Ci stiamo smarrendo - Il caso del Gesuita Paolo Gamberini - Seconda Parte (2/2)

 Ci stiamo smarrendo

Il caso del Gesuita Paolo Gamberini

 

Seconda Parte (2/2)
 

La dottrina trinitaria e la purificazione dell’immagine di Dio 

 

14. La dottrina trinitaria come metafora tra Dio e il mondo permette di trascendere le forme non duali della relazione tra Dio e mondo. Bisogna trascendere le forme antropomorfizzanti con cui è stato pensato, immaginato e anche creduto Dio.

Ob. – La dottrina trinitaria non mette in gioco delle metafore antropomorfiche se non in via simbolica e subordinata e a fini pedagogici, come per esempio quella del “paraclito” (avvocato) o del “fuoco” o della “colomba” (lo Spirito Santo) o del maestro (“vi insegnerà”). Ma il suo contenuto non può essere afferrato se non mediante nozioni metafisiche, come quella della persona, della sostanza, della natura, dell’essenza, della sussistenza, dell’essere, della relazione, ecc.

 

15. Per realizzare questa purificazione dell’immagine di Dio, è necessario attingere direttamente alla sua realtà, così come suggerisce Meister Eckhart, concependo la divinità al di là di ogni determinazione e limitazione, anche personale deus-trinitas, attingendo a quella realtà che Meister Eckhart chiama il profondo, il fondo dell’anima, laddove si dà la forma più alta dell’unità tra Dio e l’uomo che è lo spirito.

Ob. – Non esiste una realtà al di sopra della realtà della persona, perché la persona è l’ente più perfetto ed elevato che esista. Lo spirito non è la forma più alta dell’unità tra Dio e l’uomo. Lo spirito è semplicemente la realtà spirituale in genere. Uomo e Dio sono due persone, indubbiamente entità spirituali, Dio purissimo Spirito e l’uomo composto di spirito e corpo, certamente atte ad unirsi in un’intima unione spirituale, ma restando due persone distinte. 

 

16. L’interpretazione metaforica della dottrina trinitaria permette, infine, di ripensare cosa significa dire che Dio è persona e personale, e infine l’identità tra il vedere Dio e diventare Dio. 

Ob. - L’interpretazione metaforica della dottrina trinitaria porta a scambiare, come ho detto, il mistero trinitario per uno spettacolo della TV per ragazzi. Se io divento quel Dio che vedo, vuol dire che quel Dio non è il vero Dio, ma un parto della mia immaginazione col quale, come diceva Feuerbach, ipostatizzo quelle qualità umane che non ho consolandomi di immaginarle come se le avessi realmente.

 

Quale preghiera? 

 

17. Durante il tempo della pandemia e ora con la guerra in Europa è tornata al centro la questione della preghiera. Perché Dio non interviene nella vita degli uomini? Perché non risponde alle nostre preghiere? La maturazione della fede, anche nel modo di concepire la preghiera di richiesta, implica un cammino di trasformazione che fa passare dalla preghiera intesa prevalentemente come colloquio o dialogo con un Tu ad una lenta e approfondita trasformazione dell’orante nell’essere stesso di Dio. Noi diventiamo ciò che contempliamo; ogni uomo, ogni donna è chiamato a diventare Cristo, pienamente Dio. 

Ob. – Dio interviene continuamente, solo che ascoltiamo la sua voce e accogliamo il suo aiuto. Abbiamo chiesto la fine della pandemia e la pandemia è cessata. Chiediamo la fine della guerra in Ucraina. Se non veniamo esauditi è perché Dio vuol darci qualcosa di meglio.

La preghiera suppone un dialogo fra l’uomo e Dio come distinte persone. In essa l’orante certamente compie un cammino di progressiva adeguazione della propria volontà a quella di Dio. Ma il concepire l’orante come un soggetto umano che diventa la persona divina alla quale si rivolge, ciò lo si potrà intendere rappresentativamente nel conoscerla, ma il credere che l’uomo possa divenire Dio realmente per il semplice fatto di pensarlo, è una pura assurdità, che confonde la Creatura col Creatore ed esprime solo la superbia delirante dell’io che crede di essere uguale a Dio o di produrre Dio come il kabbalista con la potenza del suo pensare produce il Golem o per diventare ciò che ha pensato, così come io posso diventare ingegnere perché ho deciso di laurearmi in ingegneria o posso diventare Napoleone perché ho pensato a Napoleone.  Qui non siamo più nell’orizzonte della teologia ma in quello della psicopatologia.

 

18. La necessità di aggiornare l’immagine di Dio è sottesa nella nostra comprensione di fede. Nei primi secoli del cristianesimo, specialmente durante il periodo dei grandi Concili come quello di Nicea e di Calcedonia, la fede cristiana ha compiuto una svolta determinante: dal rigido monoteismo ebraico, ad una forma relativa di monoteismo che si è venuta poi ad esprimere nella dottrina trinitaria. L’idea dell’incarnazione fu fondamentale per attuare questa trasformazione. Tale sviluppo non fu mai considerato dalla chiesa un tradimento della fede biblica: anzi, potremmo dire in un senso evolutivo è stato il suo compimento. Quanto spinse nei primi secoli del cristianesimo a far evolvere l’idea cristiana di Dio, nell’attuale svolta post-teista è ciò che spinge vari autori a far compiere alla forma monoteista della fede cristiana un ulteriore passo verso l’oltre di Dio. La presente rivoluzione teologica intende ripensare il Dio senza Dio della secolarizzazione, fenomeno questo tipico dell’età moderna contemporanea, in direzione di un aggiornamento post-secolare dell’idea di Dio. Deus. DuepuntoZero.

Ob. – Padre Gamberini esprime l’esigenza di elaborare un nuovo concetto di Dio che possa parlare alla capacità di comprensione dei nostri contemporanei e l’idea è senz’altro giusta. Ma poi la proposta di Gamberini è la presente  raccolta di gravi errori già ben noti alla storia della teologia, errori che qui mi sono premurato di confutare.

Essi sono l’espressione di quella superbia che purtroppo seduce e gonfia il nostro animo sin dai tempi della tentazione dell’antico serpente, superbia per la quale noi, ribelli alla volontà di Dio, vorremmo poter fare a meno di Lui, denigrato in varie maniere, per sostituirci a Lui strappandogli i suoi attributi per appropriarcene noi.

