L’atteggiamento
del cristiano nei confronti della sofferenza
Seconda
parte
La
sofferenza è causata dal peccato
Dio secondo la Bibbia, nella sua infinita
bontà, ha creato tutto perché esistesse senza il peccato, senza la morte e
senza la corruzione: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei
viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo
sono sane; in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra,
perché la giustizia è immortale» (Sap 1, 13-15). «Io non godo della morte di
chi muore» (Ez18,32). Ma «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo»
(Sap 2,24).
Il peccato è
stato reso possibile dall’esistenza del libero arbitrio della creatura, angelo
ed uomo, potenza in sé sublime, per la quale la creatura ha la possibilità di
fruire della visione beatifica di Dio, ma anche di perdersi eternamente lontano
da Dio. Il peccato della creatura ha
avuto origine dal cattivo uso del libero arbitrio. Così la Bibbia rivela
l’esistenza di questa formidabile potenza: «Ti ho posto
davanti la vita e la morte» (Dt 30,19). Se la volontà sceglie il bene, è mossa
da Dio. Se sceglie il male, la responsabilità è solo sua. Dio, se volesse,
potrebbe impedire il peccato, ma non lo fa perché vuol trarre dal peccato un
bene maggiore: la figliolanza divina in Cristo.
Secondo la
Bibbia la causa prima ed originaria della sofferenza è il peccato, peccato
degli angeli all’inizio della creazione (II Pt 2,4), e peccato dei nostri
progenitori, sedotti dal serpente, cioè dal demonio. Propagazione, quindi, della colpa originale a
tutta l’umanità: «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo» (Rm
5,12), con le conseguenze penali che ne sono seguite per tutta l’umanità.
Il peccato è
un atto volontario col Quale la creatura spirituale invece di orientarsi a Dio,
per il quale è stata creata e nel Quale solo può trovare la sua vera felicità,
si orienta verso un bene creato, se stessa o il mondo facendone il suo dio.
Nella vita sana la creatura si orienta a Dio come a suo sommo bene e fine
ultimo obbedendo alle sue leggi, la cui pratica ha come effetto appunto il
possesso di Dio e l’unione con Lui. La pratica della legge divina o legge
morale, che è la legge dell’agire umano, ha come effetto una vita buona e
felice indirizzata a Dio.
Col peccato, invece, l’uomo introduce la
disarmonia, il conflitto, il disordine, la carenza, la miseria, la distruzione,
la morte in tutti i suoi rapporti esistenziali: con Dio, tra l’uomo e la donna,
con sé stesso, col prossimo, con la natura: tutto gli diventa o gli appare
nemico e dannoso: Dio, sé stesso, il prossimo, la natura. Quest’ultima, secondo
il racconto genesiaco, è stata guastata dallo stesso peccato originale: «Maledetto
sia il suolo per causa tua!» (Gen 3,17). Ma la sua sofferenza, secondo San Paolo,
è assunta nello stesso processo della Redenzione del mondo: «La creazione geme
nelle doglie del parto» (Rm 8 ,22).
Peccando, la
coscienza tormenta il peccatore. Col senso di colpa il suo io è diviso in sé
stesso, le potenze interiori sono in disordine, la comunità lo punisce per il
danno che ha arrecato alla comunità, la natura lo punisce con le sue calamità e
sciagure.
Il tormento
interiore causato dallo stato di colpa per il peccato commesso, è il vero e
proprio immediato ed inevitabile castigo del peccato, intrinseco allo stato di
peccato ed esclusivamente proprio del peccato. «Non c’è pace per gli empi» (Is
57,21). San Paolo accenna a questo tormento interiore, che è il vero e proprio
castigo del peccato: «Si sono da sé stessi tormentati con molti dolori» (I Tm
6,10). La coscienza avverte in lei stessa come un peso che la opprime e la
impaccia: «pesano su di noi le nostre colpe» (Sal 65,4). Questo castigo entra
nella stessa definizione del peccato. Infatti il peccato si può definire come
atto meritevole di castigo. Un peccato che quindi non fosse quanto meno
castigabile, non sarebbe peccato. Ecco perché chi sostiene che un peccato può
non essere meritevole di castigo, nega l’essenza del peccato e lo trasforma in
una buona azione.
Certamente esiste un castigo successivo al
peccato o al delitto, soprattutto se si tratta della sanzione penale irrogata
dalla giustizia umana. Questo castigo può essere mitigato o alleviato o
addirittura tolto del tutto o per il buon comportamento del reo o per altri
motivi. Anche il castigo divino successivo al peccato può essere da Dio
procrastinato perché Dio attende che il peccatore si converta, oppure può anche
essere annullato, nel caso che il peccatore voglia sinceramente cambiare vita.
