Il Male
La volontà divina riguardo al male di colpa e di pena.
Il male si realizza formalmente nel male morale, cioè nel male di colpa e come tale non può essere voluto da Dio. Dio però vuole il bene che precede e che segue un tale male. Il bene precedente il peccato è il bene di natura, anche di una natura che può venir meno, il quale bene è quasi la condizione previa del male di colpa. Dio infatti crea, conserva e muove ogni natura secondo ciò che le è proprio e quindi anche secondo la sua stessa defettibilità. Se non si ammette con San Tommaso una certa autonomia dell’essenza nel suo ordine, difficilmente si può spiegare come il male allo stesso tempo si sottrae e si sottomette alla volontà di Dio. Esso infatti è sottomesso alla volontà divina in quanto ogni realtà esistenzialmente dipende da Dio e la stessa essenza è coinvolta in questa dipendenza, in quanto è intimamente legata, nella realtà concreta in un ente, all’esistenza.
D’altra parte ogni essenza ha una sua proprietà che Dio rispetta e promuove e quindi un difetto di una natura defettibile, considerato in astratto rispetto alla natura stessa, si sottrae alla causalità divina, ma vi rientra in quanto è concretamente inserito in una realtà ben determinata che è quella dell’atto umano[1]. L’atto umano poi, essendo volontario e libero, ha un’autonomia particolare fondata sull’autonomia comune a tutto l’ordine delle essenze, ma allo stesso tempo superiore rispetto ad essa. Ancora una volta possiamo constatare come la concezione analogica dell’ente nella sua analisi metafisica contribuisce alla soluzione di un problema di ordine pratico come può essere appunto quello del peccato e del suo posto nel progetto della volontà e della causalità divina. Il male della colpa è quindi inserito nel bene di una natura capace di difetto e questo bene è voluto da Dio. Come Dio vuole il bene precedente il peccato, così vuole anche il bene conseguente ad esso.
Ogni peccato infatti è ordinabile ad un altro peccato come sua punizione. Così lo stesso peccato può rientrare nel bene della giustizia e può diventare oggetto della volontà divina sub ratione boni[2]. San Tommaso distingue qui tra la colpa in se stessa e la sua relazione ad un’altra colpa secondo la quale il peccato stesso assume un carattere penale che può essere considerato sotto un certo aspetto (quello appunto della giustizia punitiva) come un bene. Il male di colpa non è voluto da Dio in nessun modo, ma il male di pena (anche se a sua volta consiste in un peccato) può esserlo.
Dio può perciò volere come un bene il bene della natura potenzialmente defettibile. Per quanto invece riguarda il male attuale, che avviene nel momento presente, un tale male può essere soltanto permesso da Dio se si tratta di un male di colpa. Il male di pena invece è voluto da Dio per accidens, cioè non in se stesso, ma rispetto all’ordine della giustizia. Tuttavia è voluto e non soltanto permesso[3].
La ragione di questo diverso atteggiamento di Dio verso il male di colpa e di pena dev’essere ricercata nella diversa natura di questi due tipi del male. Il male di pena è un male particolare e perciò può essere considerato anche come un bene sotto un certo aspetto e così, ratione boni adiuncti, può diventare oggetto della volontà divina. Anche il male di colpa è particolare nell’ordine fisico perché suppone un bene della natura, ma è totale nell’ordine morale in quanto è formalmente opposto alla bontà divina e per conseguenza non è ordinabile al fine ultimo, né può essere voluto da Dio nella sua presenza attuale (può invece esserlo secondo la sua presenza potenziale nella volontà defettibile).
Nella volontà divina bisogna però distinguere la sua prima ed assoluta intenzione dalla sua seconda intenzione riguardante il peccato attuale. La prima intenzione corrisponde alla volontà antecedente secondo la quale Dio creò tutti gli uomini per la beatitudine eterna; la seconda intenzione invece corrisponde alla volontà conseguente che non è assoluta, ma suppone il male come già avvenuto e lo permette come male di colpa, mentre lo vuole come male di pena. Il peccatore si sottrae alla volontà divina con il suo peccato, ma la stessa volontà divina realizza in lui almeno quella bontà di cui è ancora capace dopo il suo peccato, la bontà cioè che consiste nella giusta punizione. Così la colpa esula dall’ordine diretto (anche se non da quello indiretto e permissivo) della volontà divina, ma la pena per la colpa reinserisce in qualche modo la colpa nello stesso ordine della volontà divina[4].
