Qual è il
motivo della negazione del peccato originale?
Prima parte
Virgo sine peccato originali
concepta
Occorre
ripristinare la fede nel peccato originale
La questione del peccato originale è di una
tale importanza per la concezione cristiana della salvezza, che la sua mancata
soluzione o l’accantonamento o la falsificazione o lo svilimento del concetto
del peccato originale porta come logica conseguenza l’incomprensione
dell’essenza profonda ed ultima del peccato e con ciò stesso l’ignoranza dell’origine
del male di colpa e di pena, e per conseguenza l’ignoranza o un inadeguato ed
illusorio semplicismo circa le vie, i mezzi e i metodi per la vittoria sul male
o per la liberazione dal male, che è dono della Redenzione di Nostro Signore
Gesù Cristo.
Viceversa, la Rivelazione cristiana ha tra le
sue principali finalità quella di rivelare all’umanità la prima origine del
male di colpa e di pena, e quindi i mezzi e le vie per liberare l’umanità dal
male. Dirsi cristiani e non sapere che cosa è il male, da dove viene e come se
ne guarisce è come uno che si considera medico e non sa curare le malattie.
Tutte le religioni, per loro natura,
affrontano il problema del male e della liberazione dal male e si sforzano di
porvi rimedio. Esse rendono l’uomo cosciente di essere peccatore e di essere
castigato dalla divinità per averle disobbedito. Quando esse non si basano sul
politeismo o sull’idolatria, o non sono guaste dalla superstizione, o non
giacciono miseramente al livello della magia, che pretende temerariamente, dietro
suggerimento del demonio, di piegare la volontà divina a quella dell’uomo, i
sacrifici cultuali ed espiatori propri delle religioni servono appunto per
placare l’ira divina ed ottenere dalla divinità perdono, grazie e favori.
Alcune religioni più profonde, monoteistiche,
ma che tendono al monismo e al panteismo, come l’orfismo, il platonismo, lo
zoroastrismo, il manicheismo, il neoplatonismo, l’ermetismo, il catarismo, lo gnosticismo,
l’induismo e il buddismo, hanno l’oscura percezione che l’uomo è decaduto da uno
stato originario di felicità celeste ed è precipitato sulla terra.
Senonchè,
però, esse considerano l’uomo non come un ente mondano creato dal nulla, ma come
una emanazione divina, una particella o una scintilla o un raggio della
divinità, una divinità inferiore staccatasi dalla divinità suprema, una
divinità decaduta, ma pur sempre divinità, per cui il peccato delle origini non
è un vero e proprio male, cioè non è una vera e propria negazione od offesa
alla divinità, ma è in fondo effetto della stessa essenza divina, la quale, per
un moto a lei stessa interno, si scinde
e si oppone a se stessa, scendendo nella materia di per sè opposta alla divinità,
materia che quindi è il vero e proprio
male opposto a Dio, il quale dunque non è il creatore della materia, ma anzi è
suo nemico, perché da Dio ha origine solo
lo spirito. E quindi la materia è il male opposto a Dio, che è il bene.
In queste religioni, allora, la salvezza e la
libertà dal male consistono nel fatto che l’uomo, che è puro spirito, la cui
profonda essenza è quel Dio, dal quale si è separato, cadendo nella materia, cioè
nel male e nella schiavitù, ritorni a quello stato originario divino, dal quale
si è separato, abbandonando il corpo, che è principio di peccato e di
infelicità.
Il culto
gnostico
Questa concezione della caduta originaria sembrerebbe
aver qualche somiglianza con il dogma del peccato originale, ma in realtà tra
di loro c’è un contrasto profondo e cioè che nello gnosticismo[1],
che è la forma più dotta di quelle religioni e in certo modo le riassume tutte,
Dio non è il creatore della materia e
quindi del corpo umano e della natura fisica, mentre per loro, se di
peccato originale si può parlare, esso non è stato una disobbedienza a Dio da parte
dell’uomo, composto di anima e corpo, come è concepito dalla Bibbia, ma è stato
una scissione interna alla divinità,
un separarsi necessario, perché divino, della divinità da se stessa: da una
parte Dio buono e dall’altra l’uomo peccatore, immerso nella materia; ma l’origine
del peccato non è nella libera volontà ribelle
dell’uomo, ma nella primordiale, eterna e necessaria scissione interna
della divinità (essere-non-essere, bene-male), che si è divisa in se stessa e da
se stessa.
Il peccato, allora, col conseguente castigo,
per lo gnosticismo, non è la trasgressione delle leggi che Dio pone nel corpo
umano e nella natura, perché questo mondo è estraneo a Dio ed appartiene al
mondo del male; qui l’uomo può fare quello che vuole; ma è il peccato è il semplice
fatto di essere entrato a contatto con questo mondo malvagio e pericoloso ed
essere rimasto inquinato e infettato da esso, di esserne rimasto prigioniero.