L’esposizione di Gamberini è dunque fatta per solleticare la nostra superbia, con la conseguenza allarmante di spingerci sulla via della perdizione. Questi orribili errori sono già largamente diffusi e fanno un enorme danno. Quello di cui invece c’è bisogno urgente è di ritrovare il vero concetto di Dio, trascurato dal chiasso dei modernisti, dalle false sublimità degli gnostici, dalla boria dei pelagiani, dagli sdilinquimenti dei buonisti e dal compassionismo dei misericordisti. 

Importanza del tema suscitato dal Padre Gamberini

L’articolo di Padre Gamberini è una delle tante espressioni della tendenza modernistica attualmente presente nella Compagnia di Gesù.  Esso tocca un tema fondamentale della vita dello spirito: il problema di come concepire Dio e il nostro rapporto con Lui.

Si sta diffondendo un metodo errato di affrontare il tema. Si tratta di esso non come se fosse una questione speculativa, ma come se fosse una questione pratica, non quindi con attitudine e metodo scientifico, rigore logico-deduttivo, argomentazione razionale dimostrativa, ordine sistematico ovvero sistemazione concettuale. 

Il teologo non assume il metodo della scienza, non ha l’atteggiamento di chi vuol analizzare e dirci le cose come sono, come potrebbe fare un fisiologo che studia e descrive le funzioni del cervello o del cuore, ma quello della creatività o del fare artistico, come il cuoco che inventa una nuova pietanza accostando i suoi componenti secondo il suo genio o il poeta che dà libero sfogo ai voli della fantasia per sorprenderci con le sue trovate.

Il Dio di Gamberini non è il Dio reale, ma un Dio inventato, non è un Dio che non esiste in sé indipendentemente da noi. Al contrario è un Dio prodotto da noi, che la Bibbia chiama «prodotto dalle mani dell’uomo» (cf Dn 14,5; Sal 115,4; 136, 15; Is 2,8; Ger 1,16), un Dio costruito dal pensiero ed effetto del pensiero, quello che essa chiama «idolo».

Urgente è invece ripristinare una visione di Dio secondo i suoi veri attributi tra loro ordinati e connessi, così da mostrare la ragione della connessione degli uni con gli altri, cosicchè gli uni non possono stare senza gli altri e nulla in questa visione vi sia di sconveniente e di incompatibile con la natura e l’operare divini. Nessun attributo deve mancare o esser negato. Nessuno se ne deve aggiungere se tutti sono presenti. Introdurre un attributo non necessario o sconveniente, negare ciò che gli si addice, porli in contraddizione tra loro, concepirli a modo umano vuol dire deformare il concetto di Dio.

Ed è chiaro che se Dio è la regola della volontà umana, un Dio che è un idolo non potrà fare il bene dell’uomo. Un Dio al quale manca qualche attributo essenziale o al quale si assegna un attributo che non gli conviene, un Dio del genere non potrà essere il salvatore dell’uomo. Obbedire a un Dio simile sarà piuttosto servire il demonio che non il vero di Dio. Obbedire a un Dio costruito dall’uomo, sarà un obbedire a se stessi mettendosi al posto di Dio.  

Papa Francesco sta mettendo ordine nella Compagnia di Gesù

 riconoscendone i lati positivi

La Provvidenza ha voluto che per la prima volta nella storia salisse al trono di Pietro un Gesuita proprio in un momento storico nel quale la Compagnia di Gesù da circa sessant’anni sta procurando danni gravissimi alla Chiesa sotto le apparenze di un falso progressismo e a causa di una falsa interpretazione della riforma conciliare.

Come i miei Lettori sanno da miei precedenti articoli, Giovanni Paolo II, del tutto consapevole di questo enorme danno che la Compagnia stava facendo alla Chiesa, aveva concepito certamente con grande dolore come rimedio estremo a tanto male il disegno di abolirla[1].  Tutto il pontificato di S.Paolo VI era stato un calvario causatogli dalla potentissima corrente dei rahneriani, senza parlare dei seguaci di Teilhard de Chardin e del dubbio spiritualismo di De Lubac e Von Balthasar, teologi per certi aspetti di grande valore[2].

Quanto a Giovanni Paolo I, come tutti sappiamo, morì improvvisamente in circostanze misteriose proprio poche settimane prima di un importante raduno della Compagnia che aveva in animo di proseguire la sua linea modernista, mentre egli stava preparando per questo raduno – la cosiddetta «Congregazione generale» - un discorso di severissimo ammonimento a cessare di recar tanto danno alla Chiesa e di fortissima esortazione, quasi a modo di ultimatum, dopo tanta eroica pazienza portata da Paolo VI, a lavorare una buona volta alla vera realizzazione del Concilio, recuperando veramente, come il Concilio prescriveva, lo spirito di Sant’Ignazio senza deformarlo con gli errori della modernità.

San Giovanni Paolo II, dal canto suo, appena assunto l’ufficio petrino, ben conoscendo la situazione e gli intenti del precedente Pontefice, aveva concepito il medesimo disegno, se non ne fosse stato distolto dal potente ed abile Segretario di Stato Card. Agostino Casaroli, il quale mostrò al Papa i meriti che tuttavia la Compagnia conservava nei confronti della Chiesa e quanto di positivo stava facendo per la realizzazione del Concilio.

Il Papa si convinse e desistette dal proposito, ma anche tutto il percorso del suo pontificato sarebbe stato segnato da un’immensa sofferenza che gli avrebbero procurato i rahneriani soprattutto nell’applicazione filomarxista in America Latina dell’etica sociale rahneriana, la cosiddetta «teologia della liberazione».

L’impotenza dei Papi del postconcilio ad ottenere la vera realizzazione del Concilio contro la falsificazione modernista è stata provocata dal fatto che una certa tendenza buonista, in qualche modo presente nello stesso Concilio,  si era diffusa nell’episcopato, persuasosi che erano finiti i tempi delle condanne e che occorreva lasciare a tutti i teologi la libertà di esprimere qualunque opinione e in particolare al rahnerismo, dotato della particolare astuzia di proporsi come consigliere alla gerarchia su che cosa fare per attuare la riforma conciliare.

Solo pochissimi teologi,  per lo più tomisti, Vescovi e Cardinali, alcuni assai noti ed autorevoli, riuscirono a sottrarsi al fascino seducente e malefico del rahnerismo, solo pochissimi si accorsero dell’enorme truffa, ne individuarono le cause e i rimedi, tuttavia Vescovi e Cardinali  mal sopportati e bersaglio di derisione da parte di molti confratelli, col risultato di lasciare il Papa da solo esposto ad attacchi feroci, senza appoggi, senza difese e senza potere d’intervento e poter prendere provvedimenti disciplinari. Il caso estremo di questo fenomeno è stato quello di Benedetto XVI.

