L’avventura della metafisica - Parte Quarta (4/6)

 

L’avventura della metafisica

Parte Quarta (4/6) 

 

Edmund Husserl

La fenomenologia è il fondamento della metafisica

Nei primi decenni del secolo scorso Edmund Husserl proclamò al mondo scientifico di avere fondato una nuova scienza, la fenomenologia, la quale, a differenza delle precedenti filosofie, forniva finalmente una giustificazione radicale e incontrovertibile, con perfetto metodo e rigore logico, a tutte le scienze, come se fino al suo tempo nulla fosse esistito di simile sin dai tempi di Aristotele con la metafisica.

Husserl prometteva di soddisfare tutti coloro che in filosofia desideravano la verità e cogliere l’essere e le cose stesse così come esse sono in se stesse, un metodo ad un tempo intuitivo, sperimentale e dimostrativo, un sapere oggettivo, necessario, immutabile e ed universale.

Husserl, per la serietà del suo impegno, per il valore delle sue osservazioni e scoperte e per le doti didattiche del suo pensiero, cominciò ad attirare numerosi discepoli qualificati e fondò così una scuola, che esiste tuttora ed è diffusa in tutto il mondo. Lo stesso San Giovanni Paolo II, prima di salire al soglio pontificio, fu discepolo di Roman Ingarden, fenomenologo polacco. Tanta è l’apparenza di serietà di Husserl, insieme ad effettive qualità, che riuscì ad attirare al suo seguito spiriti eletti, come Edith Stein e Max Scheler, che aprirono gli occhi solo dopo anni di soggezione al venerato maestro.

Husserl pensò con la sua filosofia di rimediare a diversi errori delle filosofie del suo tempo: lo psicologismo, che per il suo empirismo e positivismo era incapace di dare universalità, necessità e certezza al sapere, e riduceva l’interiorità dello spirito e la dignità della coscienza a meri fatti psichici di poco superiori a quelli della psiche animale; l’idealismo vagante in sublimi astrazioni autoreferenziali, prive di aggancio all’esperienza e di adesione ai fatti; il realismo tomista, da lui giudicato ingenuo e superato dalla critica kantiana.

Husserl s’inserisce in quel filone di filosofi che, a partire da Cartesio, come furono Kant, Fichte, Schelling, Hegel, come saranno Heidegger, Gentile, Bontadini, Lotz e Rahner, si sentono in dovere non tanto di distruggere il  realismo tomista «a colpi di martello», per dirla con Nietzsche, quanto piuttosto di darle una base o presupposto critici nel cogito cartesiano, con aria benevola di comprensione di un buon papà  che guarda al suo figlioletto di sette anni che crede ancora a Babbo Natale e alla Befana.

Per mostrare come egli intende la sua scienza «assolutamente nuova», che in realtà è uno sviluppo empiristico del cogito cartesiano, diamo a lui stesso la parola:

 

«Noi manteniamo lo sguardo fermamente rivolto alla sfera della coscienza e allo “io” da essa inseparabile e cerchiamo di vedere che cosa vi si trovi di immanente. Ma prima di compiere questa peculiare sospensione fenomenologica del giudizio, sottoponiamo questa sfera a una sistematica, anche se per nulla esauriente, analisi essenziale. Quello che assolutamente ci occorre è una certa visione complessiva dell’essenza, da attingere attraverso la pura “esperienza interna”, alla pura visione interna della coscienza in generale e particolarmente della coscienza in quanto per sua essenza è consapevole della realtà “naturale”. E procediamo in questi studi tanto quanto occorre per giungere alla visione a cui miravamo, cioè che la coscienza va afferrata attraverso una conseguente esperienza interna, come una sfera in sé connessa, aperta-infinita e per sé conchiusa, provvista di forme proprie di “immanente” temporalità. E bisognerà mostrare anche come questa sfera dell’essere non cada sotto la neutralizzazione fenomenologica.