Allora, in che consisterà il culto religioso?
Nel cominciare col riconoscere di essersi allontanati da Dio col peccato e di
patirne le conseguenze. E fin qui va bene. Ma che vuol dire per lo gnostico «essersi
allontanati da Dio?». Vuol dire che l’uomo ha dimenticato il suo vero essere e
la sua origine divina, il suo vero io, che è un essere divino, un Io divino,
puro spirito. L’uomo è un dio inferiore, che deve tornare al Dio sommo, dal
quale si è staccato o dal quale lo stesso Dio supremo lo ha staccato da Sé,
opponendosi al male, che è il mondo. E come il bene non si concilia col male,
così per lo gnostico lo spirito non si concilia con la materia.
Nel culto gnostico, allora, l’uomo non offre
a Dio, come troviamo nel cristianesimo, un sacrificio espiativo per ottenere il
perdono dei peccati e la salvezza dell’anima e del corpo, ma compie un rito di liberazione
dal corpo e dal mondo, per consentire allo spirito di ricongiungersi con Dio,
recuperando la sua vera, originaria natura divina, divenendo un solo essere con Lui.
Il pregio unico
del cristianesimo
Allora bisogna dire, al di là di tutte queste
aberrazioni, sia pur mescolate a verità, che il pregio unico della religione cristiana,
erede e perfezionatrice della religione mosaica, religione cristiana che la
pone al di sopra di tutte le altre religioni, dipende proprio dal fatto di
essere l’unica ad essere stata fondata dal Figlio di Dio, onnipotente, sapienza
e bontà infinite, giusto e misericordioso. La religione islamica raccoglie
alcuni elementi della religione mosaica mescolandoli con credenze manichee e
fatalistiche.
Ma se non si tiene conto del fatto di questa
caduta originaria, baluginata, sia pur tra gravi errori, alla mente stessa dei
saggi di diverse religioni, ne verrà l’inevitabile e tragica, quanto logica conseguenza,
di ignorare o svilire o negare il motivo, la ragion d’essere, le modalità e il
fine dell’opera salvifica di Gesù Cristo,
venuto appunto per liberarci dal male e da ogni
male, e quindi l’ignoranza o la relativizzazione dell’intera etica
cristiana e per conseguenza il crollo totale dell’intero cristianesimo, messo
allo stesso livello delle altre religioni, cristianesimo che crolla così come crolla
un edificio, del quale se ne siano minate le fondamenta.
Infatti, un cristianesimo che ignora o minimizza
il peccato originale o non lo considera un fatto storico, ma solo un mito o un
simbolo, anche se salva tutti gli altri dogmi, nonché la concezione esatta
dell’uomo e l’etica naturale insegnata dal Vangelo, anche se insegna la
figliolanza divina e la speranza della vita eterna, un cristianesimo del genere
si priva della sua essenziale dimensione
storica, non capisce che la salvezza avviene nella storia, si svuota razionalisticamente
dall’interno, come un uovo del quale si sia succhiato il contenuto; si riduce infatti
ad essere niente più che un codice di urbanità o buona educazione o di buone
relazioni sociali o un programma politico, appiattito sul presente, senza
futuro e senza radici storiche ed ontologiche, un calmante contro le turbe
psicologiche, un umanesimo utopistico, gnostico e buonista, un bel castello di
carta, pronto a crollare all’urto della
malizia umana, al minimo soffio delle potenze mondane e degli assalti del
demonio, che lo trattano come il gatto col topo. Diventa un sale insipido,
degno di essere «calpestato dagli uomini» (Mt 5,13), non incute rispetto a
nessuno e diventa meritevole di essere beffato e deriso.
Come mai un
cristianesimo senza peccato originale?
Per quale motivo questa tracotante ricerca di
un cristianesimo senza peccato originale? Il motivo è, secondo me, perché, colpiti
dalla nobiltà della figura di Cristo e dalla sua comunione con Dio, diciamo
pure dalla sua divinità, si vorrebbe un cristianesimo che non parta da un
riconoscimento delle proprie colpe davanti a Dio, colpe che ci hanno meritato
di essere castigati, per cui occorre espiare per ottenere il perdono e la
benevolenza divini, ma s’intende la vita umana come già dagli albori
aprioricamente abitata da Dio (Lutero, Kant, Rousseau), per cui l’iter della
condotta cristiana dovrebbe essere una continua ascesa, un’«autotrascendenza»
(Rahner), senza intoppi o al massimo con qualche inevitabile e normale
incidente di percorso, che sarebbe il peccato, fino al vertice massimo
dell’umanità, che sarebbe il «punto Omega», Cristo stesso (Teilhard de
Chardin).
