovrei ammettere che posso pensare e non pensare simultaneamente: il che è impossibile. Ma allora il primo principio della certezza non è la certezza di pensare, ma la certezza del principio di non-contraddizione e quindi in ultima analisi, non la certezza del mio essere, ma semplicemente la certezza dell’essere, che è l’oggetto del pensiero.

Il dubitare non è propriamente un pensare. Ma un’oscillazione del pensiero, è un oscillare tra il sì e il no. Se si concepisce il pensare a questa maniera, si pensa e non si pensa ad un tempo la stessa cosa, si afferma e si nega allo stesso tempo, contravvenendo al principio di non-contraddizione. Ma in tal caso il pensare diventa doppio e, disonesto. Il cogito cartesiano da un punto di vista morale è sorgente di disonestà e di doppiezza nel pensare per conseguenza nel parlare. Esso suppone la simultaneità dell’essere col non-essere, nega il principio d’identità e porta quindi al nichilismo.

Ma anche come fondamento della morale, il cogito cartesiano è ingannevole ed impostore, in quanto rischia di promuovere il liberalismo e il libertinismo in barba alle leggi della morale. Infatti, se è vero che il cogito riconosce la libertà dello spirito, poi, non riconoscendo come oggettiva la dimensione sensibile animale della persona umana, vista non come parte essenziale della persona, ma come sostanza corporea, res extensa, per sé opposta alla persona, sostanza ridotta ai movimenti meccanici corporei della res extensa, il cogito viene a mettere in dubbio o a toglier fondamento alla regolazione morale delle potenze sensitivo-appetitive e viene negata la possibilità di conoscere con certezza oggettiva le finalità materiali ed animali della persona, sicché svanisce come apparenza soggettiva la legge naturale, che dovrebbe regolare l’agire morale, mentre al suo posto resta solo sì un soggetto spirituale ed autocosciente, ma per nulla obbligato a rispettare quelle soggettive e discutibili finalità «naturali» animali della persona, ma libero di plasmare, dominare e godere a suo piacimento di una «natura» materiale o corporeità-res extensa messagli da Dio a sua disposizione.

Ancora per quanto riguarda il dubbio metodico, bisogna dire che primo dovere del filosofo è il sapere che cosa è dubitabile e che cosa è indubitabile. Cartesio dubita di tutto all’infuori del suo cogito. Ma in ciò non è affatto costretto dall’evidenza oggettiva, ma, come nota giustamente il Fabro, si tratta di una sua scelta o decisione puramente arbitraria, giacché tra tutte le cose che Cartesio lascia fuori dal suo cogito mettendole un dubbio, ce ne sono un’infinità che sono certissime. E d’altra parte, ammesso e non concesso che io possa dubitare di tutto, per quale motivo dovrebbe salvarsi dal naufragio solo il mio cogito? Se arrivo a dubitare del principio d’identità o di non-contraddizione, come fa Cartesio, chi m’impedisce di dubitare anche della verità oggettiva del mio pensare e del mio essere? Perché io solo dovrei esse certo di me stesso e dubitare di tutto il resto?

Cartesio non spiega perché dovremmo dubitare della certezza del senso e non della certezza di pensare. In fin dei conti il sentire è un’operazione che tutti capiscono, compresi gli animali. Ma noi siamo così tutti e sempre sicuri di sapere che cosa vuol dire pensare? Non è a dire che gli empiristi o i materialisti abbiano una corretta concezione del pensare. E allora? A loro dovrebbe esser preclusa la certezza?

Il fatto è che il principio del sapere e della certezza non è la coscienza di sé, ma l’adeguazione del senso e dell’intelletto al dato reale oggettivo ed esterno. La coscienza di sé non è un primum, ma deriva dalla previa conoscenza diretta e sperimentale della realtà, che abbiamo in comune con gli animali. Non dobbiamo vergognarci di tale conoscenza, di questi umili inizi del conoscere, propri di quel neonato, che tutti siamo stati, non dobbiamo disprezzarli o averne sfiducia o diffidare di essi, perché è solo rispettando tali inizi, dando ad essi ascolto, che noi possiamo elevarci poi alla conoscenza dello spirito e all’autocoscienza, fino alla conoscenza di Dio.