 

 In termini più precisi: attraverso la fenomenologica messa fuori gioco del mondo obiettivo, questa sfera “immanente” dell’essere perde bensì il senso di uno strato reale di quella realtà uomo (oppure animale) che inerisce al mondo e che presuppone già il mondo. Perde il senso di vita coscienziale umana, di quella vita che chiunque può progressivamente afferrare mediante la pura “esperienza interna”.

 

Ma non va semplicemente perduta: attraverso il mutato atteggiamento dell’epochè ottiene il senso di una sfera assoluta dell’essere, di una sfera assolutamente autonoma che è in sé quella che è senza che si ponga alcuna domanda intorno all’essere o al non-essere del mondo e degli uomini che vivono in esso, essendo sospesa ogni presa di posizione in questo senso, una sfera dunque che già preliminarmente è in sé e per sé, comunque si possa rispondere alla domanda ontologica intorno al mondo e a prescindere dalla possibilità di rispondere per buone o cattive ragioni a questa domanda, che soltanto nell’ambito dell’epochè va posta.

 

Così la sfera pura della coscienza rimane con tutto ciò che da essa non può venir separato (e tra l’altro l’“io” puro), quale “residuo fenomenologico”, come una regione per principio peculiare dell’essere, che come tale può diventare campo di una scienza della coscienza in un senso corrispondentemente per principio nuovo, il campo della fenomenologia.

 

Che cosa rimane ancora se l’epochè fenomenologica sospende la validità dell’universo, la totalità di tutto ciò che è in generale?  Rimane appunto o meglio si dischiude per la prima volta attraverso l’epochè la sfera assoluta dell’essere, la sfera della soggettività assoluta o “trascendentale”; non si tratta di una regione parziale della regione totale della realtà, cioè dell’universo; si tratta bensì di una regione distinta d essa e da tutte le sue regioni particolari, benchè non distinta nel senso di una reciproca delimitazione, quasi che essa potesse congiungersi integrandosi col mondo e costituire insieme con esso un tutto complessivo.

 

Il mondo è in sé una totalità, la quale, conformemente al suo proprio senso, non consente un ampliamento. Risulterà tuttavia come la regione della soggettività assoluta o trascendentale “porti in sé” in un modo del tutto peculiare attraverso la reale o possibile “costituzione intenzionale” l’universo reale oppure tutti i possibili mondi reali, tutti i mondi in senso largo.

 

Soltanto attraverso questa nozione verrà in luce il peculiare significato della epochè fenomenologica: la sua consapevole attuazione si rivelerà come quell’operazione metodica, assolutamente necessaria, che è capace di dischiuderci con la regione assoluta dell’autonoma soggettività quel terreno dell’essere con cui è in riferimento, insieme con la nuova esperienza e con la fenomenologia, ogni filosofia radicale, quel terreno che le conferisce il senso di una scienza assoluta. E così si spiega perchè questa regione, che è nuova e la corrispondente scienza nuova siano rimaste finora sconosciute. Infatti, nell’atteggiamento naturale non si può vedere nient’altro che il mondo naturale. Fintanto che non si fosse riconosciuta la possibilità dell’atteggiamento fenomenologico e non si fosse costituito il metodo per cogliere nell’originale gli oggetti emergenti in esso, la sfera trascendentale dell’essere, doveva rimanere sconosciuta o al massimo sospettata»[1].

Il progetto di Husserl, come osserva il Maritain[2], si pone nella linea dell’idealismo nato da Cartesio, che intende la metafisica non come scienza dell’ente, ma come scienza dei dati trascendentali della coscienza. L’intento iniziale di Husserl di intenzionare le cose stesse intese come correlati di coscienza parte già con la pregiudiziale idealista della relazione dell’essere al pensiero anziché della relazione del pensiero all’essere.