Il peccatore non fa la volontà di Dio; perciò la volontà di Dio sarà fatta da lui. Chi non segue attivamente la volontà divina, dovrà sottomettersi passivamente ad essa nella punizione. Nemmeno il peccato però può infrangere l’efficacia della disposizione divina. Il peccato infatti non si verifica nei predestinati, ma solo in coloro che sono preconosciuti dall’eternità da Dio come peccatori e quindi sottratti all’ordine della predestinazione[5]. La predestinazione è incondizionata ed assoluta; in essa la volontà conseguente corrisponde a quella antecedente; invece la sottrazione all’ordine della predestinazione (che non è la “predestinazione alla riprovazione”) è condizionata dal peccato secondo la sua ragione formale di male morale, di colpa, di cui la volontà libera è la causa assolutamente prima; nella sottrazione alla predestinazione, conseguente appunto alla prescienza del peccato come futuro, la volontà conseguente diverge completamente da quella antecedente. Secondo la volontà antecedente anche il peccatore è ordinato alla salvezza; invece secondo la volontà conseguente è permesso il suo peccato ed è voluto il suo castigo, la sua pena secondo l’ordine della giustizia.
Dio vuole solo il bene, ma vuole permettere anche il male. Così vuole direttamente il bene della natura, anche se potenzialmente defettibile. Anche la pena conseguente al peccato è voluta da Dio non in sè ma secondo l’ordine della giustizia. La colpa invece è solo oggetto della volontà permissiva. Il male morale, essendo e supponendo la colpa, può essere voluto da Dio solo di volontà conseguente[6] (condizionata dalla prescienza del peccato), non già di volontà antecedente, la quale, essendo assoluta ed incondizionata, riguarda soltanto il bene morale dell’uomo e la sua salvezza.
Vediamo ora in che modo il peccato si inserisce nell’ordine della predestinazione e della provvidenza. La colpa sembra sottrarsi alla volontà divina, la pena invece la realizza anche nello stesso peccatore. Così il peccato esula dalla predestinazione, ma non può sfuggire del tutto alla divina provvidenza. Il peccato, essendo un atto umano e quindi un atto volontario e libero, non è un fatto necessario bensì contingente. Ora, tutti i fatti, compresi quelli contingenti, sono sottomessi alla scienza, alla volontà e all’azione causale di Dio. Un effetto contingente può sottrarsi all’ordine della causa seconda, ma non può sfuggire all’ordine della causa prima, che è universalissima[7].
Così anche le cause contingenti e libere come la stessa volontà umana sono sottomesse nella produzione del loro effetto a Dio, Causa prima. L’effetto necessario avviene senza difetto, la mancanza di perfezione è contingente e vi può essere solo in agenti non necessari sia nell’ordine fisico (ad esempio nel caso di un parto mostruoso che accade ut in paucioribus), sia nell’ordine morale (come avviene nella stessa realtà del peccato, il quale suppone un atto libero). Proprio per questo il difetto non può essere attribuito alla causa prima perché anche gli effetti contingenti hanno una relazione di necessità rispetto alla causa prima, mentre riguardo alla causa seconda sono propriamente contingenti e quindi anche defettibili[8]. L’effetto trae la sua necessità o contingenza dall’ordine della causa seconda e non dal suo rapporto alla causa prima, perché riguardo alla scienza di Dio tutti gli effetti sono in qualche modo “necessari” perché considerati come già avvenuti e non come futuri[9].
Se però ogni effetto è necessario riguardo alla causa prima da parte dello stesso effetto, non si può dire che sia necessario da parte di Dio, anzi, perfino gli effetti procedenti con necessità dalla loro causa prossima sono contingenti riguardo a Dio che li produce con sovrana libertà. Per quanto poi riguarda i futuri contingenti, la scienza di Dio nei loro confronti è certa in quanto sono già presenti davanti all’intelletto divino, anche se rimangono contingenti rispetto alla loro futurizione. Dio infatti conosce l’effetto futuro contingente secondo se stesso e così lo conosce con certezza e lo produce con necessità, ma conosce anche lo stesso effetto secondo il suo modo di procedere dalla causa seconda e così l’effetto non è certo perché la scienza e la volontà divina lo conosce infallibilmente e lo produce necessariamente, ma senza imporre la necessità all’effetto secondo la sua produzione dalla causa seconda. Dio conosce però con certezza il fatto che la causa seconda produrrà in un modo contingente il suo effetto perché ha la certezza della produzione dell’effetto considerato in se stesso[10].
Siccome poi l’effetto della predestinazione è il risultato della decisione divina e dell’azione divina conseguente ma anche dei meriti acquisiti dall’uomo adulto per mezzo di atti umani e liberi, la dottrina tomista sulla produzione dell’effetto contingente si applica anche alla predestinazione. Dio preordina gli eletti alla salvezza, la quale è certa da parte di Dio preordinante, anche se non lo è da parte dell’effetto eveniente. La predestinazione riguarda e la causa prima e la causa seconda; la riprovazione invece riguarda solo la causa seconda e proprio per questo la predestinazione è intesa direttamente da Dio ed è certa, mentre la riprovazione è ordinata al bene della predestinazione e per conseguenza non è direttamente voluta da Dio, il quale emana un decreto permissivo, ma non effettivo, della dannazione.
