Luigino si
prende gioco di noi
I. Avvenire
non demorde
Avvenire insiste
ancora con Luigino. È giusto del 28 giugno scorso il suo articolo La sapienza del gomitolo. Sembrerebbe
che Avvenire si sia accorto dei miei
quattro articoli su Luigino Bruni e voglia in certo senso sfidarmi, senza accorgersi
che il prendersela con me o il provocarmi, non è contrastare le semplici
opinioni di Padre Cavalcoli, ma va a colpire quella sana ragione e soprattutto quella
dottrina della Chiesa, alla quale
faccio riferimento nelle mie critiche a Luigino.
Questo aperto ed insensato insistere di Avvenire nel voler denominarsi
«cattolico» pubblicando articoli che scalzano il cattolicesimo e la razionalità
dalle radici, è stupefacente ed è ad un tempo ridicolo.
Sembrerebbe a tutta prima l’effetto di un disturbo
mentale di tipo masochistico o autolesionista. Ma è un procedere troppo bene calcolato,
dosato ed organizzato per essere spiegato solo con la psicopatologia. Risponde
invece certamente a un programma e ad un piano collettivo segreto anticattolico
ben preciso e a lungo termine: avvelenare gradualmente e dolcemente la
coscienza cattolica con favole e frottole pseudobibliche ben congeniate, rammollirne
la sua solidità e saldezza, fino a farla diventare gelatinosa, così da poter
essere facilmente manipolabile dall’impostura, fino a farla diventare il suo
esatto contrario: la totale empietà e l’odio per Dio.
Comunque, tale abbietto procedimento, se all’inizio
poteva apparire un maldestro tentativo di progressismo, ed attirare
l’attenzione, poi, visti tutti i guai combinati in questi ultimi anni, oggi
come oggi ormai non inganna più nessun cattolico normale, la sua impostura
appare ormai lampante, alla luce del sole e suscita in lui una reazione di
rigetto.
Un cattolico normale si chiede stupefatto da
che cosa può dipendere e perché una simile débacle
di un Quotidiano dal passato glorioso – mi ricordo l’Avvenire degli anni ’50, che si chiamava L’Avvenire d’Italia - , a qual fine, a che pro, con quali prospettive? Quid
prodest ad Avvenire questo darsi la
zappa sui piedi? Questo scavarsi la
fossa con le proprie mani? Che cosa è successo?
Quale forza oscura, seducente e potente preme
dietro ad Avvenire per spingerlo a
questa opera di sottile e sistematica demolizione del cattolicesimo? Di fatto
ormai tutti i cattolici con gli occhi aperti si sono accorti, e non da ieri, di
questa abominevole impresa, che ha del diabolico, per cui tanti si sentono disillusi
o beffati e da tempo hanno smesso di comprare Avvenire.
Cari Amici di Avvenire, avrei piacere di sapere come siete giunti a Luigino, chi
ve l’ha raccomandato, consigliato o proposto. Il Card. Müller? Il Card. Brandmüller?
Il Card. Burke? Mons. Schneider? Mons. Negri? Mons. Crepaldi? Temo di
immaginare chi può essere stato, ma non faccio nomi per pudore.
Questo mio giudizio su Avvenire potrà sembrare a qualcuno troppo severo, tanto più che
questa volta Luigino, per la verità, sé è comportato abbastanza bene, senza
però cessare di procurare guai, come vedremo in questo suo ultimo articolo che
vado ad esaminare.
Ma il fatto è che Avvenire purtroppo è bacato dall’interno. Che cosa voglio dire?
Tutti sanno che un giornale quotidiano ha una sua caratteristica struttura, che
assomiglia alla vita di una persona. E difatti riflette appunto l’impostazione
della redazione che lo produce, in particolare quella del direttore, il quale,
pur dando spazio di libertà ai suoi collaboratori, è come la mente e il cuore
del giornale e quindi il primo responsabile nel bene come nel male.
A somiglianza dunque di una persona, un
quotidiano possiede, per così dire, una mente, un’anima, un cuore, che ci fanno
capire la sua personalità, la sua impostazione, i suoi intenti e scopi di
fondo: un centro intellettuale vitale, dal quale emanano le varie attività, un
centro che presiede ad esse, un centro che ne giustifica l’esistenza, un centro
dal quale dipende tutta la vita della persona.