Il fatto è che per troppo tempo l’autorità
ecclesiastica ha tollerato, all’interno della Chiesa, soprattutto in questi
ultimi cinquant’anni, interpretazioni errate del peccato, senza ascoltare le
voci dei difensori della fede, finché siamo giunti alla drammatica situazione
attuale, nella quale la Chiesa è invasa da tali tenebre, che sembrano prevalere
le forze della menzogna, cosa che però, è vero, non avverrà mai grazie alle
promesse fatte da Cristo a Pietro. Tuttavia, se la Chiesa in sé stessa resterà immune, ciò non impedisce ai singoli fedeli di perdersi. Da qui il dovere
impellente fatto dal Vangelo ai pastori di impedire che le pecore siano sbranate
dai lupi e il dovere delle pecore di non ascoltare i lupi travestiti da
agnelli, ma la voce del buon Pastore.
Che
cosa è il peccato originale e da dove deriva.
Il peccato
originale è presentato dal racconto genesiaco, sia pur tra simboli occasionali,
come un fatto storico, realmente
accaduto, all’origine della creazione dell’uomo, il peccato commesso dalla
prima coppia, dalla quale trae origine tutta l’umanità. È chiaro che i nomi
Adamo ed Eva sono simbolici, ma l’agiografo, evidentemente illuminato da Dio e
non in base ad un’informazione storica, chiaramente intende riferirsi a due persone umane realmente esistite,
perché si tratta di un «megapeccato», un peccato gigantesco a dir poco, realmente
commesso dai due, peccato dalla carica distruttiva che supera ogni nostra
immaginazione, dalle conseguenze letali estremamente concrete, che interessano
e interesseranno tutta l’umanità fino
alla fine dei secoli.
È chiaro
altresì che quando la Chiesa parla al riguardo di fatto storico, non intende riferirsi
alla miserevole storia della presente vita terrena e mortale, della natura decaduta,
segnata dalle conseguenze del peccato originale, ma ad un fatto che, pur
appartenendo ad un lontanissimo passato, è avvenuto su questa terra in
condizioni sovraterrene, di una perfetta armonia dell’uomo con la
natura, armonia che col peccato originale è venuta meno, per essere sostituita
da condizioni di esistenza, per le quali la natura è diventata ostile all’uomo e l’uomo distruttore della natura.
Così il
Concilio di Trento definisce il peccato originale: «Il primo uomo Adamo, avendo
nel paradiso trasgredito il mandato divino, subito perse la santità e
giustizia, nella quale era stato costituito ed incorse per l’offesa di tale
prevaricazione nell’ira e nell’indignazione divina e quindi nella morte, che in
precedenza Dio gli aveva minacciato e con la morte incorse nella schiavitù
sotto il potere di “colui che della morte ha il dominio” (Eb 2,14), ossia il
diavolo, e l’intero Adamo a causa dell’offesa di quella prevaricazione fu
mutato in peggio nell’anima e nel corpo» (Denz.1511).
Il peccato
originale è consistito nella pretesa di «diventare come Dio conoscendo il bene
e il male» (Gen 3,6), vale a dire mettersi al posto di Dio nello stabilire il
principio o la legge del bene e del male. A seguito del peccato originale ogni
uomo viene al mondo con questa tendenza alla superbia, che contrasta con la
naturale inclinazione ad assoggettarsi a Dio.
Paolo, dal
canto suo, nella sua dottrina sul peccato originale, riprende le fila dal
racconto del Genesi, chiarisce che cosa è avvenuto, anche qui ovviamente non
grazie ad una informazione storica, ma per rivelazione divina, e sviluppa il
discorso continuando a parlare di Adamo ed Eva come di due personaggi storici,
allora da tutti perfettamente noti.
Riferendosi
ad Adamo, enuncia l’essenziale della dottrina del peccato originale, ripreso
dal Concilio di Trento (Denz.1512): «a causa di un solo uomo il peccato è
entrato nel mondo, e così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché
tutti hanno peccato» (Rm 5,12). Questo «perchè» (gr. ef’o)[2] si può
tradurre anche, secondo la Vulgata di
San Gerolamo, con «in quo», come ha fatto il Concilio di Trento, ossia «nel
quale Adamo».
Non c’è una
grande differenza tra le due traduzioni. L’essenziale, comune ad entrambe, è
che nell’uno e nell’altro caso è chiaro che il peccato di Adamo sta all’origine
dei peccati di tutti gli uomini. La prima traduzione ragiona così: «siccome
tutti hanno peccato, vuol dire che a causa di un solo uomo il peccato è entrato
nel mondo». Nella seconda si dice invece che «tutti hanno peccato in Adamo».
Tutti hanno peccato nel peccato di Adamo.