La predestinazione è quindi voluta e prodotta assolutamente, mentre la riprovazione lo è dopo la prescienza dei demeriti. Questo perché l’effetto della predestinazione è prodotto tutto da Dio e tutto dall’uomo, ma l’effetto della riprovazione ha nell’uomo la sua causa deficiente prima ed è perciò prodotto da Dio solo dopo la colpa precedente. Siccome il difetto della colpa è solo nella causa seconda e in nessun modo in quella prima, ne segue che la sua esistenza è del tutto contingente e quindi può essere conosciuto da Dio solo presupposto il fatto già avvenuto del peccato, mentre il merito non è soltanto conosciuto ma assolutamente voluto da Dio prima ancora che la volontà umana lo preconosca come futuro.
Questo vale per il merito ultimo con il quale si merita de condigno la vita eterna, ma si può anche estendere anche ai singoli meriti precedenti, i quali sono tutti compresi nell’effetto della predestinazione in quanto la vita eterna come effetto supremo della predestinazione ordina a sé tutti i meriti del predestinato[11]. Per conseguenza si può dire che l’effetto della predestinazione e il suo difetto nella riprovazione sono fatti contingenti rispetto alla volontà umana, che ne è la causa prossima meritoria o demeritoria. Rispetto alla causa prima, la predestinazione è certa incondizionatamente e voluta assolutamente, mentre la riprovazione è certa solo dopo la previsione del demerito considerato come già avvenuto e solo così può essere anche voluta, cioè come pena per la colpa precedente.
A proposito del peccato e della predestinazione ci si può rendere bene conto come San Tommaso “media via procedit” tra il predestinazionismo, che trova la sua espressione ereticale nel protestantesimo e soprattutto nel calvinismo da una parte e l’indebita esaltazione del merito umano nel pelagianesimo e semipelagianesimo dall’altra parte. Nella prospettiva predestinazionistica vi è una vera e propria predeterminazione assoluta ed incondizionata alla dannazione e nel calvinismo perfino al peccato, mentre nella prospettiva pelagiana non vi è predestinazione assoluta nemmeno alla salvezza e al merito, ma il merito è atto dell’uomo da solo senza la grazia divina, la quale potrà intervenire solo in un secondo tempo ed è il merito umano che condiziona la salvezza, cosicchè Dio predestina alla vita eterna solo coloro che prevede come quegli uomini che se la meriteranno.
Il molinismo sfugge all’accusa del pelagianesimo in quanto insegna la necessità della grazia preveniente per il merito, ma pone la sua efficacia non in Dio, bensì nella scelta dell’uomo, anche se si affretta a precisare che la scelta umana non merita la vita eterna in virtù della sua bontà naturale, ma solo in virtù di un decreto divino secondo il quale Dio stesso ha stabilito di dare la salvezza a coloro che faranno buon uso del loro libero arbitrio.
Nel molinismoil merito precede e condiziona la consecuzione della beatitudine eterna. San Tommaso invece, e con lui tutta la scuola tomistica, insegna che Dio elegge determinati uomini in virtù di una predilezione speciale ed efficace e a causa di una tale predilezione conosce e preordina l’insieme dei mezzi attraverso i quali essi saranno condotti alla vita eterna ed in questo consiste propriamente la predestinazione[12]. Secondo la sentenza tomista Dio nell’ordine dell’intenzione elegge, predestina, conferisce i meriti per mezzo della grazia efficace e nell’ordine dell’esecuzione muove con la grazia efficace ad acquistare dei meriti soprannaturali, ordina alla perseveranza finale e dà la gloria eterna.
La causa della predestinazione e della riprovazione negativamente considerata (cioè in quanto Dio vuole permetterla o in quanto la ordina come una pena alla colpa precedente) è la stessa volontà divina sommamente libera nei confronti di tutte le creature[13]. Dio è la causa della predestinazione assolutamente e direttamente e della riprovazione dopo la prescienza della colpa e in un modo indiretto. In nessun modo invece è la causa della formalità del male di colpa, ma la vuole permettere, conserva e muove la volontà defettibile che ne è la causa prossima e la ordina al bene della giustizia.
Solo così si può mantenere intatto il privilegio della sovrana volontà di Dio, alla quale sono sottomessi tutti gli avvenimenti, anche quelli contingenti. Perciò non si deve cercare in concreto la causa della differenza tra coloro che, trovandosi nel peccato, per grazia divina si convertono e coloro che, trovandosi nel medesimo peccato, si ostinano e si induriscono in esso secondo la permissione divina. Solo la volontà semplice di Dio ne è la causa, come è causa anche della differenza tra i diversi gradi di perfezione nelle cose create[14].
Bisogna evidentemente escludere da Dio ogni causalità nei riguardi della formalità del peccato, ma allo stesso tempo bisogna affermare con altrettanta energia la sua causalità assoluta rispetto alla predestinazione, per mezzo della quale Dio non esclude positivamente dalla salvezza, ma scegliendo questo uomo non sceglie quest’altro. Non si tratterà quindi di spiegare l’imperscrutabile mistero della predilezione divina, ma di affermarlo difendendolo dal duplice errore di un predestinazionismo esagerato e di un naturalismo indebitamente esaltante le facoltà naturali dell’uomo. Fin qui può arrivare la ricerca teologica; il resto dipende solo dal beneplacito della divina volontà. “Deum si perconteris, cur nam velit Deus cum his specialiter potius, quam cum illis suam declarare misericordiam, ut scilicet vocati oboediant; necnon cum illis potius quam cum aliis suam exercere iustitiam, ut dimittantur, ac prorsus deserantur? Respondetur tibi ab Apostolo, nihil aliud esse in causa, quam divinae beneplacitum voluntatis”.[15]
Dio vuole che tutti gli uomini si salvino.