Husserl ci propone di sospendere l’atteggiamento naturale, ossia il realismo, perché vuol insegnarci una «scienza assoluta», alla quale nessuno prima di lui aveva mai pensato. E in che consisterebbe questa scienza assoluta della vastità infinita dell’essere? Nel guardare dentro di noi a ciò che facciamo come «soggettività assoluta». Che cosa vuol dire? Che dobbiamo considerare i dati e i prodotti della nostra coscienza «allo stato puro, fenomenologicamente ridotti». Che vuol dire? Che considerando questi oggetti interiori, dobbiamo considerali come prodotti non dal nostro io empirico, ma dal nostro «io puro o trascendentale».  Che cosa è questo «io puro»? È il mio io in quanto privato delle sue note empiriche e considerato nella sua assolutezza.

Qui, secondo Husserl, troviamo la metafisica veramente fondata e non in quella ingenua dell’atteggiamento naturale. Ora è qui che casca l’asino. Non è questa la maniera di fondare criticamente la metafisica, ma è quella di riflettere sul significato dell’atteggiamento naturale e di confermarne il valore di verità.

La riflessione critica non richiede affatto di sospendere l’atteggiamento naturale, ossia il realismo, non richiede nessuna epochè, perché abbandonare la natura vuol dire andare contro natura, com’è appunto l’atteggiamento idealista, e questo non conviene certamente. Semmai si tratterà di assumere un atteggiamento soprannaturale; ma questo è compito della fede e non della metafisica.

Sia diretta o sia riflessa, la conoscenza dev’esser sempre oggettiva, ossia deve comportare l’adesione (adaequatio) dell’intelletto all’oggetto. Se io nel conoscere formo un oggetto interiore – il concetto -, questo non vuol dire che devo preferire questo oggetto che produco io a quello che trovo nella realtà, se no sostituisco il reale con le mie idee trasformando in oggetti del sapere quelli che sono semplicemente i mezzi, i metodi, le funzioni o i modi del sapere. E sta appunto qui l’errore dell’idealismo, come ha denunciato anche Papa Francesco, sul solco della tradizionale condanna della Chiesa.

Dunque, l’operazione che propone Husserl di liberazione del mio io dalle sue note umane per trovare una meravigliosa supposta «soggettività assoluta» non mi è assolutamente lecita, perché vorrebbe dire attribuirmi le note dell’Io divino. E questa operazione non è assolutamente nuova, perché è già stata fatta dagli idealisti che sono partiti da Cartesio.

L’essere come oggetto della fenomenologia non è più allora l’essere extramentale, l’essere oggettivo che mi sta davanti, che mi è dato, che non ho prodotto io, che esisteva prima di me, che esiste indipendentemente da me, l’essere che mi circonda, che mi trascende e che mi ha creato, ma è l’essere della mia  coscienza, l’essere che ho prodotto io, l’essere che è immanente in me, l‘essere che io ho compreso e che posso dominare, essere che evidentemente non è tutto l’essere e che invece considero come il tutto, trascurando il resto come se non ci fosse. Ne viene allora che la coscienza umana, accecata dalla superbia e ribelle ai suoi limiti naturali, abbandona la sua apertura alla trascendenza per chiudersi in una empia autoreferenzialità, che la separa dalla realtà, ben lungi dal consentirle di raggiungerla.

 

Karl Jaspers

Immaginare l’essere

Jaspers avrebbe l’intenzione di valorizzare e riabilitare la metafisica come ricerca dell’essere e come filosofia o chiarificazione razionale dell’esistenza, ma invece di riproporre il giusto metodo basato sulla formazione della nozione dell’ente ricavata per astrazione giudicativa dall’esperienza delle cose sensibili, si riallaccia all’egocentrismo cartesiano e luterano, per i quali l’interesse primario e fondamentale non è la realtà oggettiva, non è l’ente in se stesso, non è l’apertura della mente al tu, all’altro, al diverso da me, non è la cosa in sé, alla totalità dell’essere, e quindi alla causa prima del mondo e del mio stesso io, nella loro universalità ed oggettività così come vengono  conosciuti dall’intelletto mediante nozioni trascendentali universalmente evidenti alla ragione di chiunque, ma è l’affermazione del mio io, del mio esistere, della mia autocoscienza, del mio essere, del mio pensare, della mia verità, del mio sapere, della mia volontà.