Il Concilio
di Trento spiega che la colpa di Adamo si è trasmessa (transfusum) a tutti «non per imitazione (imitatione), ma per propagazione (propagatione)». Questa precisazione del Concilio chiarisce il
significato della prima traduzione, che potrebbe dar luogo a significare
«imitazione». Sta qui il mistero dell’essenza del peccato originale, essenza
che è ribadita da Pio XII nell’enciclica Humani
Generis, laddove il Papa afferma che «il peccato originale proviene da un
peccato veramente commesso da Adamo individualmente e personalmente e che,
trasmesso a tutti per generazione è inerente a ciascun uomo come suo proprio».
Come
può una colpa propagarsi per generazione?
Il fatto
della propagazione per generazione è connesso col fatto che il peccato
originale, secondo il dogma, è un peccato singolo della prima coppia umana,
dalla quale appunto per generazione la colpa si propaga a tutti gli altri
individui della specie. Per questo Pio XII nell’enciclica Humani Generis esclude l’ipotesi del poligenismo, perché renderebbe
impossibile la propagazione per generazione dall’unica coppia iniziale.
Ma anche
ammessa e non concessa l’ipotesi, la sola idea che la scienza possa
dimostrarla, è già il segno di una pretesa esorbitante della scienza di
pronunciarsi su di un argomento – l’origine dell’uomo –, sul quale essa non può
aver competenza, perché va oltre il suo orizzonte empirico e sconfina nella
metafisica, ossia sull’origine ontologica dell’essere umano, origine circa la
quale solo la Rivelazione divina ci può informare, appunto col racconto della
creazione dell’uomo.
Scoprire
l’origine dell’uomo non è come scoprire l’origine di una tradizione vinicola o
della coltivazione delle patate, cose che cadono sotto i sensi, mentre l’essere
umano può essere compreso solo alla luce dell’essere, che supera l’oggetto
empirico della scienza ed è oggetto della scienza dell’essere, che è la
metafisica.
Come può una
colpa propagarsi? Nel nostro comune modo d’intendere la colpa, essa appartiene
esclusivamente al colpevole, a colui che ha commesso quella data colpa.
Ezechiele enuncia chiaramente questo principio: «Colui che ha peccato e non
altri deve morire; il figlio non sconta l’iniquità del padre; né il padre
l’iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al
malvagio la sua malvagità» (Ez 18,20), «Il malvagio morirà nella malvagità che
ha commesso» (Ez 33,14). Ezechiele corregge una visione fisicista della colpa,
che fino ai suoi tempi era invalsa, ed era quella di considerare la colpa come
una malattia ereditaria, che si trasmette di padre in figlio.
Ed è così
che la Scrittura narra come Davide fu punito nel suo figlio, e si credeva che i
figli scontassero le colpe dei padri (Ez 18,2). Ma la colpa del peccato
originale, come apparirà chiaro da San Paolo, è di tutt’altro genere, perché
non si tratta di un peccato personale e neppure di un peccato collettivo, che è
una somma di atti personali aventi lo stesso oggetto, per esempio un gruppo di
congiurati che uccide un governante innocente.
Certamente
Adamo ed Eva hanno avuto la loro responsabilità personale nell’aver trasgredito
il comando divino, ma nel contempo quel peccato non è stato solo il peccato di
due individui, ma, come ha osservato acutamente San Tommaso, è stato un peccato
della natura umana (peccatum naturae), come se fosse stata
un unico soggetto agente.
Si capisce
allora come tutti gli individui della specie umana, essendo soggetti alla
specie, partecipano della colpa della specie.
Teniamo presente che siamo qui di fronte a un dato di fede, per cui sarebbe vano e fuorviante
pretendere da questa dottrina una dimostrabilità razionale, che essa non ha né
può avere, facendo riferimento a una realtà morale, che trascende la
comprensione della ragione umana.
Come
avviene la trasmissione della colpa originale?
Il dogma del
peccato originale fa capire che gli uomini sono uniti e corresponsabili
nell’agire morale nell’unità della natura umana molto di più che nella più
stretta collaborazione fra i singoli. A questa dottrina paolina della
solidarietà degli uomini nel peccato corrisponde l’altra profonda dottrina
paolina dell’unione dei fedeli come membra del Corpo mistico di Cristo.
Certamente
non è facile capire come uno stato dello spirito, qual è lo stato di colpa,
possa passare di padre in figlio sulla base della generazione biologica, che è
un fatto materiale. Parrebbe una dipendenza dello spirito dalla materia e
quindi dal tempo.
Vediamo che
cosa avviene. L’anima dei genitori, anche se purificata dal Battesimo, resta
capace di trasmettere alla prole la macchia della colpa originale. Infatti la
colpa è stata cancellata nella persona
dei genitori, ma resta in loro in quanto membri della natura umana decaduta, perché ricordiamoci che la colpa intacca la
natura prima che l’individuo. Ebbene, allorché il figlio è stato concepito, Dio
crea la sua anima, di per sé incontaminata, perché uscita dalle mani di Dio.
D’altra parte lo zigote, la prima cellula del nuovo individuo, è formata dai
genitori contaminati dalla macchia originale.