In virtù della sua predilezione Dio opera una scelta tra gli uomini non negativamente di esclusione dalla salvezza, ma positivamente di ordine alla salvezza di questo piuttosto che di quello. La predestinazione è assoluta in quanto la scelta divina positivamente ordinante alla salvezza non può essere condizionata da parte della creatura, ma la predestinazione che infallibilmente conduce al suo effetto, così che gli uomini predestinati di fatto si salvano, comporta anche il fatto che coloro che di fatto non si salvano non sono stati predestinati, non nel senso che Dio abbia sottratto loro qualcosa, bensì nel senso che non ha dato loro qualcosa che poteva, ma in nessun modo doveva dare.
Vi è però in Dio un’altra volontà che ancora precede la distinzione tra coloro che di fatto si salvano e coloro che di fatto non si salvano, secondo la quale Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e per conseguenza fa sì che tutti abbiano i mezzi soprannaturali sufficienti per salvarsi. La volontà divina riguardante la salvezza di fatto si chiama volontà conseguente; quella che invece riguarda la possibilità di salvarsi (astraendo dal peccato il quale poi esclude di fatto dalla salvezza) è volontà antecedente.
San Tommaso conosce bene l’esigenza di salvare l’universalità della volontà salvifica di Dio. La stessa Sacra Scrittura afferma esplicitamente che “(Dio) vuole che tutti gli uomini siano salvati” (I Tm 2,4). San Tommaso spiega queste parole ricorrendo all’autorità di S. Agostino, il quale cerca di mettere d’accordo il detto scritturistico con il suo predestinazionismo e perciò lo espone nel senso di una volontà divina che vuole la salvezza di tutti gli uomini che di fatto si salvano. Così la volontà salvifica sarebbe ristretta ai soli predestinati.
San Tommaso osserva che questo senso è soltanto accomodatizio. Un’altra possibilità di spiegare il dato biblico è quella di non intenderlo nel senso di una distribuzione singolare, bensì nel senso di una distribuzione generica, così che Dio vorrebbe la salvezza non di tutti i singoli uomini, bensì la salvezza di uomini provenienti da ogni genere, da ogni stato e classe della società umana. Finalmente vi sarebbe la possibilità più plausibile di spiegare la volontà salvifica universale di Dio ricorrendo col Damasceno alla distinzione tra la volontà antecedente e conseguente[16].
Il Santo Dottore precisa che la distinzione tra volontà antecedente e conseguente non deve essere intesa dalla parte della volontà stessa, bensì dalla parte degli oggetti voluti. Dio vuole tutte le cose in quanto sono buone. Ora, una cosa può essere buona secondo una considerazione assoluta e non esserlo secondo una considerazione più particolare di tutte le circostanze aggiunte. Assolutamente parlando è bene che l’uomo viva ed è un male che sia ucciso, ma aggiungendo la circostanza che si tratta di un omicida, il contrario diventa buono, cioè è bene che sia ucciso secondo l’ordine della giustizia. La considerazione assoluta della bontà di una cosa muove la volontà non ad una volizione effettiva, bensì ad una velleità, cioè a una volizione secundum quid. Di per sè la volontà tende non già a oggetti astratti, ma alla realtà concreta e la concretezza vuol dire particolarità. Per conseguenza la vera e propria volontà è quella conseguente, in quanto si porta verso un oggetto concreto, di cui l’intelletto ha previamente considerato tutte le circostanze particolari.
Così Dio vuole con una volontà accidentale[17] la salvezza di tutti secondo una considerazione assoluta; vuole invece la salvezza dei soli predestinati con una volontà seguente ad una considerazione più particolare delle singole circostanze, cioè con una volontà vera e propria. Ovviamente anche la volontà antecedente, pur essendo piuttosto una velleità che una volontà, appartiene alla vera volontà di Dio che è la volontà di beneplacito[18]. A proposito della volontà antecedente si può perciò dire che sia una vera volontà, ma come velleità è una volizione che non sempre arriva al suo oggetto, mentre la volontà conseguente che vuole gli oggetti concreti nella pienezza della loro realtà, si realizza sempre e così ciò che Dio vuole sempre avviene.