Il potere dei rahneriani sotto Benedetto XVI divenne talmente forte nell’ambito dello stesso Collegio cardinalizio, che, come è noto, il gruppo rahneriano che va sotto il nome di «mafia di San Gallo» riuscì a far eleggere proprio un Gesuita, nella speranza di far trionfare finalmente il rahnerismo espellendo una volta per tutte il primato di San Tommaso in teologia e sostituendolo con quello di Rahner.

Ma l’operazione, studiata con tanta cura e dispiego di mezzi e portata avanti con tanta perseveranza degna di una miglior causa, è andata buca. Papa Francesco, presentatasi l’occasione di esprimersi su questa importantissima questione decisiva per il bene della Chiesa e che sta alla radice dei mali che l’affliggono, si è pronunciato con chiarezza inequivocabile, come tutti i suoi predecessori da otto secoli, a favore di San Tommaso, riprendendo del resto la raccomandazione fatta dallo stesso Concilio.

Immaginiamoci lo scorno dei rahneriani, i quali avevano lisciato e coccolato Papa Francesco sin dall’inizio del suo pontificato, abbindolandolo con ogni specie di blandizie e adulandolo smaccatamente con i titoli più altisonanti che mai si sarebbero potuti immaginare. Ma Francesco, per quanto un po’ ingenuo e un po’ furbo, come egli stesso si è definito con un mio e suo amico Gesuita, sa di essere buono ma non fesso.

I modernisti sembrano aver retto al colpo e continuano imperterriti sulla cattiva strada con la solita baldanza. Ma ormai la loro sorte è segnata: devono riconoscere, se non vogliono esser ciechi, che il Papa, e proprio un Papa Gesuita! non è con loro. Ma è lui e non sono loro a interpretare il vero spirito di Sant’Ignazio, il quale raccomandò caldamente ai suoi figli di seguire in teologia San Tommaso.

E difatti la Compagnia, pur nella sua impostazione volontarista, ha dato alla Chiesa, nel corso della sua gloriosa storia, ottimi tomisti. Basti citare, per il secolo scorso, i nomi del Card. Billot, il Dieckmann, il Pesch, il Lange, il de Tonquédec, il Mattiussi, il Petazzi, il de Finance, il Siwek.

Dobbiamo dunque riconoscere che il consiglio dato a San Giovanni Paolo II dal Card. Casaroli non è stato sbagliato. La Provvidenza ha voluto e vuole una riforma della Compagnia dal suo stesso interno. Il provvedimento che avevano in animo Luciani e Wojtyla era troppo drastico ed umiliante per un Istituto religioso che in fin dei conti nel passato tanto bene aveva fatto alla Chiesa e ancora poteva fare.

Occorre però adesso che la Compagnia non si lasci sfuggire la chance che le è data dal Papa e non approfitti della sua bontà per continuare a fare come ha fatto finora scambiando Francesco per un debole, un manovrabile, o un connivente. Ingenuo, se vogliamo, troppo ottimista, ma non irresponsabile o pauroso. Misericordioso sì, ma non complice o utile idiota.

I Gesuiti dunque, senza approfittare del fatto che il Papa è uno di loro, devono al contrario sentirsi più che mai in dovere di offrire a tutta la Chiesa l’attestato di una esemplare obbedienza al Vicario di Cristo, ma obbedienza innanzitutto soprannaturale, al Papa in quanto Papa, non tanto concordanza con i suoi limiti umani e discutibili.

I rahneriani della mafia di San Gallo devono smetterla pertanto di credere di potersi servire del Papa per la realizzazione del loro piano sovversivo. Se sono stati determinanti nell’elezione di Bergoglio, devono ricordarsi che adesso il Papa non dipende da loro, ma dallo Spirito Santo, sempre che ci credano. Per questo, obbedire al Papa in quanto Papa vuol dire, tra l’altro e innanzitutto, obbedire al Papa quando raccomanda San Tommaso e non Rahner, per quanto rispetto si debba anche a questo teologo per i suoi lati positivi.

È finito il tempo del Gesuita che si sente in dovere di essere il primo della classe, di far man bassa di medaglie d’oro, come l’Unione Sovietica alle Olimpiadi di un tempo. Se i Gesuiti possono primeggiare nella disponibilità ad eseguire tutti i comandi del Papa, nell’iniziativa coraggiosa e innovatrice, nell’avvio di grandi imprese salvifiche, nella guida di anime sante, nel consigliare l’azione politica dei potenti, nell’audacia apostolica e nel dinamismo dell’azione missionaria, devono lasciare il campo della teologia speculativa e sistematica, teoretica e morale a San Tommaso e ai suoi discepoli, come a dire ai teologi Domenicani, frati di quell’Ordine del quale Tommaso, come è noto, è il figlio che meglio di tutti rappresenta il carisma domenicano del contemplata aliis tradere.

È nota invece la peculiarità di Sant’Ignazio: contemplativus in actione. Lasciamo che i due carismi ignaziano e domenicano si completino a vicenda, diamo a ciascuno il suo senza pasticci e confusioni, senza contrapposizioni, interferenze, intromissioni o invasioni di campo e senza invidie, rivalità, protagonismi, voglie di influenzare o suggestionare o primeggiare, ma con modestia, serietà, spirito di servizio, onorandosi a vicenda, imitando i migliori, anche se sconosciuti o disprezzati dal mondo,  non i più ammirati dal mondo, imparando da chi ne sa più di loro, e stando al proprio posto. Gareggiare nella santità, non nel successo mondano o nella ricerca del consenso.

Occorre sostituire il volontarismo con la prudenza

Il valore dell’azione è al centro della spiritualità ignaziana. Essa fa riferimento al fatto che tra noi, in relazione a questo fondamentale valore vitale ed esistenziale, ci sono due atteggiamenti diversi: quello dei decisionisti e quello dei prudenziali. Tanto gli uni che gli altri sono assolutamente interessati all’azione, conoscendola come problema vitale del senso della propria vita e della felicità. Ma mentre i decisionisti sono degli emotivi e degli impulsivi, che sentono prepotente ed impellente il bisogno di agire, di affermarsi e di influire sugli altri e sulla realtà, i prudenziali – la prudenza, come dice San Tommaso, è la recta ratio agibilium - sanno bene anche loro che alla fine, per vivere bisogna agire e che la vita è azione.