A questo punto l’anima del figlio, animando lo
zigote contaminato, viene contaminata dalla colpa originale, la quale, benché cancellata
nella persona dei genitori
battezzati, resta nella natura umana che viene trasmessa al figlio e
così questi viene contaminato nella sua persona per il tramite della natura.
Ricevendo il Battesimo, la colpa viene cancellata nella persona, ma resta nella
natura, così che la colpa potrà essere trasmessa alla prole. E il ciclo
ricomincia.
Ci si
potrebbe chiedere: come fa un accidente spirituale come la colpa, fatto di per
sé per sussistere in una sostanza spirituale, cioè nell’anima, a contaminare
una sostanza materiale, sia pur vivente, come lo zigote? Rispondo dicendo che
la colpa originale non contamina lo zigote in quanto sostanza materiale, ma in
quanto animato dall’anima spirituale, appena creata buona, infusa nello zigote.
Quanto alla
colpa, essendo un accidente spirituale, è chiaro che non viene a sussistere
nello zigote, in quanto sostanza materiale, ma dall’anima dei genitori, a causa
dell’atto generativo da loro compiuto (per
genarationem, Pio XII), passa o trapassa o, per usare il termine del Concilio
di Trento, viene «trasfusa», nell’anima del figlio. In tal modo questi contrae
la colpa, per cui, per liberarsene, ha bisogno del Battesimo.
Altra
domanda: come fa un atto generativo, che è materiale, a trasmettere un
accidente spirituale quale la colpa originale? Non occorre lo spirito per
causare un qualcosa di spirituale? Rispondo dicendo che l’atto generativo non
contiene la colpa, perché, essendo un atto materiale, non può essere soggetto
di un accidente spirituale.
Per questo
motivo, non è questo atto fisico, propriamente, a comunicare la colpa all’anima
del figlio, ma è l’atto generativo in
quanto causa strumentale dell’atto volontario, col quale i genitori hanno
compiuto l’atto generativo. La causa propria e per sé della trasmissione della
colpa originale non è l’atto generativo come
tale, ma è l’atto generativo in
quanto causato e voluto dalla volontà dei genitori, per cui qui è salvo il
principio che solo un atto dello spirito può causare un effetto spirituale,
nella fattispecie la colpa originale nell’anima del figlio.
Ultima
domanda: ma se la presenza della colpa originale dipende sì immediatamente da
un atto fisico, ma in fin dei conti dalla volontà dei genitori, e se è vero che
la volontà può volere o non volere un effetto dipendente da lei, i genitori non
potrebbero rifiutarsi di trasmettere al figlio la colpa originale?
Rispondo
dicendo che la trasmissione della colpa originale dipende sì dalla volontà dei
genitori, ma non dalla loro volontà
personale, bensì dalla loro volontà come voluntas naturae, essendo la colpa originale un peccatum naturae. La loro volontà
personale, pertanto, non può nulla contro
questa trasmissione, perché essa non è effetto della loro volontà
personale, ma della voluntas naturae
che è la volontà della natura decaduta,
comune a tutti i figli di Adamo, che agisce indipendentemente dalla volontà
dell’individuo.
Come
la Madonna ha potuto essere esente dalla colpa originale?
Se Maria SS.ma è stata concepita senza macchia
originale, ciò, come dice chiaramente il dogma, non è stato dovuto al fatto che
i suoi genitori non hanno voluto trasmetterle la colpa originale, ma fu dovuto
all’iniziativa gratuita divina – privilegio unico di Maria tra tutti i figli di
Adamo bisognosi di salvezza – di salvare Maria in previsione dei meriti di suo
Figlio, lasciandola immune dalla macchia maledetta, sicchè, quando Dio creò
l’anima di Maria, quest’anima rimase pura e immacolata così come Dio l’aveva creata,
senza che l’atto generativo dei suoi genitori avesse potuto macchiarla
trasmettendole la colpa originale.
Per questo,
Maria ebbe il privilegio di poter fruire della medesima perfezione morale, del medesimo
stato d’innocenza e della medesima santità e giustizia di Adamo prima del peccato.
Ella quindi fu esente anche dalle conseguenze morali e penali del peccato
originale.
Dal punto di
vista della condotta morale, Maria fu esente dall’inclinazione a peccare (la
«concupiscenza»), che comporta una tendenza della volontà a disobbedire a Dio e
la soggezione dello spirito alla carne, al mondo e al demonio. Per questo la
Madonna non commise mai alcun peccato, neppure veniale. Per questo non ebbe mai
bisogno di far penitenza o di esercitare una vita ascetica di correzione dei
vizi o per domare gli impulsi della carne, perché tutto in lei era armonia,
unità, ordine e pace. Per volontà del
Padre e partecipare all’opera redentrice del Figlio, Ella tuttavia assunse,
senza averle meritate, ma solo per amor nostro e darci l’esempio, alcune
conseguenze penali del peccato originale, come la sofferenza, l’ignoranza e la
morte, senza che il suo corpo subisse la corruzione.