Dio vuole fare misericordia a tutti, ma di fatto fa misericordia solo a certi individui prescelti da ogni genere di uomini. Così la salvezza dev’essere attribuita unicamente alla bontà misericordiosa del Signore, mentre la dannazione proviene unicamente dalla colpa dell’uomo. Per illustrare questo stato di cose San Tommaso cita il profeta Osea (13,9) “perditio tua in te, Israel; tantummodo ex me auxilium tuum”[19] Così la volontà salvifica universale che corrisponde alla volontà antecedente, offre la possibilità della salvezza indistintamente a tutti e perciò, se qualcuno si perde, la causa dev’essere ricercata in lui stesso, mentre la salvezza può essere raggiunta solo con un aiuto speciale di Dio che efficacemente ed infallibilmente di fatto conduce alla beatitudine eterna e così coloro che si salvano devono cercarne la causa non già in se stessi, ma nella misericordia speciale e gratuita di Dio.
Dio ama tutte le cose e in modo tutto particolare tutti gli uomini, ma vi è in lui un amore generale che corrisponde alla volontà antecedente, con il quale egli ama tutti gli uomini singoli volendo loro qualche bene, mentre l’amore speciale di Dio corrispondente alla sua volontà conseguente, vuole la salvezza di fatto solo per i predestinati[20]. Il fatto di poter pervenire alla salvezza è in qualche modo dovuto alla natura umana secondo la finalità soprannaturale, secondo la quale Dio stesso ha liberamente ordinato l’uomo alla salvezza e questo bene della possibilità di salvarsi è voluto da Dio indistintamente per tutti gli uomini, mentre la salvezza che si verifica di fatto è il risultato di una scelta particolare.
Ogni uomo può salvarsi anche se di fatto non si salva. Se si salva, la sua salvezza proviene dall’azione divina, la quale conferisce la grazia, con la quale l’uomo compie le opere meritevoli e persevera fino alla morte. Se invece non si salva, si deve supporre che aveva la possibilità di salvarsi, la quale non si è realizzata di fatto a causa del peccato del quale l’uomo è la causa prima deficiente e Dio, previsto il suo peccato, non lo predestina alla salvezza e non gli concede quella grazia che di fatto porta all’acquisto della vita eterna.
Mentre la predestinazione riguarda il presente, cioè la grazia, e il futuro, cioè la gloria, la riprovazione non è la causa della colpa presente, anche se è causa dell’abbandono da parte di Dio, conseguente alla colpa e causa della dannazione futura[21]. La predestinazione racchiude in sè la volontà di conferire la grazia, che di fatto porta al merito della vita eterna e di conferire anche il premio per il merito, mentre la riprovazione implica solo la volontà di permettere la colpa e di infliggere la pena per essa[22]. La colpa è oggetto di volontà permissiva; la pena è oggetto bensì di volontà, ma di una volontà più diretta che assoluta, e solo dopo la previsione della colpa. La predestinazione ha per oggetto tutto ciò che è voluto da Dio direttamente e questo può essere solo ciò che è buono; la prescienza invece riguarda ciò che sarà fatto dall’uomo col suo libero arbitrio e questo può essere sia buono che cattivo.
Così si distingue la profezia comminatoria, che riguarda ciò che Dio conosce in causa[23] e la profezia che si riferisce a quelle cose che sono conosciute da Dio così come sono in se stesse e questa si divide in profezia di predestinazione, se le cose previste sono buone, e di prescienza se sono moralmente difettose[24].
Così San Tommaso insegna che la predestinazione che riguarda i salvati è completamente incondizionata e con questa tesi esclude il pelagianesimo e i suoi derivati, ma insegna anche che la riprovazione è condizionata dalla prescienza della colpa, anche se racchiude la volontà di permettere la colpa e di punirla e così si oppone al predestinazionismo rigido della scuola agostiniana, che sarà destinata a trovare un’espressione eretica nel protestantesimo e nel giansenismo.
A proposito della predestinazione San Tommaso esclude assolutamente che i meriti possano in qualche modo influire sulla predestinazione da parte di Dio predestinante ed afferma che una tale opinione è così assurda che non si è trovato nessuno di mente tanto malsana da affermarla. Per quanto poi riguarda la causa della predestinazione da parte dell’effetto, prima esclude la posizione di Origene secondo cui un merito precedente in un’ipotetica vita anteriore a questa condizionerebbe la predestinazione (si tratterebbe di una specie di “opzione fondamentale” fatta ancora prima di nascere in quella vita dell’anima che secondo i platonici precedeva la sua unione col corpo); poi esclude anche la posizione semipelagiana, secondo la quale l’inizio della salvezza sarebbe in noi e la grazia di Dio porterebbe solo a compimento ciò che noi abbiamo iniziato.