Tutto dev’essere per me e tutto dev’essere da me. Tutto deve partire da me e tutto deve tornare a me. Io pongo me stesso, nego me stesso nell’altro e torno a me stesso mediante la negazione dell’altro. È quel procedimento del pensare dell’agire che Hegel chiama «dialettica».

Che ne è di Dio in questo modo di pensare? Certo non si ammette una causa prima, ente supremo, fine ultimo, sommo bene, essere perfettissimo, motore immobile, bontà infinita, creatore dal nulla delle cose visibili ed invisibili, e quindi anche di me stesso, provvidente Signore e legislatore dell’uomo, suo salvatore e redentore.

Ma allora chi è Dio? Se Dio è il fondamento, il principio l’origine dell’essere, della realtà, del pensare, del volere, della libertà, dell’umanità e dell’universo, ebbene, allora Dio sono io oppure Dio è il Dio-per-me o posto-da-me, funzionale a me e basato su di me, voluto e deciso da me, atteso il fatto che io non sono creato da Lui dal nulla, ma io, che esisto da me stesso, pensando me stesso, pongo e creo me stesso e Lui.

Come è stato notato dagli studiosi[3], il retroterra di Jaspers è Lutero riformato da Cartesio riformato da Hegel riformato da Kierkegaard riformato da Nietzsche. Infatti Cartesio traduce in filosofia il soggettivismo fideistico luterano; Hegel traduce in termini di dialettica la fede luterana; Kierkegaard traduce nell’io singolo ed irripetibile l’io trascendentale di Hegel; Nietzsche traduce la singolarità kierkegaardiana nel mio essere volontà di potenza.

Jaspers, che ha alle spalle tutti questi pensatori che hanno bistrattato e stiracchiato la povera metafisica da tutte le parti, pensa lui di rifondare la metafisica come nessuno aveva fatto e ne dà una nuova e definitiva concezione, non priva di interesse, ma che non ha niente di originale, se non l’esasperazione dell’impotenza luterana della ragione concettuale sillogistica  davanti alla Trascendenza, e la proposta di una «fede filosofica», per la quale la cifra, il naufragio, lo scacco e il simbolo si sostituiscono al concetto e al raziocinio,  l’immaginazione, il racconto e il mito e la metafora all’intelletto, il sentire al ragionare, il razionale si manifesta nell’irrazionale, l’impossibile appare come possibile, l’impensabile è pensato, l’assurdo è credibile, una fede non nel senso di credere all’autorità di Dio che si rivela, come era ancora per Lutero, ma come esperienza atematica del nulla dell’essere, un’esperienza immediata ed ineffabile ed incomunicabile della Trascendenza nell’autocoscienza soggettiva, per la quale il silenzio si sostituisce alla parola, l‘essenzialità coincide con la storicità, il singolare diventa universale, il concreto sostituisce l’astratto, l’angoscia si unisce paradossalmente con la pace, il dubbio alla certezza, la speranza alla disperazione, il fallimento al successo; la libertà è il non poter scegliere diversamente e l’accettazione del fato, la comunicazione sta assieme con l’incomunicabilità, l’unità col conflitto.

Jaspers finisce così per chiamare «metafisica» questa sua personale fantasiosa e contradditoria costruzione ideologica, dove, nonostante la volontà di concretezza, abbondano i termini astratti senza connessioni logiche e argomenti probativi, suggestive immagini poetiche, oscure figure e allusioni, guizzi di luce improvvisa, tormentosi sentimenti dell’animo, sensi di frustrazione e di impotenza, esaltazione entusiasta, turbati stati emotivi,  con  il campeggiare insistente sì di termini metafisici, ma senza che si riesca a capire o appaia chiaro come e perchè stanno assieme.