La
cacciata dal paradiso terrestre
Ecco il
racconto del Genesi: «Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché
lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente
del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per
custodire la via all’albero della vita» (Gen 3,23-24).
Non bisogna
lasciarsi ingannare dall’ingenuità del racconto, che ci fa pensare alla
scenetta del custode di un giardino signorile, che scaccia due marmocchi, che
si sono furtivamente introdotti a calpestare le aiuole. Si tratta qui di cosa
ben più seria e che sfugge alla nostra comprensione attuale di figli di Adamo,
anche illuminati dalla Rivelazione.
La cacciata
dei progenitori dall’Eden, anche se rappresentata dall’agiografo come una
qualunque storia di questo mondo, in realtà rappresenta un episodio sì storico,
ma di quella storia preternaturale, nella quale occorre inserire lo stesso
fatto del peccato originale. Esser cacciati dall’Eden, per Adamo ed Eva, ha
voluto dire nè più nè meno che decadere
dallo stato d’innocenza nello stato di natura decaduta, per loro e per tutta l’umanità, con la perdita
della grazia e dei doni preternaturali corrispondenti di «santità e giustizia»,
dei quali parla il Concilio di Trento (Denz.1511).
Dov’era
l’Eden?
Per quanto
riguarda la difficile ma ineludibile questione della collocazione dell’Eden, la
Scrittura lo presenta come un «giardino» (Gen 2,8, 15; 3,23-24), per cui a tutta
prima sembrerebbe un luogo abbastanza limitato. Ma evidentemente si tratta di un’immagine
simbolica per rappresentare la terra e l’universo armonizzati con l’uomo e
sotto il pieno dominio dell’uomo; quindi questo stesso universo, ma in una
condizione di soggezione all’uomo e di armonia con l’uomo, che adesso, dopo il
peccato, è venuta meno per essere sostituita
da una condizione esistenziale, per la quale l’uomo si avverte come
infinitamente distante dalla perduta possibilità edenica di dominare
l’universo, a causa delle incalcolabili distanze tra i corpi celesti e le
incalcolabili energie esistenti negli infiniti spazi, energie, le quali, ben lungi
dal presentarsi come utilizzabili, appaiono ben piuttosto minacciose, anche se
bisogna riconoscere con gratitudine a Dio che il rapporto della terra col sole
e la luna è soddisfacente, così come è vivibile la vita sulla terra, residuo,
questo, modesto ma significativo e incoraggiante, delle condizioni felici
dell’antico stato edenico.
Quando
è avvenuto il peccato originale?
Analogamente
alla questione dello spazio, non bisogna omologare la storia della terra nella
quale viviamo da figli di Adamo con la storia della creazione e
dell’ordinamento della terra, così come è narrata dal racconto del Genesi - i famosi «sette giorni» (c.1 e
2,1-14), che termina narrando come Dio, dopo aver creato l’uomo, lo «colloca»
(Gen 2, 8.15), nel giardino di Eden.
L’immagine
del «giardino» non rettamente intesa può essere fuorviante, perché dà
l’impressione di un luogo delizioso che possa trovarsi in questa terra, per cui
è successo che alcuni si sono chiesti dove poteva essere questo meraviglioso
giardino: in Persia? In India? Nel Tibet? Tutte domande completamente fuori
luogo, perché l’Eden non è il creato come lo sperimentiamo in questa vita
mortale, conseguente al peccato originale, ma è il creato così com’era nella
sua integrità originaria, prima che
fosse corrotto dal peccato.
Stando così
le cose, la comparsa empirica dell’uomo
su questa terra contaminata dal peccato, comparsa verificata o ipotizzata dalla
scienza, non va confusa con la comparsa ontologica
dell’uomo in quanto creato da Dio nell’Eden,
della quale narra il Genesi. Infatti, la comparsa empirica è quella dell’uomo già esistente e nello stato di natura
decaduta, mentre la comparsa ontologica dell’uomo in quanto creato da Dio
nell’Eden, è un dato rivelato, che sfugge alle constatazioni, alle prove, ai
controlli e alle verifiche della scienza.
Quanto
all’antropologia filosofica, essa può dimostrare che l’uomo è creato da Dio;
essa constata bensì il fatto della corruzione della natura umana, ma non è in
grado di spiegare il perché originario e
le cause prime di tale corruzione della natura. La risposta viene dalla Rivelazione con la dottrina del peccato
originale e delle sue conseguenze.