Finalmente il Santo Dottore esclude l’opinione secondo cui Dio avrebbe predestinato coloro che preconosce come uomini che faranno buon uso della sua grazia. Secondo l’Aquinate lo stesso buon uso della grazia da parte del libero arbitrio è un effetto della predestinazione e quindi non dipende da un merito previo. Ovviamente, nel progetto globale della predestinazione un merito può essere causa di un altro merito particolare, ma l’effetto totale della predestinazione non ha nessuna causa da parte nostra, perché tutto ciò che ordina l’uomo alla salvezza, compreso lo stesso buon uso del libero arbitrio (che così si prepara alla grazia, è racchiuso nell’effetto globale della predestinazione e per conseguenza avviene per aiuto divino[25]
Così Dio rivela negli uomini la sua misericordia risparmiandoli e la sua giustizia dannandoli; i primi sono predestinati alla salvezza; gli altri sono preconosciuti come coloro che, a causa della loro propria colpa, dovranno subire la pena eterna. Del fatto però Dio scelga alcuni per la predestinazione e altri li danni, non si può assegnare nessun’altra ragione all’infuori della divina volontà[26]. E’ interessante notare che San Tommaso parla di Dio che “sceglie per la gloria” e che “ha dannato”. La gloria è oggetto di scelta incondizionata, la riprovazione è un fatto già avvenuto, qualcosa che Dio non vuole direttamente ed assolutamente, ma che di fatto avviene. Nella predestinazione la volontà conseguente conferma quella antecedente, mentre nella riprovazione la volontà conseguente è diversa da quella antecedente.
Dio vuole il bene “in astratto” per volontà antecedente volendo che tutti gli uomini siano salvi, e vuole il bene anche “in concreto” per volontà conseguente permettendo soltanto il male di colpa ed ordinando ad esso la dannazione come pena secondo l’ordine della giustizia. Nella predestinazione il bene che ne è l’effetto è voluto assolutamente come è voluto assolutamente il bene “in astratto” che è oggetto della volontà antecedente.
Nella riprovazione invece la volontà conseguente, permettendo la colpa e infliggendo la pena, non riguarda il male in assoluto, ma in qualche modo dopo la previsione della colpa e sotto la condizione che vi sia la colpa. Ad ogni modo la volontà antecedente riguarda piuttosto la possibilità della salvezza che è comune a tutti, mentre la volontà conseguente riguarda ciò che di fatto avviene, sia la salvezza, e in questo caso la predestinazione è assoluta riconfermando “in concreto” ciò che era oggetto della volontà antecedente “in astratto”, sia la riprovazione, e in questo caso la volontà conseguente differisce da quella antecedente e perciò non è assoluta, ma condizionata dal peccato preconosciuto come già avvenuto.
Fine Terza Parte (3/5)
A cura di P. Giovanni Cavalcoli, OP
Fontanellato, 2 Gennaio 2023
Ogni essenza ha una sua proprietà che Dio rispetta e promuove e quindi un difetto di una natura defettibile, considerato in astratto rispetto alla natura stessa, si sottrae alla causalità divina, ma vi rientra in quanto è concretamente inserito in una realtà ben determinata, che è quella dell’atto umano.
L’atto umano poi, essendo volontario e libero, ha un’autonomia particolare fondata sull’autonomia comune a tutto l’ordine delle essenze, ma allo stesso tempo superiore rispetto ad essa.
Ancora una volta possiamo constatare come la concezione analogica dell’ente nella sua analisi metafisica contribuisce alla soluzione di un problema di ordine pratico come può essere appunto quello del peccato e del suo posto nel progetto della volontà e della causalità divina.
Il male della colpa è quindi inserito nel bene di una natura capace di difetto e questo bene è voluto da Dio. Come Dio vuole il bene precedente il peccato, così vuole anche il bene conseguente ad esso.
Immagine da Internet:
- Volti (I bari, Caravaggio)
- Volti (Caravaggio)
[1] La natura umana in linea di principio davanti a Dio non fa ancora intervenire la sua causalità sull’atto non ancora compiuto, mentre tale causalità agisce muovendo psicologicamente l’atto umano al bene e permette atto umano libero che invece sia cattivo, cioè il peccato, addebitabile in quanto cattivo alla sola causalità umana+.
[2] Ovviamente non è che Dio voglia il peccato successivo, ma vuole non impedirlo proprio al fine che il peccatore, conscio d’sver peccto, si penta e non pecchi più. Quindi Dio utilizza persino i nostri peccati per indurci a non peccare+. I Sent. d.46, q.1, a.4 c.a.: “cum voluntas Dei sit causa bonorum omnium, et omnium suorum volitorum, hoc modo se habet aliquid ad hoc quod sit volitum a Deo, sicut se habet ad hoc quod sit bonum. Unde, cum malum fieri secundum se non sit bonum … non erit per se volitum a Deo. Sed utrumque bonum sibi coniunctum est bonum et a Deo volitum, scilicet et antecedens, quod est conditio naturae potentis deficere, quam Deus in tali conditione instituit et conservat; unde dicitur quod non vult mala fieri, sed vult permittere mala fieri. Vult etiam bonum consequens, ex quo malum ordinatur: ex quo sequitur quod velit mala facta ordinare, non autem quod velit ea fieri”.
[3] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.39, a.2 ad 3.
[4] Inquantochè la volontà divina vuole non impedire la colpa, in modo tale che così la colpa viene ad inserirsi nel piano divino di fare giustizia+.