Troviamo, per esempio, termini come «essere», «esistenza», «ente», «coscienza», «pensiero», «ragione», «trascendenza», «assoluto», «soggetto», «oggetto», «spirito», in un concatenamento sconnesso di affermazioni gratuite dal tono oracolare, senza mai la preoccupazione di dimostrare o spiegare quello chei dice, un procedere per allusioni, immagini, paradossi e metafore, con un linguaggio cifrato e simbolico, per parlare di un essere «circoscrivente» (Umgreifende) in cui tutto sarebbe incluso e compreso, senza determinare ulteriormente in che cosa questo Essere circoscrivente, che altrimenti chiama «Trascendenza», dovrebbe consistere. Par di trovarsi davanti ad una forma di panteismo simile a quella dell’induismo.

Comunque questa «Trascendenza», secondo Jaspers, sarebbe indefinibile, impensabile, irraggiungibile, non concettualizzabile e ineffabile, irrazionale e dialettica, davanti alla quale tutti i concetti «naufragano» e sono pertanto affatto inutili.

Tale Trascendenza fa vagamente pensare a Dio, ma poi Jaspers si premura di precisare che non intende affatto riferirsi a un Dio personale, Essere sussistente, causa prima creatrice e provvidente salvatore dell’uomo, rivelatosi in Cristo e conosciuto per mezzo dei dogmi della Chiesa, verso i quali anzi mostra il suo disprezzo. E allora, di quale Dio si tratta? Non si capisce. Dice infatti Jaspers:

«Non l’intelletto, ma la fantasia e non una qualsiasi fantasia della coscienza, ma quella che si realizza come gioco del fondamento esistenziale è l’organo attraverso il quale l’esistenza» (=l’uomo) «si accerta dell’essere»[4].

In tal modo la metafisica non si esprime in deduzioni e in concetti, ma per immagini e simboli:

«Noi parliamo di simbolo nel senso pregnante di significato metafisico, che, nell’immagine, dev’essere colto esistenzialmente, senza poter essere pensato oggettivamente. Mentre la similitudine che si riscontra nel mondo è una traduzione o una rappresentazione di qualcosa che in sé è sempre oggettivo, sia esso un che di pensabile o intuibile, il simbolo metafisico è l’oggettivazione di qualcosa che in sé non è oggettivo»[5].

Possiamo immaginare che stima può nascere di questa metafisica in chi veramente si pone sul serio il problema dell’essere, di chi è alla ricerca dei fondamenti della realtà e della verità, della causa e del fine dell’universo, del senso e fine dell’esistenza umana e non vuol far la parte del veggente che intravede  e declama con tono solenne e drammatico e voce spezzata il tralucere nell’io empirico della autocoscienza assoluta, rapido e fugace momento dell’Orizzonte circoscrivente, felicemente, angosciosamente e silenziosamente naufragato nella Trascendenza.  Diamo qualche esempio di come Jaspers intende la metafisica.

«L’esistenza» (=l’uomo), agendo incondizionatamente nelle situazioni-limite, sperimenta la sua orientazione nelle cifre della Trascendenza, che, come oggettività assoluta, riempiono la sua coscienza, così come gli oggetti del mondo riempiono la coscienza in generale. Ma se nella metafisica si procede direttamente verso l’oggettività assoluta, intesa come cifra della Trascendenza, questa non si la lascia raggiungere.

È necessario cercare il contatto con le sue radici esistenziali. Solo mediante la chiarificazione della propria situazione-limite e dell’incondizionatezza del proprio agire, si realizza questo contatto per il quale l’oggettività assume il valore del simbolo, in quanto il proprio contenuto si è reso sensibile. L’analisi sistematica dell’oggettività assoluta, la sua appropriazione e la sua creazione – nella misura in cui non è mera intuizione e storia – costituiscono la metafisica filosofica»[6].