Questo, certo, non vuol dire che dobbiamo adagiarci in essi come fanno i sensisti, gli empiristi e i materialisti, come se non potessimo trascendere l’esperienza per conoscere il sovrasensibile, perché questo vorrebbe dire negare la nostra dignità umana di esseri razionali, ed essere uomini «carnali», fermi al livello delle bestie. «Fatti non foste – ci ammonisce Dante – a viver come bruti, ma a seguir virtute e conoscenza».

Ma l’intelletto non parte da questa autocoscienza, perché essa inizialmente di per sé è vuota di contenuto. Infatti la coscienza si riempie solo quando l’intelletto, riflettendo sul sapere acquisito dall’esterno, deposita nella coscienza questo contenuto, conservato dalla memoria, compresa la percezione del proprio io empirico, dal quale l’intelletto ricava l’io pensante e quindi scopre la propria esistenza, la quale esistenza, però, non dipende dal suo pensarla, ma è creata da Dio. Succederà allora che in Fichte che. interpretando l’esistenza dell’io come «posta» (setzt) dall’io stesso nell’io», l’io non ha più bisogno di chiedersi chi mi ha creato, perchè l’io stesso, pensandosi, crea sé stesso: quella che Gentile chiamerà «autoctisi».

In altre parole, bisogna dire che solo dopo che l’intelletto ha percepito e pensato l’essere esterno e ha formato in sé l’essere pensato come pensato, solo a questo punto l’intelletto può riempire la coscienza dell’essere pensato, riflesso intenzionale dell’essere reale.

VI. La coscienza del sé

Così l’intelletto non solo sa, ma sa di sapere. Conosce la verità perché sa di conoscerla. Per cui in ogni nostro atto di conoscenza è sempre implicita l’autocoscienza. Occorre infatti esprimere un giudizio e per giudicare di una data cosa non possiamo non consultare quei princìpi di verità che già possediamo nella memoria e nella coscienza. A questo punto l’io può ottenere la vera coscienza di sé, della quale parla San Tommaso nel De Veritate, q.10, a.8.

Infatti in questo articolo Tommaso sostiene, probabilmente al seguito di Sant’Agostino, - la memoria sui - che l’anima possiede un’abituale esperienza di sé stessa, un’esperienza spontanea o che può fare tutte le volte che lo vuole. Il che vuol dire che tutti noi sappiamo istintivamente, e almeno confusamente, che cosa è l’anima.

Ovviamente si tratta di un’esperienza spirituale piuttosto sottile, ma certa ed inoltre incomunicabile, che richiede una notevole ed attenta riflessione intellettuale e non sensibile su di sé o sul proprio io, così come l’individualità non può esser espressa in concetti e quindi nel linguaggio. Individuum est ineffabile, secondo il motto scolastico.

Quindi l’io sente di avere un’anima, benché non sappiamo dare una definizione dell’essenza dell’anima. Per ottenere ciò, dice l’Aquinate, occorre una «subtilis  inquisitio» non sperimentale, ma concettuale e teoretica. È un’esperienza che possiamo fare tutti, anche il materialista, il positivista e l’empirista, a patto di essere onesti, di mente lucida e non cercare pretesti.

La coscienza di sé, prima di Cartesio, esiste dunque già in San Tommaso, che si basa su Aristotele: «In hoc autem quod nos sentimus nos sentire et intelligimus intelligere, sentimus et intelligimus  nos, nos esse»[2].  San Tommaso, al seguito di Aristotele, ci fa presente che per giungere alla coscienza di sé, occorre partire dall’esperienza fisica del proprio io, del proprio corpo e dei suoi atti[3]. E se questa esperienza non ci dà la verità e certezza, non possiamo neppure elevarci alla conoscenza del nostro pensare.

Cartesio invece pretende di raggiungere il suo cogito immediatamente, come se il nostro spirito fosse un puro spirito senza corpo[4], senza presupporre l’esperienza sensibile del proprio io. Così succede che l’«ergo sum» che segue al cogito – come ha spiegato lo stesso Cartesio -  non è una deduzione logica. Non vuol dire: «se penso, vuol dire o ne deduco che sono», ma egli intende identificare immediatamente il cogito col sum, come se il fatto di pensare sé stessi non presupponesse l’esistenza reale di un soggetto ontologico pensante ed empirico, indipendente dal fatto di esserne cosciente o pensare il proprio pensare. 

