Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 1 (2/3)

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 1 (Parte 2/3)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 11 (A-B)

Bologna, 13 gennaio 1987 - Fine Ultimo n. 11 (A-B)

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Il super-uomo, l’uomo che supera se stesso, è l’uomo che si pone al di là del bene e del male, è l’uomo che uccide Dio, perchè è lui il suo Dio. E’ terribile. Che il Signore mi perdoni, devo sempre almeno aggiungere, perché sono vere bestemmie e di quelle grosse. Questo è Friedrich Nietzsche

Similmente, se voi pensate, la stessa cosa in una forma un po’ attenuata, cioè non così, diciamo, militante, ma molto più subdola, sotto un altro aspetto, la vedete nell’esistenzialismo. Pensate a Sartre. E’ curiosa questo, vedete; in fondo il pessimismo sartriano dell’uomo come fallimento, come assurdità, è dovuto a una pretesa, molto modesta, cioè quella di essere Dio. L’uomo è Dio, ma fallisce nel voler esserlo, in sostanza. Cioè l’uomo è destinato a essere Dio, ma è un Dio fallito, che continuamente vuole esserlo senza riuscirci. Almeno ha riconosciuto che non ci riesce, bontà sua.

Ma comunque, quello che è da contestare non è tanto che l’uomo sia fallito. Ma è da contestare appunto la pretesa di essere Dio in persona. Ritorna sempre, se volete, quel discorso di Sant’Anselmo, che è molto, molto profondo dal punto di vista antropologico, e cioè che in sostanza l’uomo è veramente chiamato alla divinizzazione in virtù  della sua spiritualità, di questa somiglianza formale con Dio. Questo già sul piano naturale. Ovviamente poi si realizza soprannaturalmente in maniera incommensurabile tramite la fede, la carità e la visione beatifica.

Ebbene, l’uomo è chiamato a questo to theò omoiotes, come dice Platone, ad assomigliarsi a Dio. Però può farlo o per rapinam o per gratiam. Cioè, per rapinam, ergendosi lui stesso a Dio, sostituendosi a Dio[1]; oppure lasciandosi in qualche modo, come si può dire, attirare da Dio stesso, cioè sul piano naturale, dove non si può parlare ancora della grazia che attira l’uomo a Dio, ma si potrebbe dire, contemplando Dio, cioè congiungendosi con Dio almeno nell’atto di contemplazione filosofica sapienziale.

Se uno invece non riconosce di avere Dio solo per contemplazione di qualche cosa che non è me stesso[2], ma a cui io posso in qualche modo avvicinarmi appunto per contatto intellettivo, e pretende invece di sostituirsi a Dio stesso, anche dal punto di vista dell’essere e non della intentio cognitiva, a questo punto ovviamente quel tale diventa ateo. Cioè, il cosiddetto ateismo umanistico ha qui le sue radici.

Ora, vedete, è proprio questo il punto da notare, dell’uomo che certamente conosce il fine e lo conosce in quanto è fine, però non determina il fine. Vedete. Questo è il punto.

E’ così. Cioè, chiaramente, il mio fine ultimo, cioè che io in Dio abbia il mio fine ultimo vero, questo non lo determino. Però lo conosco e lo conosco proprio nella sua ratio finis. Un animale, anche il cagnolino, il gatto, ha il suo fine ultimo in Dio, ma non lo sa, poverino. Cioè lui sa, conosce i fini particolari, ma non conosce nè la ratio finis, cioè la ragione formale di fine, nè l’identità concreta della ratio finis con quel vero unico fine ultimo, che è Dio.

Questo è dato solo all’uomo. Quindi, l’uomo conosce il fine ultimo nella sua ratio finis, l’uomo in qualche modo si impadronisce dell’essenza del fine ultimo, nella sua essenzialità, ma non determina la sua essenzialità. Abbiamo il dominio del conoscere l’essenza, ma non del dare l’essere all’essenza.

… l’uomo è atto a conoscere il fine … liberamente …

Ah, certamente. Cioè il primo obbligo è quello di conoscere il vero fine ultimo. E’ proprio questa l’unica opzione fondamentale che San Tommaso ammette. Cioè dice, appunto, che quando uno giunge all’età di ragione, quando pone il primo atto morale, deve ordinare tutta la sua vita; se non lo fa, è già nel male. Cioè il primo dovere, è la impostazione globale della propria vita.

Nel primo atto della ragione pratica, proprio in qualche modo essa torna a se stessa. Chissà, poter sapere a che età si emette questo atto. Conoscete, insomma, la psicologia dell’età evolutiva. Non so, verso i quattordici anni, mettiamo. Adesso non voglio esagerare. Può darsi che in certi campi morali anche prima, insomma. Su questo poi si potrebbe, in qualche modo, avviare una grossa discussione, perché poi riguarda anche per esempio le età in cui bisogna ammettere i ragazzi alla prima confessione, tanto per dire.