Il direttore, insieme con i suoi collaboratori,
accoglie o cerca ovviamente la collaborazione solo di coloro che condividono la
linea del giornale, così come un organismo vivente ingerisce ed assimila solo
quelle sostanze che suppone possano fargli bene ed essere compatibili con le sue
esigenze, finalità e struttura vitale.
Sono certo, per esempio, che se io
presentassi ad Avvenire un mio
articolo ispirato alla dottrina della Chiesa sul peccato originale o sul
peccato di sodomia o sui castighi divini o di critica al misericordismo o
contro il modernismo o contro Rahner o contro i falsificatori del Concilio
Vaticano II, non verrebbe accettato, non perchè quanto scrivo sia incompatibile
con la dottrina della Chiesa, ma al contrario proprio perché è in linea con
essa e perché quindi Avvenire si
sentirebbe punto sul vivo in quanto incompatibile con la dottrina della Chiesa.
Quando dunque dico con espressione popolare
«bacato dall’interno», credo che il lettore avrà già capito quello che voglio dire.
Non intendo dunque riferirmi ai servizi ed alle informazioni offerti da Avvenire sugli atti del Santo Padre o
della Santa Sede, su fatti concernenti Vescovi o Cardinali, sui fatti della
Chiesa in Italia e all’estero, sugli avvenimenti politici del giorno, sulle
vicende dell’economia, su servizi di carattere storico, culturale e letterario,
sui problemi degli immigrati e dell’ecologia, sull’andamento e la cura della
pandemia, sui fatti dello sport, dell’arte e dello spettacolo. Tutto ciò fatto
anche bene, solo che è solo l’insieme di ciò che costituisce l’aspetto o
apparato esterno del giornale, la facciata, la sua veste esteriore, le sue
espressioni contingenti ed accidentali, tutte cose ben distinte dall’anima dalla quale tutto procede.
Ed è qui, nella «terza pagina», dove si esprime
l’anima di un quotidiano, è qui che purtroppo Luigino si è installato a rovinare
dall’interno il Quotidiano. Ora, sappiamo bene che se una persona ha l’anima
corrotta, tutto il soggetto è un corrotto. Questa è la tragica situazione attuale
di Avvenire, della quale forse non si
rende conto.
Senonchè, di fatto, se ne renda o non se ne
renda conto, succede adesso che, essendo Avvenire
corrotto nel suo interno, tutti i valori che esso ci offre sono sprecati o
diventano ingannevoli. Se ne rendono conto i cattolici saggi ed avveduti, che
smettono di comprare il giornale. Si ricordi l’avvertimento del Signore: «la
lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo
sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà
tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!»
(Mt 7, 22-23), La luce di un giornale è la terza pagina: se essa è tenebra,
tutto il giornale sarà tenebra.
È un po’ come quando al mercato si comprano
delle belle mele: se ne apre una e ci si accorge che all’interno c’è del marcio.
Se tuttavia esso è circoscritto, basta toglierlo, e la mela è mangiabile. Se
invece non viene tolto, il marcio si estende, invade tutta la mela ed essa è da
buttare. Avvenire si trova nella
prima situazione. È ancora in tempo a purificarsi. Ma deve esortare
pressantemente Luigino a desistere dal voler fare da maestro in teologia e
Sacra Scrittura, perché non è tagliato, per cui, purtroppo, anche se
involontariamente, fa solo del danno.
E se Luigino
obietta che ha molti lettori, gli si deve rispondere dicendogli che la verità di
una tesi non dipende dal numero di consensi che ottiene, perché se fosse per
questo, anche Hitler aveva con sé tutto il popolo tedesco, ma dipende dalla
capacità argomentativa di chi sostiene quella data tesi. Si esorti dunque
caldamente Luigino a dedicarsi a tempo pieno all’economia, nella quale è molto
esperto e lasci stare la teologia e la Bibbia.
Si affidi la terza pagina a qualche teologo
normale, fedele al magistero della Chiesa,
non importa che sia famoso, perché spesso i più famosi sono i peggiori; l’importante
è che sia di retta fede, che non le
spari grosse e che non crei problemi. Questa volta Luigino non ha sbacchettato
come le altre volte. Ma non possiamo ancora dargli la sufficienza.