Un
conto è la comparsa dell’uomo decaduto
e
un conto è la creazione dell’uomo edenico
Occorre
invece distinguere molto bene, quando ci interroghiamo sull’origine dell’uomo,
il punto di vista della scienza da quello della fede. Un conto è se si tratta
dell’uomo edenico, oggetto della
fede, l’uomo nello stato d’innocenza, dotato dei doni preternaturali della
soggezione a Dio, dell’immortalità, dell’impassibilità, della giustizia
originale, e del pieno dominio sulla natura.
E un conto è
la comparsa empirica dell’uomo nel passato, che è la comparsa dell’uomo
peccatore, oggetto della scienza, l’uomo decaduto
dallo stato edenico e privo dei doni preternaturali. Si tratta di quella
origine empirica dell’uomo, che è stabilita o ipotizzata dalla
paleoantropologia in base ai reperti fossili, che dimostrano una somiglianza
dell’uomo con la scimmia.
Mentre la
comparsa ontologica dell’uomo narrata
dalla Scrittura avviene al «sesto giorno», ossia al termine dell’opera
creatrice dell’universo e di una lunga evoluzione cosmica, che prepara la
creazione dell’uomo, la comparsa empirica
dell’uomo avviene essa pure al termine di una lunghissima evoluzione simile
alla precedente, studiata dalla scienza[3],
con la differenza che, mentre la storia naturale indagata dallo scienziato è la
storia della natura corrotta dal
peccato, la storia della terra narrata dal Genesi
è oggetto di fede ed è l’attuazione nel tempo passato del piano divino originario della creazione del mondo, che culmina
nella creazione dell’uomo.
La
evoluzione dei viventi studiata dalla paleontologia assomiglia al racconto biblico
dei «sei giorni» della creazione, con la differenza che mentre la scienza
studia l’evoluzione di una natura decaduta dopo il peccato o a causa del
peccato, la Bibbia ci narra un’evoluzione incontaminata dal peccato. In
entrambi i casi si nota un’evoluzione ascendente dalla scimmia all’uomo.
La scienza,
indagando sugli strati geologici a partire da milioni di anni fa, si è accorta
che esistono effettivamente tracce fossili di scimmie, che col passare agli
strati più recenti, hanno morfologie, che si avvicinano gradualmente alla forma
empirica della specie umana. Si è constatato altresì che negli strati
successivi, ancora più recenti, cominciano ad apparire tracce di viventi, ma circa
i quali, data la scarsità dei dati, sempre con aspetti scimmieschi, non è facile
o è impossibile sapere se si tratta di scimmie o di uomini.
Critica
dell’evoluzionismo darwiniano
A questo
punto si impone la necessità di dare una valutazione della famosa teoria
darwiniana dell’origine della specie umana per evoluzione da specie scimmiesche
precedenti. Come è noto, Darwin sostiene che l’uomo deriva dalla scimmia. E fin
qui la cosa non è metafisicamente impossibile, a patto però che tra la specie
scimmia e la specie umana non si voglia sostenere, come invece fa Darwin, la possibilità
di un animale che non sia più scimmia, ma non sia ancor uomo, un animale
intermedio fra la scimmia e l’uomo. Sarebbe quello che è stato chiamato l’«anello
di congiunzione». Ora, questa è una cosa metafisicamente
ossia assolutamente impossibile.
Infatti,
l’anima umana non può essere il termine di una precedente evoluzione, in quanto
il detto termine suppone un soggetto, che, sviluppandosi o progredendo, ha
lasciato una forma inferiore per acquisirne una superiore, come avviene per il
fanciullo, che diviene adulto. Ma qui abbiamo un soggetto, il quale, mantenendo
la medesima identità sostanziale, si perfeziona col giungere al termine del suo
sviluppo specifico. Sono noti i mutamenti di specie empirica naturali o
artificiali nel campo della vita vegetativa ed animale.
Ma il caso
dell’uomo è assolutamente diverso. La specie umana non è una specie empirica, soggetta a mutazioni. Qui
esiste veramente un’evoluzione delle specie, di una in un’altra, perché
evolvono sulla base di una specie ontologica, che resta ignota al sapere
sperimentale, e sottesa al gruppo di specie empiriche nelle quali si manifesta.
La specie
umana, invece, è una specie ontologica,
assolutamente immutabile, perché la forma che la pone in specie è una forma
sostanziale, che tocca l’essere, oltre il divenire. Non è prodotta per
generazione, come le anime inferiori, che emergono dalla materia, ma per
creazione, direttamente da Dio. Non ci può essere a metà o imperfettamente. O
c’è tutta intera subito e per sempre o non c’è.
È ovvio,
comunque, che l’uomo, in quanto composto di un corpo materiale, ha anche un
aspetto empirico, come fosse un animale qualunque. Ma la sua anima spirituale
non può essere il risultato ultimo dell’evoluzione di un precedente soggetto
materiale, perché l’anima umana non è un composto di materia e forma, ma è una pura forma
sostanziale semplice, sussistente da sè ed immateriale, ossia spirituale ed
immortale.