Ma appunto perché sanno bene questo, vogliono assolutamente e prudentemente preliminarmente sapere con certezza ed oggettività qual è il vero bene, qual è lo scopo della vita, per poter agire con intelligenza, avvedutezza, lucidità, ragionevolezza, cautela, fondatezza, sicurezza, senza precipitazione ed impulsività, ma con fondata speranza di ottenere ed essere efficaci, di riuscire e di conseguire lo scopo prefisso.

Cioè per i prudenziali il primo problema da risolvere è quello della verità. Essi aspirano alla carità. Ma è proprio per questo che essi vogliono prima sapere qual è la carità per non amare o camminare con la testa nel sacco e cadere vittime delle più amare delusioni, che potrebbero essere evitate con un sincero ed umile amore per la verità, un’attenzione alle cose come sono e non come ci immaginiamo che siano o vorremmo che fossero.

I prudenziali intendono l’obbedienza come adaequatio intellectus ad rem, prima di essere esecuzione fedele della volontà del superiore. I prudenziali apprezzano l’obbedienza, ma per loro l’obbedienza pratica, obbedienza al comando del superiore, suppone ed è condizionata e giustificata dall’obbedienza speculativa, l’obbedienza dell’intelletto alla realtà. Se non sono sicuro che quel bene è un vero bene, con quale prudenza posso perseguirlo? Se non sono sicuro che quel comando è ragionevole, è veramente buono, è fondato in verità e giustizia, con quale prudenza obbedisco e con quale certezza di agire bene e fare il bene?

Un decisionista che fa gnoseologia si convince come Cartesio che i sensi non danno la verità di cose esterne, ma che sta a me decidere che la neve è bianca e il sole manda luce. Dubita non perché obbligato dall’intelletto davanti a un dubbio ragionevole, ma per una forzatura della volontà e per una forzatura della volontà decide della verità senza aver consultato l’intelletto. Così il dubbio resta irrisolto e la volontà diventa doppia e libera di mettere il sì insieme col no. Questo è il famoso cogito cartesiano.

E se fa metafisica, egli è un idealista, per il quale l’essere non è un essere esterno a lui e indipendente da lui, ma è solo l’essere pensato e voluto da lui. Egli è insofferente di una realtà, di un tu che gli sta di fronte, indipendente da lui, o anche del suo stesso io, non posto dal suo atto di pensare, non effetto del suo volere e del suo agire, ma un reale, un oggetto o un tu, al quale l’intelletto debba adeguarsi per essere nella verità. No, per lui la verità è quella che decide lui, non quella che gli è imposta dal di fuori, una realtà a lui esterna.

Anzi, come avviene nell’idealismo, egli arriva a credere – quanto è potente l’immaginazione! - che tutta la realtà, compreso Dio, la pone lui, la decide lui e la vuole lui col suo pensiero e la sua azione. Ed ecco la teologia di Fichte, di Hegel, di Gentile e di Rahner. Ecco la teologia di Gamberini.

Il pensare dell’idealista non è un concettualizzare, un rappresentare o un formare idee, ma un fare, è un’azione magica o demiurgica: la realtà è posta, plasmata e fatta dalla sua volontà. Egli con questa pretesa folle ed esorbitante si immagina di sostituirsi all’azione creatrice di Dio e così di possedere un’onnipotenza pari a quella divina. Crede di produrre Dio col suo pensiero così come io pongo col mio pensiero o nella mia mente l’immagine di Topolino o di Babbo Natale.

Il decisionismo è il lato debole della Compagnia di Gesù come l’intellettualismo è il lato debole del Domenicano. L’esser troppo assorbiti dai principi astratti ha condotto noi Domenicani nel passato a trascurare le contingenze e i mutamenti della storia e il concreto delle circostanze che attenuano le responsabilità e diminuiscono l’entità delle colpe. Da qui quel conservatorismo, quella rigidità, quell’immobilismo e quell’astrattezza che Papa Francesco lamenta come ancora presente in alcuni cattolici. Se noi Domenicani fossimo stati più fedeli a San Tommaso, non ci sarebbero capitate le ben note disavventure che tutti conoscono. 

Il Concilio ha spinto noi Domenicani a correggere gli errori del passato. Spesso, tuttavia, è successo che per rimediare si è caduti nell’errore opposto dello scetticismo, del relativismo, del modernismo. Il pensiero di San Tommaso è stato inquinato dagli errori di Ockham, Eckhart, Cartesio, Kant, Hume, Hegel, Freud, Husserl, Heidegger, Gentile, Severino, Bontadini e Rahner. Pochi hanno saputo trovare in Maritain, pur raccomandato dai Santi Paolo VI e Giovanni Paolo II, la via giusta.

Ma lo stesso rimprovero, benché in forma speculare, potremmo rivolgere ai nostri fratelli Gesuiti: se fossero stati più fedeli all’Aquinate nella limpidezza del ragionare e nella lealtà del pensare, senza furbizie, scappatoie, escamotages e doppiezze, a quest’ora non avrebbero creato tante divisioni, contrasti e conflitti d’interessi in lotte e manovre di potere, finta obbedienza, intrighi politici, azioni sediziose, ingiustizie sociali, politicizzazione della religione, liberalismo morale.

Etienne Gilson nel suo libro Études Sur Le Rôle De La Pensée Mediévale dans la Formation du Systeme Cartésien[3] ha mostrato come il provenire di Cartesio da una formazione ricevuta da un Collegio dei Gesuiti, non sia privo di responsabilità nell’aver causato in lui quella slealtà e quell’astuzia nel pensare e nella condotta morale, e quella smodata voglia di novità ed originalità che è all’origine di quel centrarsi dell’io umano su se stesso che nei secoli seguenti porterà al panteismo hegeliano e all’ateismo marxista.

Purtroppo fin dagli inizi dell’attività della Compagnia di Gesù nacque fra Gesuiti e Domenicani una sottile rivalità per la guida intellettuale teologica della Chiesa. Sant’Ignazio col suo nuovo Istituto non intese assolutamente sostituirsi o superare i Domenicani in questo campo, anzi aveva il massimo rispetto per San Tommaso. Egli intese invece affiancarsi ai Domenicani, i quali, benché acuti critici di Lutero, non riuscivano a possedere quel dinamismo conquistatore agli ordini del Papa, che era necessario in quel drammatico frangente nel quale una grossa fetta della cristianità si stava sollevando contro il Papa. E di fatti i Gesuiti riuscirono a ricondurre alla soggezione al Papa molti luterani, oltre a dimostrare uno slancio missionario prodigioso in ottemperanza ai decreti del Concilio di Trento.