II. Due
calabroni negli spaghetti
Questa volta Luigino fa il cameriere di un
ristorante. Egli ci offre un buon piatto, ma – ahimè! – lordato da due calabroni
morti. Si tratta di gravi errori, che egli, quasi per rovinarci il pranzo, ci
fa improvvisamente incontrare, mescolati alla buona pasta, nel suo scritto sostanzialmente
buono, che svolge il tema del giusto che persevera nella fede, nonostante le
sventure che gli capitano e non si turba per il successo e la fortuna che favoriscono
l’empio. Dice Luigino:
«il Salmista invita tutti, ma soprattutto i
poveri che non lo sarebbero più se imitassero i disonesti, ma che non lo fanno,
perché preferiscono essere falliti da giusti che vincenti da empi».
Bella l’immagine nel «rannicchiarsi in Dio».
E commenta:
«il verbo
ebraico galàl rimanda a un avvolgimento,
un arrotolamento; richiama il bozzolo del baco, la nube di zucchero filato attorno
alla stecca, l’immagine del rannicchiamento del feto nel ventre materno. Il
salmista ci consiglia di raggomitolarci nel seno di Dio e da lì leggere la vita.
È questa l’unica posizione buona».
Giustissimo. Ma poi che succede? Ecco improvvisamente
apparire nella pasta un calabrone morto.
Primo
calabrone. Meglio la profezia della sapienza
Luigino definisce il sapiente in opposizione
al profeta e al sacerdote:
«il sapiente non è un profeta che parla agli
uomini in nome di Dio («così dice il Signore»), non è il sacerdote, custode
della Legge, ministro del tempio e del sacro. Il sapiente non prende la sua
autorità né da una parola di privata di Dio, né dalla Legge-Torah. La sorgente
dell’autorità delle sue parole è la vita, la storia, l’esperienza umana. La
sapienza non è profezia, non è preghiera, non è neanche teologia: è la postura
umana per comprendere la “Legge e i profeti”, per poter iniziare a pregare
veramente, per distinguere i veri profeti dai falsi. Sapienza è la creatura che
si pone nel luogo giusto, lo scopre come “sede della sapienza” e pronuncia il
suo fiat».
Certamente per la Scrittura esiste una
distinzione fra il profeta, il sapiente e il sacerdote. Ma Luigino crea
un’ingiusta separazione o contrapposizione fra i tre uffici o carismi, che in
realtà non è conforme alla Scrittura. Esiste anche una «parola della sapienza»,
come insegna San Paolo (I Cor 2,8). E se è vero che l’addetto al culto e il custode
della Legge è il sacerdote, anche da lui però si richiede la sapienza (Ml 2,7)
ed anch’egli è «messaggero del Signore degli eserciti» (ibid.).
Anche il sapiente è in contatto con Dio come
il profeta che ascolta la Parola di Dio e come il sacerdote che Gli rende culto,
ed anzi il sapiente sa gustare la dolcezza di Dio (Sal 34,9), ha maggiore
intimità con Dio (I Cor 2,6.12), fruendo dei doni dello Spirito Santo (Is 11,2).
La sapienza implica nel sapiente la bontà
(Sap 1,4) e l’unione con Dio (Sap 7,28), quindi lo stato di grazia (Sal 119,76;
Pr 3,34; Ef 3,7; Gc 1,17 ecc.), la carità (Col 3,14), la santità (Sap 7,27) e
la perfezione (I Cor 2,6).
La sapienza purifica il cuore (Sap 7,23; Gc
3,17) e lo rende atto a vedere Dio (Mt 5,8). Il sapiente desidera stare col
Signore e a tal fine purifica il proprio cuore: «chi salirà il monte del
Signore? Chi starà nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi
non pronunzia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo» (Sal 23, 3-4).
La sapienza non è un sapere meramente intellettuale,
ma per affinità o per connaturalità[1]
affettiva, animato dalla carità ed espressione della carità, la quale è il
vincolo della perfezione (Col 3,14) e conosce Dio mediante l’amore (I Gv 4,1). Per
questo, questo tipo eccelso di sapienza, dono dello Spirito Santo, suppone l’anima
in grazia e la ricerca della santità.
Così, la sapienza, nel momento in cui è
associata all’amore di Dio, è associata anche al timor di Dio (Gb 28,28; Pr
15,33; Sir 1,12, ecc.), che nasce dall’amore e che è il vivo senso del sacro, pregio della virtù di
religione, che è virtù speciale del sacerdote, ossia quell’atteggiamento
dell’animo, per il quale l’uomo pio e devoto, conscio del suo nulla e della sua
indegnità davanti a Dio, nonché della sua totale dipendenza da Lui, avvertendo
con tremore la sua infinita trascendenza, e l’imperscrutabilità dei suoi arcani
voleri, prostrandosi fino a terra davanti all’immensa maestà divina, ha massima
cura di non offendere il Signore e tiene in massimo grado a farGli piacere in
tutto.