[5] De Verit., q.23, a. 2 c. a.: “Illud … ad quod Deus creaturam ordinavit quantum est de se, dicitur esse volitum ab eo quasi prima intentione, sive voluntate antecedente. Sed quando creatura impeditur propter sui defectum ab hoc fine, nihilominus tamen Deus implet in ea id bonitatis cuius est capax; et hoc est quasi de secunda intentione eius et dicitur voluntas consequens. Quia ergo Deus omnes homines propter beatitudinem fecit, dicitur voluntate antecedente omnium salutem velle: sed quia quidam suae saluti adversantur, quos ordo suae sapientiae ad salutem venire non patitur propter eorum defectum, implet in eis alio modo id quod ad suam bonitatem pertinet, scilicet eos per iustitiam damnans, ut sic dum a primo ordine voluntatis deficiunt, in secundum labantur; et dum Dei voluntetem non faciunt, impleatur in eis voluntas Dei. Ipse autem defectus peccati, quo aliquis redditur dignus pena in praesenti vel in futuro, non est volitus a Deo neque voluntate antecedente, neque conseguente; sed est ab eo solummodo permissus. Nec tamen intelligendum est ex praedictis quod intentio Dei frustrari possit quia istum qui non salvatur, praescivit ab aeterno fore non salvandum; nec ordinat ipsum in salutem secundum ordinem praedestinationis, qui est ordo absolutae voluntatis; sed quantum ex parte sua est, dedit ei naturam ad beatitudinem ordinatam”.
[6] Dio vuole non impedire la colpa.
[7] Summa Theologiae I, 19, a. 6 c. a.: “Potest enim aliquid fieri extra ordinem alicuius causae particularis agentis, non autem extra ordinem causae universalis”.
[8] Cfr. De Verit. q.2, a.14 ad 3 e ad 5: “quamvis causa prima vehementius influat quam secunda, tamen effectus non completur nisi adveniente operatione secundae; et ideo, si sit possibilitas ad deficiendum in causa secunda, est etiam eadem possibilitas deficiendi in effectu, quamvis causa prima deficere non possit; sed multo amplius si causa prima posset deficere, et effectus deficere posset”.
[9] Cfr. Ioannes CAPREOLUS, OP, Defentiones theologicae, ed. Paban-Pègues, Turonibus, Cottier, 1900, II, p. 442 con riferimento a Summa Theologiae I, q.14, a.13 ad 1: “Scita a Deo sunt contingentia, propter causas proximas, licet scientia Dei, quae est causa prima, sit necessaria”.
[10] Cfr. CAPREOLUS, op. cit., p.465.
[11] Cfr. Summa Theologiae I, q.23, a.7 c.a.; S. BONAVENTURA, I Sent. d.40, a.2, q.2 in Opera Omnia, Quaracchi, 1882, I , p.712 a; IOANNES A S. THOMA, Cursus Theologicus, t.III, p. 497b, disp. 29, ed. Desclée 1937.
[12] Cfr. R. GARRIGOU-LAGRANGE, De Gratia, p.11-13; cfr. F. DIEKAMP, Theologiae dogmaticae manuale, Parisiis, Desclée, 19326, I, §44, p.274 e 275.
[13] Cfr. CAPREOLUS, Defensiones, p.501, concl. 7a.
[14] Contra Gentes III 161, n.3321: “Cum autem Deus hominum qui in eisdem peccatis detinentur, hos quidem praeveniens convertat, illos autem sustineat, sive permittat secundum ordinem rerum procedere, non est ratio inquirenda quare hos convertat et non illos. Hoc enim ex simplici voluntate eius dependet: sicut ex simplici eius voluntate processit quod, cum omnia fierent ex nihilo quaedam facta sunt aliis digniora. Per la sovranità della volontà divina cfr. S. BONAVENTURA, I Sent. d.41, a.1, q.2, ed. cit., p.732b-733a.
[15] Cfr. Franciscus ROMAEUS, OP, De libertate operum et necessitate gratiae adversus pseudophilosophos christianos, p.107, cit. da DUMMERMUTH, S.Thomas et doctrina praemotionis physicae, Parisiis, Année Dominicaine, 1886, p.313.