Comunque questo non ci interessa adesso, spetta più alla dogmatica, alla pastorale. Ad ogni modo, a quale che sia l’età in cui avviene questa presa di coscienza di sè, c’è sempre all’inizio della vita morale questo ordine globale al fine ultimo, almeno implicito. E’ chiaro che non c’è bisogno, insomma, che il ragazzo abbia una consapevolezza in qualche modo in actu signato, come dicono gli Scolastici, cioè che abbia una teologia del fine ultimo, ma che in actu exercito afferri che il suo fine è il bonum honestum. Questo è essenziale. Cioè che non deve, in qualche modo, ordinare le cose a se stesso o al proprio tornaconto o al proprio piacere e via dicendo.

Quindi, non c’è dubbio che l’uomo non determina il fine ultimo. Però lo afferra conoscitivamente. Questo è interessante, il Signore mi perdoni, ma noi veramente imitiamo Dio, ovviamente non entitativamente, perché Lui solo è la pienezza di essere, noi siamo creature limitatissime, abbiamo un’essenza che non è essere, ma abbiamo un’anima che conoscitivamente è ogni essere.

Si potrebbe dire addirittura, in qualche modo, che la nostra anima dà l’esse cognitum alle essenze. Vedete come imita la creazione divina, ma è una imitazione per modo di dire, perchè solo Dio è il datore dell’atto di essere. La mente, l’intelletto, dà l’atto di essere, ma non l’atto di essere esterno, reale, fisico, bensì l’atto di essere nella mente, nella conoscenza, la rappresentazione intenzionale.

Confondere questi due ordini, come fa appunto il soggettivismo, significa arrivare coerentemente all’ateismo, cioè l’uomo appare poi a se stesso come il Padre Eterno in persona. Questa è la sciagura, dell’antropocentrismo contemporaneo.

S.Tommaso questo punto lo chiarisce proprio nell’ad primum, che è molto profondo e molto bello. Cioè dice che il volontario richiede che il principio del moto, dell’azione, sia nell’agente stesso, cioè che l’agente abbia in sè il principio del suo muoversi, ma non si richiede che tale principio sia il primo, cioè che sia la causa prima, altrimenti solo Dio avrebbe il volontario perfetto.

Quindi, è richiesta l’interiorità del principio del movimento all’agente, ma non che l’agente sia tale principio primo. Il fatto che il principio intrinseco sia a sua volta causato e mosso da un principio esterno, non toglie affatto la ragione del volontario. Qui, in questo ad primum, S.Tommaso accenna alla vexata quaestio della praemotio physica, la premozione fisica. Si dice che non ci sia in S.Tommaso, ma vedete che c’è ad abundantiam, anche se un po’ a livello di accenni più che di teoria proprio sistematica.

Una faccenda che oppose in campi accanitamente contrapposti l’Ordo Praedicatorum e la Societas Iesu, come voi ben sapete. E’ inutile che vi rifaccia tutta la storia del bañenismo, come si dice, ma che coincide perfettamente con il tomismo, e con il molinismo e congruismo dall’altra sponda.

Ma, qui S.Tommaso dice con chiarezza che in qualche modo, noi nel nostro agire abbiamo il principio della nostra azione in noi e non solo, ma dominiamo anche la nostra stessa azione. Siamo liberi, però è una libertà creata. Quindi una libertà che muove se stessa, ma nel contempo ha bisogno di essere mossa per muovere se stessa. Questo è il punto. Cioè, in quanto la mia libertà è intenzionalmente infinita, è in grado di muovere se stessa; in quanto è entitativamente finita, ha bisogno di essere premossa, proprio per esercitare questo moto psichico di muovere se stessa.

Bisogna sempre vedere l’uomo, proprio ciò che c’è di più umano nell’uomo, ossia la sua struttura intellettiva, la dimensione spirituale intellettiva e volitiva, razionale nel senso più largo della parola, bisogna vedere sempre questo come un infinito intenzionale partecipato in un finito entitativo. Questo è essenziale.

E’ per questo che noi abbiamo, sì, la libertà, dal punto di vista soggettivo, ex parte subiecti. Ma anche ex parte subiecti l’abbiamo dipendente da un movente supremo che è Dio, che applica la nostra soggettività, però ad applicare se stessa, cioè a muoversi da sè. E poi altrettanto la nostra libertà è limitata ex parte obiecti, cioè non siamo noi che determiniamo i nostri fini, ma li riconosciamo come tali.

Sono riuscito a spiegarmi pressappoco? Se qualcuno è interessato ad approfondire, adesso citerò me stesso. Una volta tanto, si può fare. Dunque, se qualcuno è interessato ad approfondire l’argomento, su Sacra Dottrina n.89 del 1979, I fascicolo, trova un articoletto del sottoscritto, la Tertia pars della Tesi di laurea, dove ho cercato appunto di approfondire questa condizione del libero arbitrio sottoposto all’influsso della premozione fisica e della grazia attuale.