Il cogito significa dunque: penso-sono. Un pensare che essere e un essere che è pensare. Si può intendere: se ho coscienza che sto pensando, vuol dire che sono in atto di pensare o esisto pensante. E questo va benissimo. L’errore sarebbe credere che sono pensante per essenza. E purtroppo Cartesio cade in questo errore definendo l’anima come res cogitans.

VII. Il mio io come puro spirito

L’io che Cartesio scopre col cogito, come è noto, per dichiarazione dello stesso Cartesio, è un puro spirito, come se fosse un angelo. Nasce dunque con Cartesio quella concezione della «purezza» della coscienza, che nulla ha a che vedere con una connotazione morale, ma fa capo appunto a Cartesio. Da qui sorgono la ragion «pura» di Kant, l’«io puro» di Fichte, la «coscienza pura» di Husserl, l’«atto puro» di Gentile.

La sua prima certezza, per sua esplicita dichiarazione, è quella di essere uno spirito senza sapere se esistono altre cose oltre a lui. Successivamente Cartesio, fidandosi della veracità divina viene a sapere di possedere un corpo come res extensa e che esistono cose sensibili e quantitative accessibili alla sua intelligenza soprattutto nella forma matematica.

Tuttavia, come è noto, Cartesio concepisce il suo spirito unito al suo corpo non per formare un’unica sostanza, ma come sostanza (res) unito a sostanza (res). Nasce il problema di come e perché queste due sostanze così disparate possano stare assieme e che cosa è che le fa stare assieme. Siccome Cartesio rifiuta il concetto di anima come forma sostanziale, che, almeno come cattolico, avrebbe dovuto accettare, essendo dogma definito dalla Chiesa[5], succede che l’unione dell’anima al corpo non appare solo contingente, il che è vero data la mortalità del corpo e l’immortalità dell’anima, ma appare anche come accidentale, come già si era verificato in Platone.

Il che vuol dire che anima e corpo non sono proporzionati l’uno all’altra, non convergono essenzialmente e naturalmente l’uno verso l’altra, non sono fatti l’uno per l’altra, non hanno bisogno l’uno dell’altra, ma sono estranei e del tutto eterogenei l’uno all’altra, per non dir contrari l’uno all’altra, come è già nel dualismo platonico. E come già in Platone, l’anima non ha bisogno del corpo, ma basta a sé stessa. Essa conosce intuitivamente e immediatamente lo spirito nella propria autocoscienza, senza bisogno dell’uso dei sensi, che peraltro ingannano o al massimo danno sensazioni solo soggettive.

Ma la cosa notevolissima è che questo spiritualismo cartesiano sembra fatto apposta per capovolgersi nel sensismo e nell’empirismo. Tutta la lite seicentesca fra empiristi inglesi e razionalisti franco-tedeschi è in fondo una lite fra cartesiani. Perché questo? Perché per Cartesio il sentire è ancora pensiero. Ciò fa sì che se da una parte il sentire svanisce nell’immaterialismo dell’esse est percipi di Berkeley, dall’altra parte nell’empirismo di Hume la sensazione è un pensiero materializzato. Kant tenterà di mediare fra empiristi e razionalisti, ma, volendo restare attaccato all’io penso cartesiano, tutto quello che riuscirà a fare è giustapporre contradditoriamente empiristi cartesiani e cartesiani razionalisti.