[16] Summa Theologiae I, q.19, a.6 ad 1: “illud verbum Apostoli, quod Deus vult omnes homines salvos fieri, etc., potest triplicer intelligi. Uno modo, ut sit accomodata distributio, secundum hunc sensum: Deus vult salvos fieri omnes homines qui salvantur: “Non quia nullus homo sit quem salvum fieri non velit, sed quia nullus salvus fit quem non velit salvum fieri”, ut dicit Augustinus (Enchirid, c.103; MPL 40, 280). Secundo, potest intellelligi ut fiat distributio pro generibus singulorum, et non pro singulis generum, secundum hunc sensum: Deus vult de quolibet statu hominum salvos fieri, mares et feminas, Iudeos et Gentiles, parvos et magnos; non tamen omnes de singulis statibus. Tertio, secundum Damascenum (De Fide Orthodoxa., lib. II, c.29; MPG 94, 968C, 969A), intelligitur de voluntate antecedente, non de voluntate consequente. Quae quidem distinctio non accipitur ex parte ipsius voluntatis divinae, in qua nihil est prius vel posterius; sed ex parte volitorum. Ad cuius intellectum considerandum est quod unumquoque, secundum quod bonum est, sic est volitum a Deo. Aliquid autem potest esse in prima sui consideratione, secundum quod absolute consideratur, bonum vel malum, quod tamen, prout cum aliquo adiuncto consideratur, quae est consequens consideratio eius, e contrario se habet. Sicut hominem vivere est bonum, et hominem occidi est malum, secundum absolutam considerationem: sed si addatur circa aliquem hominem quod sit homicida, vel vivens in periculum multitudinis, sic bonum est eum occidi, et malum est eum vivere. Unde potest dici quod iudex iustus antecedenter vult hominem salvari; sed consequenter vult quosdam damnari, secundum exigentiam suae iustitiae. Neque tamen id quod antecedenter volumus, simpliciter volumus, sed secundum quid. Quia voluntas comparatur ad res, secundum quod in seipsis sunt: in seipsis autem sunt in particolari; unde simpliciter volumus aliquid, secundum quod volumus illud consideratis omnibus circumstantiis particularibus; quod est consequenter velle. Unde potest dici quod iudex iustus simpliciter vult homicidam suspendi, sed secundum quid vellet eum vivere, scilicet inquantum est homo. Unde magis potest dici velleitas, quam absoluta voluntas. Et sic patet quod quidquid Deus simpliciter vult, fit; licet illud quod antecedenter vult, non fiat”.
[17] Padre Tomas usa questo termine in riferimento alla volontà antecedente. Infatti questa volontà la concepiamo come fosse una specie di velleità, come appare sotto. Ora l’accdentale è qualcosa di estrinseco che si aggiunge al sostanziale. Qui la teologia pone una distinzione concettuale nella volontà di Dio tra un sostanziale, che rappresenta la volontà conseguente e un accidentale, per dire transitorio, che è la volontà non realizzata quando l’uomo si danna+.
[18] Cfr. De Verit. q.23, a.3 c.a.: “Invenitur in Deo proprie ratio voluntatis et sic voluntas de Deo proprie dicitur, et haec est voluntas beneplaciti, quae per antecedentem et consequentem distinguitur”.
[19] In Rm XI, lect.4, n.932: “Ideo autem Deus vult omnes per suam misericordiam salvari ut ex hoc humilientur et suam salutem non sibi, sed Deo adscribant. Os. XIII, 9: Perditio tua in te, Israel, tantummodo ex me auxilium tuum”.
[20] Cfr. Summa Theologiae I, q.23, a.3 ad 1: “Deus diligit omnes homines, et etiam omnes creaturas, inquantum omnibus vult aliquod bonum; non tamen quodcumque bonum vult omnibus. Inquantum igitur quibusdam non vult hoc bonum quod est vita aeterna, dicitur eos habere odio, vel reprobare”.
[21] Summa Theologiae I, q.23 a.3 ad 2: “Nam praedestinatio est causa et eius quod expectatur in futura vita a praedestinatis, scilicet gloriae; et eius quod percipitur in praesenti, scilicet gratiae. Reprobatio vero non est causa eius quod est in praesenti, scilicet culpae, sed est causa derelictionis a Deo. Est tamen causa eius quod redditur in futuro, scilicet poenae aeternae. Sed culpa provenit ex libero arbitrio eius qui reprobatur et a gratia deseritur”.
[22] Cfr. ibid. c.a.: “Sicut enim praedestinatio includit voluntatem conferendi gratiam et gloriam, ita reprobatio includit voluntantetm permittendi aliquem cadere in culpam, et inferendi damnationis poenam pro culpa”.
[23] La conoscenza in causa è la conoscenza che il soggetto ha di ciò che egli può causare o causerebbe, verificandosi un’eventuale data condizione, ma che di fatto non causa, se non si verifica o non verificandosi quella condizione. Essa si distingue dalla conoscenza di fatto o della cosa in se stessa, che è ciò che egli causa effettivamente verificndosi di fatto quella condizione e che quindi di fatto avviene+.
[24] Cfr. Summa Theologiae II-II, q.174, a.1 c.a.
[25] Cfr. Summa Theologiae I, q.23, a.5 c.a.
[26] Summa Theologiae I, q.23, a.5 ad 3: “Voluit igitur Deus in hominibus, quantum ad aliquos quos pradestinat, suam repraesentare bonitatem per modum misericordiae parcendo, et quantum ad aliquos, quos reprobat, per modum iustitiae puniendo … Sed quare hos eligit in gloriam, et illos reprobavit, non habet rationem nisi divinam voluntatem”. Cfr. Diekamp, Theologiae dogmaticae manuale, I, 279 con riferimenti a De Verit. q.6, a.1 a.2 cc. aa. e a. 3 ad 11; In Rm. IX, lect. 3; Contra Gentes III, n.165.
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