È vero che la missione profetica è parlare a
nome di Dio, il farsi latore di una rivelazione divina o di un messaggio o di
un avvertimento o comando divino, soprattutto un messaggio concernente gli atti
liberi futuri, che Dio solo può conoscere. Ma Paolo parla anche di una «parola
di sapienza» (I Cor 2,8), che è effetto del dono della sapienza, connesso con la
carità e la santità. Invece la pura e semplice profezia, per quanto suscitata
da Dio, essendo una missione per gli altri e non un dono per la propria
santificazione, può essere posseduta e praticata anche da persone prive della grazia
di Dio (Mt 7,22).
Dunque non è vero che «il sapiente non prende
la sua autorità né da una parola privata di Dio né dalla Legge-Torah». Non è
vero che «la sorgente d’autorità delle sue parole è la vita, la storia,
l’esperienza umana, che il sapiente esplora e penetra per scoprire verità che
per la Bibbia assumono un grande valore».
La sapienza, secondo la Scrittura, ha invece
la sua autorità proprio dal fatto di attingere con fede e fiducia alla Parola
di Dio, che essa interiorizza e medita nel cuore, sicché la Parola è come un
seme divino, che matura e fruttifica nella parola della sapienza. Anche la meditazione
della Legge è per la Scrittura fonte di sapienza sia speculativa, perché insegna
ad obbedire a Dio, che pratica, perchè dirige e rettifica la condotta umana:
«quanto amo la tua legge, Signore, tutto il
giorno la vado meditando. Il tuo precetto mi fa più saggio dei miei nemici,
perché sempre mi accompagna. Sono più saggio di tutti i miei maestri perchè
medito i tuoi insegnamenti. Ho più senno degli anziani, perchè osservo i tuoi
precetti. Tengo lontano dai miei passi ogni via di male, per custodire la tua parola.
Non mi allontano dai tuoi giudizi, perché sei tu ad istruirmi. Quanto sono dolci
al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca. Dai tuoi decreti ricevo
intelligenza, per questo odio ogni via di menzogna» (Sal 119, 97-104).
Dice Luigino: «La sorgente dell’autorità
delle parole del sapiente è la vita, la storia, l’esperienza umana» Sono espressioni
vaghe, del tutto inadeguate e insufficienti. Il sapiente della Scrittura non
ragiona affatto «secondo gli elementi del mondo» (Col 2,8). Questa non è la
vera sapienza, ma è quella che San Giacomo chiama «sapienza terrena, carnale,
diabolica» (Gc 3,15). Il sapiente della Bibbia trae certo la conoscenza delle
perfezioni invisibili di Dio partendo dalle cose visibili (cf Rm 1,20); ma giunto
alla conoscenza naturale di Dio, si apre a riceverla da Dio stesso (cf Pr 2,6;
Qo 2,26; Sap 7,7).
Dire anche che «la sapienza non è teologia» è
falso. Essa è somma e sublime teologia, per la quale il teologo, che in questo
caso è il mistico, sperimenta nel suo cuore, grazie al dono della sapienza, una
presenza di Dio talmente intensa e sublime, che gli mancano le parole per
esprimerla. Da qui il silenzio o l’estrema sobrietà della parola, silenzio
accompagnato dalle opere di carità, silenzio che per il discepolo è più
espressivo, persuasivo ed istruttivo della parola, come è testimoniato da
coloro che sono a contatto con i mistici.
Il primato della profezia sulla sapienza non
è proprio della Scrittura, ma del Corano, perché mentre la Scrittura aspira
alla visione di Dio nell’amore e nell’unione mistica con Lui, che è frutto del
dono della sapienza, e dell’esperienza contemplativa[2],
il fedele islamico desidera semplicemente adorare e ringraziare Dio,
nell’obbedienza alla volontà divina, istruito dal profeta.
Per il musulmano la beatitudine dopo la
morte, ossia il paradiso, non consiste affatto nel vedere l’essenza divina,
perché non accetta la prospettiva offerta da Cristo (Gv 17) di vedere il Padre
e il Figlio, ma consiste semplicemente nella possibilità di godere a volontà di
tutti i beni umani e dell’universo creato, spirituali e materiali.