Conseguenza
umiliante del peccato originale è la schiavitù di Satana, al quale la coppia
primitiva si è assoggettata col peccato. Il demonio è sorgente di falsità ed
ispiratore dei peggiori peccati, che sono quelli spirituali. Egli è abile
nell’illudere l’uomo, assumendo anche le sembianze dell’angelo della luce. Fa
sentire colpevoli quando si è innocenti e innocenti quando si è colpevoli. Soprattutto il demonio ci istiga a metterci
al posto di Dio, vuol convincerci che siamo Dio e che dipende da noi stabilire
la legge del bene del male. Vuol convincerci che Dio è un tiranno che ci rende
schiavi, per cui la libertà sta nel ribellarci a lui e nell’affermare noi
stessi e la nostra propria volontà.
Conseguenza del peccato originale è
l’ingiustizia in tutte le sue forme, che regnano in questa vita, benché esista
l’ordinamento giudiziario voluto da Dio. Ma la giustizia umana è fallibile. A
volte colpisce innocenti e risparmia delinquenti. Il fatto che esistano
malfattori che non sono puniti e innocenti ingiustamente condannati o
perseguitati dagli uomini o dalla sorte non inficia il principio che il peccato
merita il castigo, né che Dio faccia giustizia sempre premiando i buoni e
castigando i cattivi. Stando così le
cose, la Scrittura lascia a Dio il compito di stabilire la giustizia eterna ed
universale in modo pieno e perfetto, al di là dei limiti e degli errori della
giustizia umana: «A me la vendetta» (Eb 10,30).
Col peccato originale la sofferenza si è
diffusa in tutta l’umanità, erede della colpa originale, mentre nella natura
sembra essere presente già nell’Eden, in quanto Dio assegna alla coppia
primitiva il dominio su tutti gli esseri viventi della terra (Gn 1,8). È
possibile che la legge della morte sia anche una conseguenza retroattiva del
peccato originale e inoltre sia effetto anche della presenza sulla terra del
demonio cacciato dal paradiso dopo il peccato degli angeli (Ap 12,9).
La Scrittura
afferma con grande chiarezza e a più riprese questa origine della sofferenza e
della morte dal peccato. Per esempio: «Attirasti sofferenza con la tua follia» (Sir
47,20); «chi segue il male va verso la morte» (Pr 11,19); «soffrivano per i
loro misfatti» (Sal 107, 17); «per i nostri peccati noi soffriamo» (II Mc 7,32); «il salario del peccato è la
morte» (Rm 6,23); «Il peccato, quando è consumato, produce la morte» (Gc 1,15).
La «morte»,
della quale parla la Scrittura come conseguenza del peccato, non è
necessariamente la morte fisica, e non può essere neppure l’annullamento
dell’anima, la quale è ontologicamente immortale. Col termine «morte» come conseguenza del
peccato nell’anima, la Bibbia intende lo stato interiore di miseria,
turbamento, inquietudine e tormento del peccatore privo della grazia di Dio e
corrotto nelle inclinazioni della sua natura.
Col peccato
noi danneggiamo innanzitutto noi stessi, anche se pecchiamo contro il prossimo.
Quindi, ogni peccato è autolesionismo, è un suicidio. Quando pecchiamo invece
contro Dio, non gli rechiamo alcun danno, anche se la Bibbia parla di «offesa»
a Dio, perché a Dio nessuno può togliere nulla e Dio non può essere privato di
nulla. Tuttavia Gli togliamo il dovuto onore, benché Egli glorifichi già Se
stesso sufficientemente.
Ma anche
questo atto non Gli nuoce intrinsecamente per nulla, ma nuoce a noi, che
veniamo a mancare del dovuto atto di culto divino e della comunione con Dio.
Tuttavia, come sappiamo dalla divina Rivelazione, Dio Padre ha voluto che
l’offesa fattagli da Adamo fosse riparata, come se Egli dovesse essere
risarcito di un danno. E difatti la Scrittura parla del peccato come se esso
fosse un atto che nel peccatore crea un debito, che il peccatore contrae nei
confronti della persona contro la quale ha peccato. Giustizia vuole che il
debito sia pagato.
Non esiste
sofferenza che non abbia alcuna relazione col peccato o che non derivi dal
peccato o perché castigo del peccato o perchè pena della natura corrotta dal
peccato originale. Chi separa il peccato dalla sofferenza, che ne è il castigo,
da una parte legittima il peccato impunito e dall’altra legittima un castigo
dell’innocente, cose entrambe odiosissime agli occhi di Dio e degli
uomini. È vero pertanto il principio
biblico che se uno soffre, è segno che ha peccato, perché, se non ha peccato personalmente,
ha sempre peccato come figlio di Adamo, in
quo omnes peccaverunt (Rm 5,12).