L’ambizione ad essere alla guida della teologia si manifestò invece già alla fine del sec. XVI con due teologi gesuiti: Francesco Suarez e Luigi Molina: il primo pretese di elaborare un sistema teologico più avanzato e comprensivo di quello di San Tommaso, seguendo sì Tommaso, ma dando spazio nel contempo in modo incoerente e contradditorio agli errori di Duns Scoto e Guglielmo di Ockham, quasi che questi dovessero completare l’opera di Tommaso.

Il secondo attirò su di sé le critiche dei Domenicani concependo il rapporto del libero arbitrio con la grazia, in modo tale da dare alla volontà umana un tale potere, che il suo atto non appariva più causato da Dio, ma fondato su se stesso, come se Dio per dare la grazia aspettasse la libera iniziativa dell’uomo. È il primo segno di quella tendenza volontaristica che già si trovava in Scoto ed Ockham e nello stesso Lutero, e che purtroppo è un principio di corruzione intellettuale, che è responsabile di tutte le deviazioni della Compagnia fino ad oggi.

Il rimedio a questo vizio è l’intellettualismo tomista, che, senza cadere nell’idealismo, riconosce la vera dignità della volontà e dell’azione, proprio mostrando che esse non devono sostituire l’intelletto, ma fondarsi sulla conoscenza intellettuale.

Per converso i teologi domenicani troveranno in quelli gesuiti degli ottimi maestri nel campo della casuistica morale pratica, dell’apologetica, della direzione spirituale, dell’ascetico-mistica, dell’applicazione politica della religione e dell’azione missionaria, nell’inculturazione della fede, del rapporto della psicologia con la morale.

Il messaggio conciliare esorta, come la Divina Commedia, un’umanità smarrita a ritrovare il cammino verso Dio meditando sulle conseguenze infernali del peccato, sul valore purificatorio della penitenza e sulla gioia della vita eterna. Noi Domenicani insieme con i Gesuiti siamo chiamati a completarci e a correggerci a vicenda nell’indicare all’umanità smarrita questo cammino del ritorno a Dio.

Padre Gamberini è un esemplare di quella corrente della Compagnia di Gesù che crede ancora nella vittoria del rahnerismo nonostante l’esortazione del Papa a tornare a San Tommaso. Gamberini dovrebbe rendersi conto che la sua modernità non è altro che un ritorno al paganesimo. Il suo Dio Duepuntozero è dunque al di fuori del corso vivo della storia ed è una proposta senza futuro.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 maggio 2023

 

16. L’interpretazione metaforica della dottrina trinitaria permette, infine, di ripensare cosa significa dire che Dio è persona e personale, e infine l’identità tra il vedere Dio e diventare Dio. 

 

Ob. - L’interpretazione metaforica della dottrina trinitaria porta a scambiare, come ho detto, il mistero trinitario per uno spettacolo della TV per ragazzi. Se io divento quel Dio che vedo, vuol dire che quel Dio non è il vero Dio, ma un parto della mia immaginazione col quale, come diceva Feuerbach, ipostatizzo quelle qualità umane che non ho consolandomi di immaginarle come se le avessi realmente.

Il messaggio conciliare esorta, come la Divina Commedia, un’umanità smarrita a ritrovare il cammino verso Dio meditando sulle conseguenze infernali del peccato, sul valore purificatorio della penitenza e sulla gioia della vita eterna. 

Noi Domenicani insieme con i Gesuiti siamo chiamati a completarci e a correggerci a vicenda nell’indicare all’umanità smarrita questo cammino del ritorno a Dio.

 
Immagini da Internet:
- Santissima Trinità, Chiesa della Santissima Trinità, Pratola Peligna
- Strada, Bob Dylan 
 

[1] La vicenda è narrata dal Gesuita Malachi Martin nel suo libro I Gesuiti. Il potere e la segreta missione della Compagnia di Gesù nel mondo in cui fede e politica si scontrano, Sugarco Edizioni, Milano 1988. Il titolo dell’originale inglese è molto più franco: La Compagnia di Gesù e il tradimento della Chiesa Cattolica Romana.

[2] Sui rapporti di San Paolo VI con i Gesuiti, vedi Antonio Caruso, SJ, Tra grandezze e squallori, Edizioni Viverein, Monopoli, (BA), 2008.

[3] Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, Vrin, Paris 1975.