Jaspers pretende di insegnare metafisica, ma cade in spaventose contraddizioni: da una parte ammette la Trascendenza (non si sa bene di che cosa) intuìta o sperimentata originariamente ed atematicamente, ma dall’altra, poiché questa Trascendenza sembra essere Dio, nega la possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio mediante la ragione. Del resto, per lui l’«esistenza» non è atto dell’ente, ma è l’uomo stesso, da cui discende che solo l’uomo esiste. E le altre cose? E Dio?

In secondo luogo, ammette la possibilità della comunicazione umana mediante il linguaggio e i concetti, e ciò è evidente, sennò non avrebbe scritto tanti libri e non si sarebbe dedicato a studiare Cartesio, Kant, Hegel, Kierkegaard o Nietzsche; ma dall’altra parte dichiara egli stesso che la comunicazione è impossibile, perchè, dato che non esiste una verità oggettiva, universale, una per tutti, ma ognuno ha la sua verità diversa da quella dell’altro, è impossibile trasmettere un messaggio da una persona all’altra in modo tale che possa verificarsi l’adesione e l’accordo di tutti attorno alla medesima comune verità o la condivisione di una universale e comune verità  da parte di più persone.

Io mi chiedo allora, stanti queste convinzioni, con quale animo e perché Jaspers ha scritto i suoi libri, ha insegnato, ha comunicato con i suoi simili, ha creduto di poter capire quanto leggeva o quanto gli veniva comunicato, con quale intento e a che pro si è dedicato a dimostrare la falsità di idee diverse dalle sue fino ad accusare la Chiesa cattolica di essere nemica della verità, con quale faccia ha scritto un libri dedicato all’essenza della verità, proprio lui che nega l’oggettività e l’universalità della verità ed afferma, col pretesto della libertà di pensiero, che ognuno è il creatore della propria verità diversa e contraria a quella dell’altro.

Fine Quarta Parte (4/6)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 marzo 2024

 

 

Husserl pensò con la sua filosofia di rimediare a diversi errori delle filosofie del suo tempo: lo psicologismo; l’idealismo; il realismo tomista, da lui giudicato ingenuo e superato dalla critica kantiana.

Il progetto di Husserl si pone nella linea dell’idealismo nato da Cartesio, che intende la metafisica non come scienza dell’ente, ma come scienza dei dati trascendentali della coscienza. 

L’intento iniziale di Husserl di intenzionare le cose stesse intese come correlati di coscienza parte già con la pregiudiziale idealista della relazione dell’essere al pensiero anziché della relazione del pensiero all’essere.

 


Karl Jaspers avrebbe l’intenzione di valorizzare e riabilitare la metafisica come ricerca dell’essere e come filosofia o chiarificazione razionale dell’esistenza.

Pretende di insegnare metafisica, ma cade in spaventose contraddizioni. Del resto, per lui l’«esistenza» non è atto dell’ente, ma è l’uomo stesso, da cui discende che solo l’uomo esiste.

In secondo luogo, ammette la possibilità della comunicazione umana mediante il linguaggio e i concetti; ma dall’altra parte dichiara egli stesso che la comunicazione è impossibile, perchè, dato che non esiste una verità oggettiva, universale, una per tutti, ma ognuno ha la sua verità diversa da quella dell’altro, è impossibile trasmettere un messaggio da una persona all’altra in modo tale che possa verificarsi l’adesione e l’accordo di tutti attorno alla medesima comune verità o la condivisione di una universale e comune verità  da parte di più persone.

Immagini da Internet: Edmund Husserl e Karl Jaspers

[1] Idee per una fenomenologia pura e per una fenomenologia fenomenologica, Editore Einaudi, Milano 1976.

[2] Vedi la critica che Maritain fa ad Husserl in Les degrés du savoir (Desclée de Brouwer, Bruges 1959), pp.195-208.

[3] Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, UTET-TEA, Torino 1995, vol.VI, pp.489-501: Roger Verneaux, Leçons sur l’existentialisme, Téqui, Paris 1964,pp.77-98.

[4] Metafisica, Edizioni Mursia, Milano 1972, p. 54.

[5] Ibid,. p.105.

[6] Ibid., p.53.

 

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