L’io cartesiano, quindi, è un’autocoscienza che ha davanti a sé una res extensa, che dovrebbe essere il corpo dell’io umano, che dovrebbe esser composto di anima e corpo. L’antropologia cartesiana, come è noto, sdoppia l’unità della sostanza umana un due sostanze. Ora siccome a nessuno di noi va a genio esser due anzichè essere uno, è successo storicamente che da Cartesio sono nate due antropologie contrapposte, tra le quali è giocoforza sceglierne una, se non si vuole essere degli schizofrenici. Così di fatto dall’uomo res extensa è sorta l’antropologia materialista, prima dei materialisti francesi del ‘700 e poi in seguito quella di Comte e Marx. Invece dalla res cogitans sorge l’idealismo tedesco da Kant fino ad Hegel e nel ‘900 Husserl e Gentile. Heidegger deriva da Cartesio non sotto l’aspetto dell’essere come idea, ma dell’essere come pensiero. L‘essere non primeggia sulla coscienza, ma tra coscienza ed essere si realizza una mutua reciprocità: l’uomo è la casa dell’essere, ma è anche il pastore dell’essere.

Per quanto riguarda l’antropologia cartesiana, essa riecheggia in qualche modo quella del Concilio Lateranense IV, ispirata a Sant’Agostino, che parla della «creatura umana, costituita quasi comune da spirito e corpo (quasi commune ex spiritu et corpore constitutam, Denz.800). Ma già il Concilio di Viennes del 1312 parla dell’anima umana come forma sostanziale del corpo, una visione più biblica ed unitaria della persona umana, sotto l’influsso di San Tommaso.

In fondo Cartesio è un ritorno dell’antica sofistica greca dell’uomo a cui tutto è relativo. Ma qui l’aggravante è data dal fatto che almeno i sofisti non avevano l’impudenza di dar fondamento di verità alla religione, perché sapevano benissimo che i loro trucchi non conducevano alla verità religiosa. Ma il bello di Cartesio e la sua incredibile sfrontatezza stanno proprio nella sua pretesa di fondare la verità razionale e teologica, per giunta cattolica sull’impostura del suo cogito.

Dice bene Heidegger di Cartesio:

«la tesi di Descartes viene continuamente associata al detto di Protagora e in quest’ultimo è vista l’anticipazione della metafisica moderna di Descartes. Infatti, in entrambi i casi viene espresso quasi tangibilmente il primato dell’uomo»[6].

VIII. Obiezioni alla conoscenza cartesiana del sé

C’è da considerare il riguardo che se io penso, penso necessariamente a qualcosa. Il pensare non può non avere un oggetto con una sua identità, sia esso esistente o non esistente. O si pensa a qualcosa o non si pensa. Non pensar nulla è non pensare, come un dormiente. Pensare invece anche il nulla o il contradditorio, è sempre pensare un intellegibile o pensabile, del quale come metafisico devo dare una definizione. Si tratta sempre di un concetto, un ens rationis, circa il quale ci possiamo intendere, del quale possiamo parlare e che può essere vero o falso.

Inoltre, un altro errore fondamentale di Cartesio, che compromette tutta la sua gnoseologia, è il credere che possa esistere una potenza conoscitiva – nella fattispecie quella sensitiva - erronea per sua natura. Ma la cosa è assurda, perché se così fosse, non avrei il criterio per accorgermi dei suoi errori.

Inoltre, il fatto che i sensi ingannino è un fatto accidentale; non può costituire la loro natura, perché sennò non potrei neppure accorgermi dell’errore, perché non potrei confrontarlo con la verità. Non è detto che chi ci ha ingannati una volta non meriti più la nostra fiducia e debba ingannarci sempre, perché può capitare che sia verace. I sensi non c’ingannano di per sé, ma accidentalmente.

Inoltre, noi possiamo essere certi che ciò che appare al senso corrisponda a cose sensibili al di fuori di noi. Se il senso funziona bene, se ci sono le condizioni adatte e l’oggetto è alla portata del senso, possiamo esser certi di cogliere il vero. Il dubbio di Cartesio circa la veracità del senso è un dubbio forzato ed irragionevole. Se posso scoprire un errore in una potenza conoscitiva è perché applico meglio e con più attenzione la medesima potenza.

Inoltre, Cartesio confonde la questione su che cosa si fonda la certezza del sapere con la questione da che cosa parte il nostro sapere. La certezza si fonda sull’evidenza; la conoscenza parte dalle cose sensibili. Cartesio confonde tra di loro due problemi: di che cosa posso essere originariamente ed assolutamente certo e su cui posso fondare il mio sapere? E: da dove parte la nostra conoscenza, qual è il suo oggetto primo (primum cognitum) e in che cosa essa consiste? La certezza iniziale, fondata ed universale è data dal principio di identità. L’oggetto iniziale e naturale della nostra conoscenza, dalla quale ricaviamo tutti gli altri è la quidditas rei materialis.