7 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    le sono profondamente grato per il suo articolo che critica il pensiero di padre Gamberini. Quando questo tipo di pubblicazione appare sul tuo blog, ne approfitto enormemente, perché so che i suoi testi non rimangono detenuti in una mera critica degli errori di altri filosofi e teologi, ma piuttosto si espandono esponendo le vere dottrine.
    Lo stesso accade con le sue pubblicazioni riferendosi a tutte le difficoltà che nell'ultimo decennio sono state sollevate dalla parola di Papa Francesco, con i suoi limiti e carenze espositive, filosofiche e teologiche, che producono fraintendimenti, che devono essere sempre correttamente interpretati.
    La Provvidenza vuole che noi che godiamo della riflessione intellettuale alla ricerca della verità, approfittiamo degli errori oggi così diffusi, per ripensare la filosofia e la teologia nei loro corretti orientamenti. Il vostro aiuto in questo senso è sempre prezioso.
    Alla fine del suo articolo, prendo atto della raccomandazione che ancora una volta ci fa, di avere in Jacques Maritain un sicuro maestro di autentico tomismo. Purtroppo in Argentina si soffre ancora della propaganda fatta da alcuni intellettuali negli anni 1940s (tra cui Meinvielle) contro Maritain, che essi considerano difettoso nel modernismo, in particolare nelle sue opere sulla morale sociale e politica (Umanesimo integrale, L'uomo e lo Stato, eccetera.). Nominiamo Maritain, e una sfilza di avversari pseudo tomisti si ribella contro di noi.
    Nomini a questo proposito solo Maritain. C'è qualche altro tomista al livello di Maritain, nel nostro tempo, da raccomandare?
    Infine, una sua piccola distrazione nel testo, sicuramente frutto di qualche contrattempo con le dita sull'teclado: negli ultimi dieci paragrafi nomina "Etienne" senza scrivere "Gilson". Anche se è facile scoprire chi è.
    Ancora una volta, grazie per il suo lavoro.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Ross,
      sono molto contento per la sua sintonia col lavoro che sto facendo nella volontà di fare tutto il possibile per procurare la pace nella nostra amata Chiesa, nella quale da troppo tempo c’è il ben noto scontro tra lefevriani e modernisti.
      Sapevo bene dell’opposizione di Meinvielle a Maritain. Egli stesso a suo tempo ne parlò addolorato, perché si accorse di essere frainteso. D’altra parte da molti anni conosco il pensiero di Meinvielle attraverso un suo ottimo studio storico intitolato “Influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano”. Si tratta di una dotta disamina dello sviluppo dello gnosticismo, originato dalla Kabbala. Egli passa poi a dimostrare l’influsso della Kabbala nel pensiero rinascimentale italiano, con la sua tendenza alla magia.
      Da qui egli parte per mostrare l’influsso dell’antropocentrismo rinascimentale nella nascita del pensiero cartesiano, che dà a sua volta origine sia all’idealismo che al razionalismo massonico settecentesco.
      Da qui mostra lo sviluppo che dall’illuminismo porta all’idealismo tedesco, nel quale a sua volta trova le sue radici la teologia di Rahner, della quale fa un’ottima analisi critica.
      Ho sentito il dovere di sottolineare gli aspetti positivi di questo teologo, che fa onore alla vostra cultura argentina, anche se purtroppo non è stato capace di apprezzare Maritain.
      D’altra parte bisogna dire che effettivamente, come capita in tutti i filosofi, anche Maritain non è privo di difetti. Tuttavia non sono quelli dei quali lo accusa il Meinvielle, ossia di avere una teoria sociale di carattere liberale o anche filomarxista, perché al contrario “Umanesimo Integrale” si presenta come un annuncio profetico della “Gaudium et Spes” del Concilio Vaticano II.
      I difetti di Maritain si trovano da un’altra parte. Essi consistono sostanzialmente in una certa concezione spiritualistica della persona e dell’esperienza mistica, tale per cui sembra essere svalutata la funzione del concetto per dar spazio ad una specie di precomprensione non concettuale, che ricorda addirittura Rahner o quanto meno Bergson.
      La cosa curiosa però è che questa tendenza modernistica sorge soltanto negli anni ’30, dopo che per alcuni decenni Maritain ci aveva dato un’ottima teoria della conoscenza concettuali nei famosi “Gradi del sapere”.
      Accanto a Maritain si potrebbe fare il nome di Congar. La differenza tra i due è che Maritain sviluppa maggiormente la filosofia, mentre Congar è soprattutto un teologo, anche se ha un’ottima introduzione alla teologia, dal titolo “La fede e la Teologia”. Tuttavia anche Congar, se da una parte è un grande maestro di ecumenismo, purtroppo è eccessivamente indulgente nei confronti di Lutero.
      Altri buoni tomisti li abbiamo avuti nel secolo scorso soprattutto in Francia e in Italia. Abbiamo avuto soprattutto il Garrigou-Lagrange, il Gredt, il Sertillanges, il Nicolas, il Billot, il Browne, lo Spiazzi, il Cordovani, il Masnovo, il Ciappi, il Maggiolo, il Piolanti, il Parente, il Perini, il Livi ed altri.
      Infine vorrei ricordare anche il Padre Tomas Tyn, morto purtroppo giovane, ma che era una grande promessa per la scuola tomista.

      Elimina
    2. Grazie, padre Cavalcoli, per i suoi chiarimenti, sempre generosi ed estesi.
      È davvero doloroso vedere come oggi nei teologi, spesso titolari di cattedre presso università e seminari pontifici, abbondano posizioni moderniste, spesso rahneriane. È quindi comprensibile che oggi la Sede Apostolica abbia lasciato il problema alla divina provvidenza, poiché sarebbe un caos di risultati imprevedibili sottoporre tutti i casi di insegnamenti eretici a processi disciplinari secondo il diritto canonico. Una soluzione del genere non sembra possibile.
      Per quanto riguarda il caso di padre Julio Meinvielle, ha indubbiamente caratteristiche molto particolari, e mi sembra che cada nella morsa di quello che il gesuita Leonardo Castellani (altro famoso sacerdote cattolico argentino, che ha un numero enorme di discepoli nel mio paese) , "la discesa della mistica in politica", per usare una frase di Charles Péguy. Cercherò di spiegarmi.
      Meinvielle (compagno di seminario di monsignor Octavio Derisi) è stato un sacerdote molto attivo pastoralmente, parroco, fedelissimo ai documenti del Concilio Vaticano II, per niente “conservatore” o “lefebvriano” o “anticonciliare”. Purtroppo morì in età relativamente giovane, 67 anni, in un incidente stradale a Buenos Aires, fu investito e, dopo essere stato ricoverato per un mese, morì nel 1973.
      Ora, i suoi giovani discepoli (ebbi tra loro alcuni compagni) ebbero sempre una grande tendenza all'"apostolato sociale". Meinvielle, infatti, è stato il fondatore di un'associazione laicale che si potrebbe definire "contro-rivoluzionaria": aggettivo che lei ha citato una volta in un suo articolo. Lei, padre Giovanni, ha fatto coincidere il termine "controrivoluzionario" con i termini: destra, conservazione, restaurazione, tradizionalismo. Meinvielle è stata all'origine di gruppi attivi ed estremisti di estrema destra, fortemente anticomunisti. E attualmente in Argentina è considerato un eroe dai gruppi detti "contro-rivoluzionari cattolici", che di solito si proclamano "anti-progre" (vale a dire: anti-progressisti). Proprio lo stesso Meinvielle ha scritto articoli di giornale e saggi molto contrari a quello che chiamava "progressismo cristiano" in epoca conciliare e postconciliare. Purtroppo, credo che Meinvielle sia uno dei responsabili della confusione che esiste oggi in Argentina tra molti cattolici tra "progressismo" e "modernismo", e, quindi, la difficoltà che hanno ad accettare l'esistenza di un sano progressismo cattolico. Che oggi ha portato a posizioni filo-lefebvriane (che non erano quelle di Meinvielle). Da qui, appunto, nasce l'avversione di questi gruppi nei confronti di Maritain, che considerano un "cristiano progressista" (assimilandolo a "modernista").
      Questi gruppi di cattolici contro-rivoluzionari affermano inoltre di avere la loro origine ideologica negli insegnamenti del brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (corrente di pensiero integrista, fondamentalista e tradizionalista a cui appartiene il professor Roberto de Mattei, come lui stesso ha dichiarato più volte esplicitamente).
      Padre Cavalcoli: il riferimento che faccio qui al carattere "contro-rivoluzionario" di Meinvielle, e di questi gruppi cosiddetti "cattolici contro-rivoluzionari", mi fa domandare e concludere che, sebbene a livello di principi e sul piano teorico si potrebbe ammettere un "cattolicesimo contro-rivoluzionario" (che potrebbe essere applicabile, ad esempio, nell'immediato periodo tridentino, o nei primi decenni del secolo scorso, o durante il pontificato di Pio XI e della sua Azione Cattolica), oggi, a livello pratico, cioè a livello pastorale, questo tipo di cattolicesimo, questo tipo di pastorale, non è ammissibile, per quello che oggi la Chiesa ci chiede: il dialogo (sebbene franco e rispettoso delle verità cattolica) aperto alle istanze della modernità. Concorderebbe con questa distinzione?
      Come vedete, approfitto ancora una volta della vostra generosità e del vostro invito al dialogo su un tema che ritengo importante per l'attuale situazione ecclesiale.
      Grazie.