In senso assoluto e in linea di principio Dio
non vuole il male di nessuno, né il male di colpa né il male di pena. Siccome
tuttavia Egli permette l’esistenza del peccato, ed è giusto che il peccato sia
punito, Egli vuole la pena del peccato per il bene del peccatore, affinché si
penta, se è in tempo a pentirsi o perché abbia quello che gli spetta, se non si
pente, ossia vuole la pena eterna dell’inferno. Se Dio quindi castiga qualcuno
con l’inferno, non è perchè lo odia, perché se lo odiasse, lo annullerebbe.
Invece Dio mantiene in essere le creature,
che in se stesse sono buone ed amabili, e così egli ama anche i dannati
dell’inferno che lo odiano, provvedendo a che essi vivano, benché giustamente
puniti, in una condizione rispettosa della dignità della persona umana,
similmente a come farebbe un governante civile umanista nella gestione di un
penitenziario.
La
sofferenza dell’innocente
La
sofferenza dell’innocente, se si tratta di un figlio di Adamo, non è la sofferenza
di uno che sia perfettamente innocente, anche se per la tenera età, non ha commesso
alcun peccato personale, perchè comunque risente delle conseguenze della colpa
originale. Indubbiamente può esistere la sofferenza dei perseguitati o degli
ingiustamente condannati o dei martiri. Ma siamo sempre lì: anche costoro non sono
mai perfettamente innocenti, come se non dovessero subire le pene del peccato
originale. In tutta l’umanità postlapsaria vi sono solo due individui umani che
hanno patito essendo assolutamente e totalmente innocenti e questi sono Gesù e Maria.
Nessun figlio di Adamo è così innocente da
non risentire delle conseguenze del peccato originale. Giobbe protesta la sua
innocenza, ma non tiene conto che anche lui soffre delle conseguenze del
peccato originale e pare non rendersene o non saperlo. La cosa è piuttosto
strana ed è segno che quando fu redatta la storia di Giobbe non si aveva
memoria del racconto genesiaco del peccato originale. Così Giobbe è tentato di
accusare Dio di ingiustizia nel far soffrire un innocente.
Tuttavia, alla fine, davanti al rimbrotto che
gli viene da Dio, Che lo accusa di presunzione, egli china il capo e prende
fiduciosamente dalle mani di Dio la sofferenza, sapendo che Dio sa quello che
fa, ma continua a non capire come mai Dio permetta la sofferenza di lui che si
ritiene innocente.
Così anche nella risposta alle lamentele e
proteste di Giobbe, Dio non gli dice: «Guarda, caro Giobbe, tu ti ritieni
innocente perché hai sempre compiuto buone azioni, ma dovresti sapere da quanto
ho rivelato nel racconto del peccato dei tuoi progenitori Adamo ed Eva, che tu
soffri delle conseguenze del loro peccato».
Invece Dio rimprovera Giobbe perchè ha osato
protestare per il trattamento che Dio gli ha riservato: «Chi è costui che
oscura il consiglio con parole insipienti?» (38,1). «Oseresti proprio
cancellare il mio giudizio e farmi torto per avere tu ragione?» (40,8). Ma non
gli spiega perché lo ha fatto tanto soffrire benché Giobbe si ritenga
innocente; non gli spiega perchè ha ragione contro Giobbe. Bastava che gli
ricordasse le conseguenze del peccato originale.
Ma non lo fa. Semplicemente Dio mostra a
Giobbe con molti esempi la sua infinita potenza e provvidenza. Al che Giobbe ha
un moto di ripensamento e riconosce: «ho esposto dunque senza discernimento
cose troppo superiori a me, che io non comprendo» (42,2). Eliu fiuta che nelle
lamentele di Giobbe c’è qualcosa che non va e perciò gli dice: «non hai
ragione» (33,12). Ma neppure a lui viene in mente che Giobbe possa soffrire a
causa del peccato originale. Egli ha in mente il principio in sé giusto che chi
soffre deve aver peccato, ma lo applica solo alla condotta personale di Giobbe
e perciò Giobbe giustamente si offende perché sa di non aver peccati personali
sulla coscienza.
È solo con Isaia che nasce l’idea della
possibilità di un uomo totalmente innocente e gradito a Dio, un «servo giusto»
(53,11), che si fa carico delle nostre sofferenze, che viene castigato al
nostro posto, «si è addossato i nostri dolori» (53,4), ma che con ciò stesso
giustifica molti offrendosi in sacrificio di espiazione, come «mite agnello
condotto al macello» (53,7). Si tratta della profezia del sacrificio di Cristo[1].