Inoltre, io posso dire: io esisto, non io sono. Solo Dio può dire io sono. Infatti l’esistere è un predicato verbale assoluto, che non richiede aggiunte predicative e conviene alla creatura. Ma all’essere normalmente nella creatura si aggiunge un predicato nominale, che restringe l’essere ad una data limitata essenza o proprietà: esser-questo o esser-quello. Solo di Dio, invece, si può predicare l’essere assolutamente (Es 3,14), perché l’essere è la sua stessa essenza.

È vero che se penso, esisto nel senso che ho coscienza di esistere. Ed è vero che questa è una certezza assoluta. In base alla mia coscienza di esistere, pongo il mio essere, malo pongo non nel senso che io sia la causa del mio essere, ma lo pongo intenzionalmente nel giudizio. Solo Dio è il creatore del mio essere.

Non posso aver coscienza di pensare qualcosa e quindi non posso aver coscienza di me pensante, se prima non ho conosciuto qualche realtà esterna, che possa costituire l’oggetto di ciò che penso. È vero che la certezza di esistere mi viene dalla certezza di pensare; ma questa a sua volta mi viene dalla certezza di non sbagliarmi nel giudicare della verità del senso.

Inoltre c’è da notare che se il senso non desse la verità, neppure l’intelletto coglierebbe la verità. Infatti ciò che è nell’intelletto è stato prima nel senso, perché noi otteniamo tutte le nostre conoscenze partendo dal senso. Questo non vuol dire che tutte le nostre conoscenze siano ricavate dal senso e che noi conosciamo solo cose sensibili. Quindi c’è nell’intelletto qualcosa – il sovrasensibile, lo spirituale – che prima non è stato nel senso, perché oltrepassa ciò che il senso ci può dare.

Tuttavia noi possiamo raggiungere la conoscenza delle realtà spirituali, fino a Dio, solo partendo dalla conoscenza sperimentale delle cose materiali sensibili esterne (quidditas rei materialis) ed applicando opportuni princìpi e metodi, per cui ci eleviamo alla conoscenza del puro intellegibile. I princìpi sono cinque: l’analogia, la causalità, la partecipazione, l’eminenza e la negazione.

Inoltre, Cartesio sbaglia quando dice che io sono una res cogitans. Non è vero. Io sono una res capax cogitandi. Io, nel pensare, passo dalla potenza all’atto. Ho il potere di pensare, ma non sempre sono pensante in atto. A volte penso e a volte non penso. Eppure nell’uno e nell’altro caso continuo ad esistere.  Dunque il mio essere o il mio esistere non dice ancora il mio pensare, perché posso essere senza pensare.

Mi accorgo che se penso, esisto. Ma è altrettanto vero che per poter pensare debbo prima esistere. Quindi il mio pensare deriva e dipende dal mio essere e non il mio essere dal mio pensare. La verità sul mio io devo trarla dal mio essere. Se mi penso diversamente da come sono, sbaglio.  D’altra parte, se esisto, penso. Penso perché esisto. Il pensare consegue all’esistere. Ma chi non pensa può esistere ugualmente. Pensiamo all’embrione. Però scopro il mio esistere spirituale riflettendo sul mio atto di pensare.

Questo è il suggerimento di Cartesio, apparentemente simile a quello di Agostino («si fallor, sum»), ma in realtà contrario[7]. Cartesio lo affermò esplicitamente contro chi gli diceva che il cogito c’era già in Sant’Agostino. Infatti Agostino, seppur tra molte incertezze, soprattutto giovanili, tutto sommato ammette la veracità del senso, mentre Cartesio ne dubita e non risolve il dubbio nella maniera più logica e normale, ossia ricorrendo al senso stesso, ma, come è noto, appellandosi a sproposito alla veracità divina, il quale appello non ha la sua normale giustificazione in questo caso, trattandosi di questione semplicemente filosofica, ma serve a giustificare l’atto di fede in Dio Rivelante.