      Elimina
  2. Caro Padre Cavalcoli,
    allo scopo di approfondire l'espressione "cattolico contro-rivoluzionario", largamente usata in Argentina, Brasile e Italia, mi permetto di fare altre indicazioni.
    In primo luogo, riguardo al suo intervento in un articolo con la menzione del termine "contro-rivoluzione", mi riferisco a un suo articolo apparso su "Riscossa Cristiana", credo alla fine del 2010, dal titolo "Destra e Sinistra...", dove lei spieghi che non si tratta di due categorie teologiche ma politiche. E per spiegarlo lei fa un dettagliato percorso storico del parlamentarismo dalla fine dell'Ottocento, ed è lì che associa il termine "contro-rivoluzionario" a posizioni di destra, tradizionalisti, conservatori, tradicionalisti, fondamentalisti e restauracionisti.
    In secondo luogo, i cosiddetti "contro-rivoluzionari cattolici" parlano spesso di una "contro-rivoluzione culturale", idea e prassi insegnate soprattutto dal libro del brasiliano Plinio Correa de Oliveira [1908-1995], "Revolución y Contrarevolución ", di cui Roberto de Mattei si manifesta come discepolo e seguace della sua ideologia.
    Si tratta più o meno di quanto segue: la civiltà cristiana occidentale è stata storicamente attaccata da quella che essi chiamano -dapprima piuttosto vagamente- "la Rivoluzione", ma che poi specificano cronologicamente suddivisa in quattro fasi, che sono: 1) la prima di natura religiosa, la Riforma protestante, preceduta e accompagnata da una rivoluzione culturale, rappresentata dall'Umanesimo e dal Rinascimento; 2) la seconda di carattere politico, la Rivoluzione francese; 3) la terza di natura sociale, la Rivoluzione Comunista e 4) l'ultima, la Rivoluzione Culturale, che ha avuto origine nei contestatori del 1968.
    I contro-rivoluzionari cattolici sono soliti riassumere la loro dottrina considerando che il nemico da sconfiggere è la "Rivoluzione contro il Medioevo". A questo proposito, questi contro-rivoluzionari intendono fondare la loro ideologia su un passaggio di un discorso di Papa Pio XII agli Uomini di Azione Cattolica, datato 12 ottobre 1952, in cui il Papa esprime:
    "Oh, non chiedeteCi qual è il « nemico », nè quali vesti indossi. Esso si trova dappertutto e in mezzo a tutti; sa essere violento e subdolo. In questi ultimi secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale, sociale dell'unità nell'organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura senza la grazia" [qui i controrivoluzionari leggono la Rivoluzione Umanista]; la ragione senza la fede; la libertà senza l'autorità; talvolta l'autorità senza la libertà. È un «nemico» divenuto sempre più concreto, con una spregiudicatezza che lascia ancora attoniti: Cristo sì, Chiesa no" [qui i controrivoluzionari leggono la Rivoluzione protestante]. "Poi: Dio sì, Cristo no" [qui leggono la Rivoluzione liberale o francese]. "Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che Noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sulla umanità: un'economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio" [ e qui leggono la rivoluzione comunista].
    Cf: https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/speeches/1952/documents/hf_p-xii_spe_19521012_uomini-azione-cattolica.html
    È chiaro che né Papa Pio XII né nessun altro Papa ha usato il termine contro-rivoluzione cattolica. Tuttavia, i "cattolici contro-rivoluzionari" capiscono che è lei che Pio XII convoca.
    Mi fermo qui, semplicemente per approfondire la nostra riflessione sulla presunta "rivoluzione anti-cattolica" e sulla "contro-rivoluzione cattolica". Non mancano coloro (Plinio, De Mattei e altri) che associano queste espressioni a categorie tratte dalla Città di Dio, da sant'Agostino, e ai concetti teologici di "misterium salutis" e "misterium iniquitatis" man mano che vengono sviluppati nella storia.
    Forse un altro giorno, aggiornerò sui fatti su Meinvielle. Per ora penso che quanto detto sia sufficiente.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Ross,
      non conoscevo l’analisi fatta da Pio XII, che corrisponde esattamente a quella fatta da Maritain, da Padre Fabro e anche da altri Storici cattolici. Apprezzo il fatto che i contro-rivoluzionari cattolici intendano rifarsi a questo discorso. Tuttavia è significativo che il termine contro-rivoluzione non ricorre mai nel magistero pontificio.
      Invece nella enciclica “Populorum Progressio” di San Paolo VI troviamo il termine “rivoluzione” addirittura in un senso positivo, sia pure con molte restrizioni. Sappiamo come lo stesso Papa Francesco, all’inizio del suo pontificato, si sia lasciato qualificare, seppure forse per celia, come Papa rivoluzionario.
      Ora, come ho già detto, la parola “rivoluzione” è piuttosto delicata, perché è difficile toglierle del tutto un riferimento alla violenza, all’odio e alla faziosità. Che ci si debba opporre alla rivoluzione in questo senso, sono d’accordo, ma il termine contro-rivoluzione da una parte sembra significare una rivoluzione contro la rivoluzione, e quindi sembra quasi significare un ripagare il male col male, cosa notoriamente condannata dal Vangelo, e dall’altra sembra essere l’esclusione che in una rivoluzione possono esserci aspetti positivi, quando invece oggi meglio del passato sappiamo che nelle grandi rivoluzioni del passato, come quella di Lutero, di Cartesio, nonché la rivoluzione francese e quella sovietica, ci sono stati degli aspetti positivi, il cui riconoscimento è utile per edificare la pace oggi nel mondo.
      Per questo io ritengo che oggi come oggi ci si debba opporre a queste rivoluzioni con un atteggiamento più sfumato di quello del passato, troppo drastico, e che invece dev’essere improntato ad un sapiente discernimento tra il positivo e il negativo. Il che ovviamente non significa doppio gioco, ma equilibrata capacità di discernimento.
      Un’altra osservazione che vorrei fare è che bisogna stare attenti a non assimilare troppo ai conflitti umani il combattimento biblico tra angeli santi e angeli ribelli o tra figli della luce e figli del diavolo, perché qui la Scrittura si pone su di un piano puramente spirituale, dove l’opposizione tra il giusto e l’empio è chiarissima.
      Viceversa, sul piano della storia umana, i conflitti, dove esiste pur sempre chi ha torto e chi ha ragione, sono una realtà spesso estremamente complessa e confusa, per cui si trovano ragioni anche presso i nemici e torti pressi gli amici. Da qui la necessità di fare molta attenzione ad evitare quelle posizioni nette, che se sono doverose nella lotta degli spiriti, sono da evitare quando si tratta di conflitti umani nel corso della storia.
      Per questo occorre una paziente opera di analisi, di valutazione dei fattori in gioco e di discernimento, fatta con serietà e con modestia, sempre pronti ad ascoltare le obbiezioni dell’altro, anche se dobbiamo fondarci su principi morali assoluti. Ho trattato di questo tema in un mio recente articolo, dedicato alla pace come effetto della vittoria sul nemico.