Dall’anima
dell’animale all’anima umana, quindi, non può darsi una continuità evolutiva
senza soluzione di continuità ontologica, come per le anime inferiori, ma c’è
un passaggio discontinuo, un netto dislivello, uno stacco o salto ontologico,
come dal non-essere all’essere. In nessuna specie di scimmie si può dare
un’anima che tenda a superare sé stessa o a trascendersi ontologicamente per
salire o svilupparsi verso un’anima umana, quasi fosse il vertice o il culmine
della salita. L’anima inferiore non può divenire superiore e l’anima superiore
non può provenire dalla inferiore, ma solo da Dio.
L’interpretazione
di Lutero
Lutero credeva
alla storicità del peccato originale, ma se ne formò un’idea eretica, troppo
pessimistica e catastrofica, la quale, per reazione, provocò la negazione della
spiegazione biblica dell’origine del male e quindi la storicità e veridicità
del racconto genesiaco del peccato originale e delle sue conseguenze.
Lutero, come
è noto, credeva che col peccato originale la natura umana non solo aveva
perduto tutti i doni preternaturali, non solo si fosse indebolita, ma si fosse
talmente corrotta, che la ragione non era più capace di conoscere la legge
morale e di dimostrare che Dio esiste, mentre la volontà era diventata così
schiava del peccato, che ogni azione umana era peccato.
Conosciamo
la soluzione di Lutero al problema del male e del peccato: il peccato in questa
vita è ineliminabile, per cui l’uomo, per quanto si sforzi a far bene, è sempre
in stato di peccato mortale (peccatum
permanens). Ora Cristo col suo
sacrificio ha pagato al Padre il debito del peccato e ci ha meritato il perdono
divino. Per sperare, anzi per essere assolutamente certi della futura salvezza,
secondo Lutero, è inutile tentare di liberarci dai peccati con le buone opere,
che sono sempre peccati mascherati, ma basta credere nella grazia di Cristo,
che ci salva gratuitamente senza che occorrano opere e meriti, giacché non si
può comprare ciò che viene dato gratis.
Sembrerebbe
il ragionamento di San Paolo; ma non è così. In realtà Paolo chiarisce che,
nonostante il peccato originale, la natura umana conserva alcune forze sane che
dobbiamo utilizzare per salvarci e sottolinea che la gratuità della grazia non
ci esime dal dovere di collaborare con essa con le buone opere e quindi non ci
esime dal dovere di combattere e vincere il peccato.
Ma alla fine
l’etica luterana a che cosa porta? A una coonestazione del peccato. Infatti, se
il peccato è inevitabile, può essere considerato un fatto naturale, così come è
invincibile la spinta della natura. La visione esagerata luterana della
corruzione della natura si capovolge allora in una concezione del peccato come
cosa naturale e quindi buona. Il male diventa bene.
Le
conseguenze della visione luterana
A questo
punto bisogna notare come, a seguito di questa errata visione luterana del peccato
originale, successe nel mondo protestante che si perse la distinzione fra lo stato
originario preternaturale d’innocenza e lo stato di natura decaduta, e così
nacque un concetto ibrido di «stato di natura», dove chi lo dava come natura
buona e chi come natura cattiva.
E così si
giunse a parlare di uomo «naturalmente buono» (Gian Battista Vico e Rousseau) e
di uomo «naturalmente cattivo» (Hobbes, Kant). I primi spiegavano la malizia umana
con la «civiltà»; per cui occorreva tornare allo «stato di natura» e ponevano a
modello di felicità naturale certe tribù selvagge o primitive dell’Africa o
dell’America Latina. I secondi sostenevano, al contrario, che per rimediare
alla malizia naturale, occorre la civiltà e portavano a modello la maturità
umana e la razionalità dell’illuminismo settecentesco.
In ogni
caso, per raggiungere la perfezione e la felicità umana – la «virtù» per gli
illuministi e la «spontaneità» per i russoiani, tra i quali possiamo annoverare
i massoni – non occorreva nessun aiuto soprannaturale, ma semplicemente
l’adozione di buone riforme politiche per i primi e la concessione di piena
libertà di spontaneità a tutti, nella tolleranza per tutti e senza stretti obblighi
legali per nessuno. È la cosiddetta «rivoluzione del ‘68».
[1] Per questo è importantissima la recente
condanna dello gnosticismo fatta dal Sommo Pontefice nella Lettera Gaudete et exultate.
[2] Cf il mio libro Il mistero della Redenzione, cap.I, Edizioni ESD, Bologna 2004.
[3]Card.Ernesto Ruffini, La teoria dell'evoluzione secondo la scienza e la fede, Orbis
Catholicus (rappresentanza della Casa Editrice Herder), Roma, 1948; Vittorio
Marcozzi, L’uomo nello spazio e nel tempo,
Casa Editrice Ambrosiana, Milano 1953.
Merci père. C'est très éclairant.
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