La vittoria di Agostino sui Manichei e gli Accademici, illuminato dal realismo gnoseologico biblico del Dio che ha creato tanto il senso quanto l’intelletto, comporta anche il fatto che Agostino, vinto lo scetticismo del senso, afferrò anche l’aspetto della certezza sensibile: quella stessa «carne» che spinge a peccare il figlio di Adamo schiavo della concupiscenza, quella carne seduttrice che nel manicheismo appare come una divinità alternativa, contrapposta al Dio spirituale, quella carne che tanto affascinò e sedusse il bollente Agostino giovane, ebbene egli alla luce della Scrittura, capì che quella stessa carne non è creata da un dio materiale cattivo, che così viene a fornire un comodo scarico di coscienza, ma è creata dal Dio buono, per cui è, in Cristo la carne risorta e redentrice del corpo di Cristo eucaristico: «caro te excaecaverat? Caro te sanat».

Osservo inoltre che io non sono pensante per essenza, ma solo per partecipazione al pensare. Avverto infatti il mio limite nel pensare. So di potermi sbagliare nel pensare. So di non poter pensare tutto il pensabile. So che esistono moltissime cose alle quali non penso e della cui esistenza mi accorgo quando le scopro. Esse esistono anche se non le penso ed esistevano prima che le pensassi. E se è vero che diventano da me pensate nel momento un cui le penso, resta sempre vero che le penso come non-pensate e quindi restano in se stesse non-pensate. La loro esistenza non dipende dal mio pensarle. Ma dipende da Dio creatore che le ha ideate e create.

Il mio essere non coincide col mio pensare, ma c’è nel mio essere dell’altro, per esempio materiale, il corpo, che è distinto dal mio pensare.  Il pensiero umano passa dalla potenza all’atto. La mente umana non è pensante per essenza, ma ora pensa ora non pensa, pur restando se stessa.

È vero che Cartesio distingue la res cogitans dalla res extensa. Ma si deve dire che in realtà solo Dio è res cogitans, pensiero pensante in atto, pensiero sussistente, pensiero del pensiero. Solo in Dio l’essere coincide col pensare.  Certamente, per sapere di pensare e di esistere, io devo essere in atto di pensare. Tuttavia ciò non basta perché io possa o debba essere definito come ente pensante in atto. Solo Dio può essere definito in tal modo, Egli, che è Pensiero sussistente, Egli, la cui essenza e il cui essere è il pensare, Egli, in cui l’essere coincide col pensare, per cui è Egli è Pensiero sussistente ed Essere sussistente.

Osserviamo ancora che l’io cartesiano non è il mio io di persona composta di anima e corpo, ma è una res cogitans, cioè è solo il mio spirito, separatamente dal mio corpo, la cui conoscibilità sensibile cade sotto il dubbio come quella delle cose materiali fuori di me. Per questo, per Cartesio non è possibile applicare il principio di causalità e dimostrare l’esistenza di Dio partendo dall’esperienza delle cose e del mio corpo, dei quali non ho certezza.  Cartesio, allora, come è noto, dimostra l’esistenza di Dio partendo dall’idea di Dio che egli trova in sé. Egli applica qui il principio di causalità inferendo che se io ho l’idea di Dio, che per la sua infinità supera me che sono finito, deve esistere un Dio che ne è la causa.

Inoltre, Cartesio afferma: «io sono una ragione»[8]. No. È falso. Io sono un soggetto capace di ragionare, sono una sostanza dotata della potenza razionale. Il ragionare non è il mio essere, ma una qualità del mio essere. È un’attività del mio essere, attività che ora esercito, ora non esercito. Eppure il mio io permane. Il mio io dunque non si risolve nel ragionare. Non sono una ragione sussistente. Solo Dio è una Ragione sussistente. Già in Cartesio esistono germi di panteismo, che fruttificheranno con l’idealismo tedesco.

Cartesio dunque, come non può prendere le cose come punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio, così non può prendere neppure l’io inteso come io empirico. Nasce allora il problema di chiarire che cosa è questo spirito e che come qualificare questo «sum» dell’io. Cartesio non si accorse che concependo i l’io come res cogitans in atto ed essendo tale io, come ho notato, nient’altro che Dio, Cartesio apriva la porta al panteismo.