      Elimina
  3. Caro Padre Cavalcoli,
    non ho ancora potuto leggere il ultimo saggio sulla pace come vittoria sul nemico. Lo farò a breve. La sua produzione è davvero enorme e abbondante. È difficile stargli dietro e tenere il passo con i suoi post!
    Affinché la nostra conversazione non si interrompa, vi darò ora quanto promesso: alcuni cenni sulla vita e l'opera dell'illustre padre Julio Meinvielle, che aiuteranno a comprendere le ragioni per cui i cosiddetti contro-rivoluzionari cattolici argentini hanno lui come riferimento (gruppi non necessariamente lefebvriani, ma piuttosto con un profilo filo-lefebvriano).
    Spero che questo sia il posto giusto per fare questi commenti (l'ho già chiesto), e spero che non causi problemi agli altri lettori del blog.
    Prima di tutto, nei miei precedenti commenti, vi ho espresso la mia personale opinione che Meinvielle aveva saputo accogliere bene i testi del Concilio Vaticano II. A questo proposito, ad esempio, esiste una raccolta di alcuni suoi scritti, che furono pubblicati con il titolo "El Progresismo Cristiano" (precisamente nella "Colección Clásicos Contrarevolucionarios", editoriale Cruz y Fierro, Buenos Aires 1983), dove Meinvielle realizza diversi riferimenti al Concilio Vaticano II, o anche all'Ecclesiam Suam di Papa Paolo VI, dove non c'è rifiuto né delle dottrine né delle direttive pastorali del Concilio.
    Tuttavia, anche in quel libro, ci sono scritti di Meinvielle che lo collocano in una posizione più conservatrice rispetto all'interpretazione del Vaticano II e del magistero di Papa Paolo VI. Ad esempio, c'è una critica a "Le paysan de la Garonne" di Maritain, dove Meinvielle critica in uno dei suoi capitoli quella che chiama "l'interpretazione progressista di Maritain dei documenti del Vaticano II". E ancora, in un suo saggio sull'enciclica Humanae vitae, parla del "diritto di criticare l'Humanae vitae".
    In tal modo, dovremmo forse sfumare un po' l'affermazione che Meinvielle ha recepito abbastanza bene le dottrine e le direttive del Vaticano II. Purtroppo è morto in età relativamente giovane, nel 1973. Penso che se avesse potuto vivere un altro decennio, forse la sua posizione nei confronti del Vaticano II si sarebbe potuta chiarire (in ogni senso).
    Ora, per quanto riguarda la attività pastorale di Meinvielle, come parroco, lì le cose sono più chiare. La sua posizione "contro-rivoluzionaria" è più chiara. Infatti, e ve lo racconto come un aneddoto, in una recente intervista nel decimo anniversario del suo pontificato, papa Francesco ha fatto riferimento al fatto che «i giovani dell'AC non sono più mandati a bruciare le tende dei protestanti evangelici , come fece una volta qualche parroco». Il Papa si riferiva proprio a Meinvielle. Si può immaginare che quelle parole di Francesco abbiano suscitato le ire dei contro-rivoluzionari cattolici argentini, con tanti post sui blog di internet.
    Un buon riassunto biografico affidabile di Meinvielle è nella versione spagnola di Wikipedia, dove sono indicate con precisione le organizzazioni di estrema destra di attività politiche (che hanno portato anche ad azioni terroristiche) nelle cui radici era Meinvielle. Cf. https://es.wikipedia.org/wiki/Julio_Meinvielle

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Ross,
      conosco molto bene “Le Paysan de la Garonne” Di Maritain. È una ottima interpretazione delle novità del Concilio, non c’è nulla di modernistico. Al contrario, Maritain dimostra di essersi subito accorto (siamo nel 1966) dell’insidia modernistica ed accenna anche alla reazione lefevriana.
      C’è un’ottima critica a Teilhard de Chardin, fa un’apologia della dottrina di San Tommaso, commenta lodevolmente la “Gaudium et Spes”. Riconosce che il marxismo apprezza il realismo, ma lo fa con uno sguardo troppo benevolo. C’è una buona critica all’idealismo. La cosa curiosa è che non si è accorto di Rahner. Potrebbe averne sentito parlare bene da persone di sua fiducia; o probabilmente è il segno della sua età avanzata, non più in grado di tenersi sufficientemente informato.
      Per quanto riguarda Meinvielle, da come me lo presenta, mi sembra un personaggio un po’ oscillante, perché da una parte apprezza il Vaticano II e dall’altra si permette di giudicare l’Humanae Vitae. Da una parte segue San Tommaso e dall’altra viene utilizzato da movimenti di estrema destra. Come è possibile? Simpatico l’episodio ricordato da Papa Francesco.

      Elimina

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.