La
liberazione dal peccato
Con la
caduta originale Dio ha castigato l’intera umanità con le miserie della vita
presente e la discesa negli inferi dopo la morte (eb. sceol). L’uomo, dal canto suo, è venuto a trovarsi in un tale stato
di miseria, debolezza e di inclinazione al male, da provare sì ancora il
bisogno di Dio, ma solo debolmente, e comunque, anche volendo riallacciare il
rapporto di amicizia con Dio che aveva nell’Eden, sentiva di non riuscire più
con le forze che gli erano rimaste, a ricostruire questo rapporto e sentiva che
Dio era adirato per l’offesa ricevuta.
Certamente, se
Dio lo avesse voluto, avrebbe potuto lasciare l’umanità in queste condizioni miserevoli,
giustamente meritate, la «massa damnata», per dirla col linguaggio forte di SantìAgostino,
ma, come si intravede dal protoevangelo (Gen 3,15), Dio ha avuto pietà
dell’uomo e subito dopo il peccato gli ha promesso, sia pure oscuramente, un riscatto futuro.
Ad ogni
modo, secondo la Sacra Scrittura il destino dell’uomo dopo la morte prima della
venuta di Cristo, sono, come si è detto, gli «inferi», descritti come un luogo
oscuro, angusto, silenzioso, di miseria, di mestizia, posto in basso, dove
andavano sia giusti che peccatori, dove però Dio era presente (Sal 139,8).
Laggiù erano castigati i peccatori, ma i giusti invocavano Dio (Gn 2.3) attendevano
il Messia, sapendo che Dio può liberare e far risalire dagli inferi (I Sam 2,6;
Sal 30,4; Pr 23,14; Dn 3,88; Os 13,14; At 2,27).
Già nell’Antico
Testamento, però, appare la misericordia divina, che premia i buoni e gli
uomini di Dio, alcuni dei quali, come per esempio Enoch, che fu «rapito dalla
terra» (Sir 44,16 e 49,14), anche se non è chiaro dove fosse andato. Di Elia,
invece, si dice chiaramente che «fu assunto in cielo» (I Mac 2,58). Abbiamo poi
la prospettiva, per alcuni uomini illustri, come Abramo (Gen 15,15), Mosè (Dt
31,16), Davide (II Sam 7,12; I Re 2,10), Roboamo (I Re 14,31), Ezechia (II Cr
32,33), Mattatia (I Mac 2,69) e il re Astiage (Dn 14,1), di «addormentarsi o
riunirsi con i propri padri, anche se non è sempre chiaro se si tratta degli
inferi o di un destino superiore.
Secondo il Simbolo degli Apostoli, l’anima di
Cristo, nei tre giorni cui il suo corpo era nel sepolcro, discese agli inferi,
dove liberò le anime dei giusti e le portò in paradiso. In quel momento Cristo
sostituì, per i dannati, gli inferi con l’inferno. Da allora in poi infatti,
motivo di dannazione eterna non fu più il rifiuto di sperare nella venuta del
Messia, ma il rifiuto di accoglierLo già venuto.
Osserviamo
inoltre che in tutte le religioni l’uomo è cosciente di non essere a posto con
Dio, per cui l’uomo cerca di rimediare, di riconciliarsi con la divinità per
mezzo di sacrifici. Le religioni sono nate con questo scopo. La percezione che la divinità è adirata per
una colpa commessa nel passato dall’uomo è all’origine della religione presso
tutti i popoli, anche a prescindere dalla credenza biblica nel peccato
originale. Da qui l’offerta del sacrificio cultuale espiatorio o riparatore o
di riconciliazione, per placare la divinità e riottenere la sua grazia.
La religione
è quindi strettamente legata alla morale. L’uomo religioso sa che Dio è la
regola della morale, e dato che non sempre rispetta questa regola, sente per
conseguenza il bisogno di riconciliarsi con Dio, il che esprime con l’offerta
di sacrifici ed atti penitenziali. Già l’uomo primitivo vede quindi la
sofferenza come castigo divino e come mezzo per riconciliarsi con la divinità.
[1]
Nettamente contrario al concetto
del sacrificio religioso cristiano, del quale svisa totalmente il senso
concependolo come una forma di neurosi autodistruttiva, è il libro di Massimo
Recalcati, Contro il sacrificio. A di là del fantasma
sacrificale, Raffaello
Cortina Editore, Milano 2017. La proposta di Recalcati, che si basa sul
pensiero di Nietzsche, è quella di abolire il sacrificio e di godersi la vita
presente. Il punto di riferimento per lui è la vita animale. Infatti, uno dei
paragrafi del suo libro s’intitola appunto così: «La vita animale è senza sacrificio». Per cui la
domanda di fondo appare questa: chi me lo fa fare? La risposta è chiara. Cita
come autorità Enzo Bianchi e il Card. Martini, a parte i protestanti.
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