Per quanto riguarda la dimostrazione cartesiana dell’esistenza di Dio, essa fin dai contemporanei dello stesso Cartesio fu giudicata un circolo vizioso, perchè suppone come scontato ciò che vuol dimostrare. La realtà esterna – l’esse extra animam - per Cartesio sembra essere solo la realtà materiale. La realtà spirituale, come le altre persone e Dio stesso sembrano essere solo nell’anima e precisamente nella coscienza.

Anche il termine latino sum sembra fatto per trarre in inganno in questo senso. L’italiano ha il vantaggio di distinguere l’io sono dall’io esisto. Se dico infatti «io esisto», posso benissimo pensare al mio io umano. Ma se dico «io sono», il pensiero può andare anche al biblico «Io Sono» esprimente il nome di Dio.

E si accorse successivamente di ciò il Fichte, il quale elaborò il suo famoso equivoco concetto dell’«Io», dove non si capisce se tratta dell’io umano o dell’io divino. E difatti l’equivoco è voluto, perchè Fichte a un certo punto della sua opera filosofica uscirà nelle seguenti parole rivelative di tutto il suo sistema: «il mio io è ad un tempo l’io di Giovanni Fichte e l’Io di Dio».

La certezza dell’autocoscienza è più forte della certezza sensibile, perché il mio essere spirituale, che è oggetto della mia riflessione[9] o della mia consapevolezza, è un essere molto forte, unitario, robusto, immutabile, solido, perfetto ed elevato a confronto dell’ente sensibile fragile, diveniente, mutevole, molteplice, corruttibile.

Non è questione di immediatezza, perché in realtà è la conoscenza sensibile ad essere immediata. È con essa che abbiamo, da fanciulli, il primo contatto con la realtà. Successivamente, il nostro intelletto normalmente, già nella fanciullezza o nell’adolescenza, riflette sull’atto del suo conoscere,  scopriamo il nostro intelletto, il nostro pensare, il nostro io, fino a giungere alla scoperta o all’esperienza della nostra anima[10].

L’autocoscienza, cioè, è mediata dalla previa conoscenza sensibile delle cose esterne e dalla coscienza di pensare. Però, quando l’io coglie se stesso o la propria anima pensante, prova un’intima certezza inconfutabile ed assoluta. Questo è l’elemento di verità del cogito cartesiano.

 Seconda Parte di Tre Parti

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 luglio 2020

https://padrecavalcoli.blogspot.com/2020/09/il-problema-della-coscienza-di-se-in.html 

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Penso perché esisto. Il pensare consegue all’esistere. Ma chi non pensa può esistere ugualmente. Pensiamo all’embrione. 

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[1] In Met., l,III,c.I,lect.I, n.343, Marietti Torino-Roma 1964.

[2]In Eth. Nic. l.IX, c.IX, n.1908, Marietti, Torino-Roma 1964, p.498.

[3] Sum.Theol., I, q.87,a.1.

[4] Da qui la definizione cartesiana dell’uomo, come ce la presenta Maritain: è un angelo che governa una macchina mediante la ghiandola pineale.

[5] Concilio di Viennes del 1312 (Denz.902).

[6] Nietzsche, Edizioni Adelphi,Milano1996, p.646.

[7] Il Gilson, dottissimo conoscitore sia di Agostino che di Cartesio, prende però qui – ci sia consentita l’espressione – un grosso granchio: interpreta Agostino come se fosse un precursore di Cartesio– contro la formale dichiarazione dello stesso Cartesio -, quando invece egli stesso Gilson, con la sua solita ineccepibile documentazione, dimostra che in realtà Agostino – al di là di qualche incertezza - contrariamente a Cartesio, credeva sostanzialmente, al seguito della Bibbia, alla veracità dei sensi. Vedi l’opera magistrale Introduction à l’étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969, pp.73-77; 320-323.

[8] Meditazioni metafisiche, op.cit., p.85.

[9] Cf F.-X. Putallaz, Le sens de la réflexion chez Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 1991.

[10] Cf S.Tommaso, De Veritate., Q.10, a.8.

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