Secondo
calabrone. L’utopia al posto dell’escatologia
Luigino esordisce con un versetto del Salmo
37,18. Egli ha questa traduzione: «il Signore ha cura dei giorni dei buoni, tesori
di eternità gli prepara». La traduzione della CEI della Bibbia di Gerusalemme invece ha queste parole: «Conosce il Signore
la vita dei buoni: la loro eredità durerà per sempre». Questa differenza non
tocca l’essenziale, che è nell’uno e nell’altro caso un premio eterno dopo la morte.
Ma ecco come interpreta Luigino: «allora il
giusto è colui che custodisce la promessa di una terra che sa che non possederà mai, è sentinella dell’utopia, che vive ogni terra come
provvisoria e la vita come pellegrinaggio». Ci domandiamo stupefatti da dove e con
quale faccia Luigino inventa una simile mostruosità. Abbiamo la sensazione che
si prenda gioco di noi o, come si dice popolarmente, che «dia i numeri».
Ma freniamo lo sdegno e prendiamolo sul
serio. Due cose. Innanzitutto notiamo che Luigino non recepisce assolutamente
il riferimento alla vita eterna, ma semplicemente e disinvoltamente, con fare
creativo, sostituisce il provvisorio
all’eterno. L’eterno semplicemente sparisce,
è cancellato.
Da qui la seconda cosa: l’utopia. La Bibbia
afferma la vita eterna e Luigino la nega. Potremmo chiedergli: ma come si
permette? Probabilmente ci risponderebbe: è il metodo creativo in teologia. E
più precisamente è il collegamento del provvisorio con l’utopia, in quanto
l’utopia comporta per Luigino un succedersi di atti provvisori di avvicinamento
al contenuto dell’utopia, senza che mai nessun atto possa realizzarla.
È chiaro che se Luigino per «utopia» intende
questo, l’utopia è un concetto assolutamente estraneo alla Bibbia, per il fatto
che sarebbe offesa a Dio pensare che Egli possa indirizzare l’uomo ad un fine che
non può raggiungere. Sarebbe come accusarlo di insipienza, il che è un’evidente
bestemmia. Anche la ragione naturale dice che se un bene è irraggiungibile
dall’uomo, allora non è fatto per lui e non gli è dovuto. Ma se un bene è fatto
per l’uomo, allora è raggiungibile ed è suo diritto possederlo.
Ad ogni modo, anche dando all’utopia il
significato migliore possibile come ideale non realizzabile, la Bibbia non ci
prospetta nessuna utopia, ma un futuro di beatitudine estremamente reale,
concreto e perfettamente realizzabile col soccorso della grazia: quel mondo
futuro, che sarà dato dai «nuovi cieli e nuova terra, nei quali avrà stabile
dimora la giustizia», dei quali parla San Pietro (II Pt 3,13) in riferimento
alla Parusia di Cristo ed alla futura resurrezione.
L’unico senso accettabile che si può dare al
concetto di utopia, riferibile all’insegnamento biblico, nasce dal confronto
fra la condizione terrena attuale di imperfezione e la condizione di perfezione
finale del paradiso. In tal senso si potrebbe senz’altro dire che sarebbe utopistico,
nel senso di vano, il credere che fin d’ora in questa vita possiamo realizzare in
pienezza le condizioni di perfezione proprie della vita futura. Ma purtroppo
abbiamo visto in un articolo precedente la disistima che Luigino nutre per la
perfezione evangelica: preferisce, a quanto pare, adagiarsi nelle mezze misure
di questo mondo.
Falsa ed empia è inoltre l’affermazione
secondo la quale «il giusto è colui che custodisce la promessa di una terra che
sa che non possederà mai», come a
dire che Dio può promettere senza mantenere, il che pure ha il sapore di una
bestemmia.
Falsa è anche l’affermazione secondo la quale
«il giusto è la sentinella dell’utopia,
vive ogni terra come provvisoria e la vita come pellegrinaggio». Qui Luigino
sembrerebbe riferirsi all’avvicendarsi ed all’instabilità delle avventure
terrene, ricondotte all’immagine dell’utopia. Ma il «giusto» che Luigino
vorrebbe spacciare per il giusto della Bibbia, è in realtà tutto il contrario
del giusto della Bibbia, che non guarda ad un’«utopia», ma attende la vita
eterna, che inizia già qui.
Fontanellato, 30 giugno 2020
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