… numero …

Del numero 89 del ‘79. Cioè numero 89 della rivista dell’anno ’79, primo fascicolo. Solo per chi ovviamente volesse approfondire l’argomento. Cioè non è connesso direttamente con il nostro tema, ma solo per accidens. 

Una distinzione molto importante è quella che fa Giovanni di S.Tommaso riguardo al volontario e voluto. Egli dice che il volontario non è necessariamente voluto, e distingue due tipi di atto della volontà: l’atto elicito e l’atto imperato.

L’atto elicito a sua volta può essere non riflesso o riflesso. Cioè la volontà può immediatamente elicitare il suo atto oppure lo elicita tramite un atto precedente, cioè vuole volere, in sostanza. Quello che è, quello che è necessario non è che l’atto sia voluto. Perché sia volontaria l’azione, non è necessario che l’azione sia voluta, ma che sia voluto l’oggetto dell’azione.

Non è necessario. Affinchè l’azione sia volontaria, è necessario che proceda dalla volontà, il che però non vuol dire necessariamente che l’azione si ponga come oggetto della volontà. E’ necessario che l’azione proceda dalla volontà, o come atto elicito o imperato, non ha importanza. Affinchè una tale azione sia volontaria non è necessario che la volontà se la proponga come un suo oggetto, ma è necessario che si proponga come oggetto, l’oggetto dell’azione stessa, il fine dell’azione stessa da raggiungere tramite l’azione.

Quindi l’azione talvolta può essere non voluta, come oggetto, ma con-voluta insieme all’oggetto. Per esempio, domani devo andare a Mantova. Speriamo che i treni, non subiscano grossi ritardi, date le intemperie. Ad ogni modo, non è necessario che io debba volere il mio voler andarci, il mio camminare in stazione e prendere il treno, eccetera. Basta che io voglia il fine e con il fine tutti gli atti che si ordinano al medesimo. Quindi tutte le altre azioni saranno ovviamente volontarie, anche se non volute una per una. Saranno volute assieme al fine, che è voluto principalmente.

Questa mi pare una distinzione abbastanza importante. Non c’è bisogno che l’azione[3]. L’azione è volontaria anche se non è essa stessa oggetto di volontà, cioè voluta. Importante però è che sia voluto l’oggetto da raggiungere tramite l’azione. In tal caso l’azione pure entra nella volontà, ma non come oggetto, bensì come qualcosa di dipendente dall’oggetto, qualcosa tramite cui, un quo, la volontà si propone di raggiungere ciò che essa vuole. Prego.

… vale anche per i fini intermedi …

Sì. Cioè vale in genere praticamente, per ogni fine in quanto è fine

… fine ultimo …

Sì. Sì. Esatto. Cioè, naturalmente talvolta può diventare oggetto un fine particolare. E’ chiaro. In tal caso ovviamente io voglio questo oggetto particolare, sperando che a sua volta lo voglia poi in vista del fine ultimo. Però è chiaro che ogni bene, in quanto è bene, può diventare un oggetto della mia volontà.

Però, può succedere che io faccia oggetto della mia volontà un fine superiore inquadrando in esso i fini inferiori. E se elicito per esempio un atto di amore del fine ultimo, di Dio, appunto, in tal caso ovviamente in quell’atto supremo di amare Dio, se non è una pura velleità, ma vera volontà, sono impliciti tutti gli atti con i quali io mi propongo di onorare, lodare ed amare appunto Dio in concreto. Prego.

… sono … fine ultimo …

Sì. Sì. Sì. Questo è un punto molto importante. Cioè praticamente si può dire che c’è un qualche cosa che fa parte della stessa sinderesi, come abbiamo visto, sinderesi, che è l’abito dei primi principi dell’intelletto pratico. Questo abito dei primi principi ovviamente contiene il principio di finalità, il principio del fine ultimo, insomma. Per esempio, l’assioma, che è un vero e proprio assioma pratico, che tutte le azioni siano da ordinare al fine ultimo, fa parte della sinderesi.

Però, assieme a questo principio del fine ultimo, ci sono nella sinderesi tutte quelle finalità particolari, che sono strettamente connesse con la natura del soggetto operante, il quale ovviamente in questo caso è l’uomo. Quindi ci sono tutte le finalità connaturali del soggetto operante, che non dipendono ovviamente dal soggetto operante, ma che fanno parte di quella che il Pontefice chiama la verità dell’uomo.

Ciò che secondo verità appartiene a me come perfezione, tutto questo è in connessione con il fine ultimo, proprio perchè è stato promulgato dall’Autore della stessa natura umana, e si connette con il discorso della legge naturale. Cioè il Creatore dell’uomo, il Datore dell’essere all’essenza umana, è il determinatore, per così dire, della stessa essenza umana, ha immesso a quella essenza determinate finalità che ne fanno parte e che sono un riflesso della volontà stessa del Creatore, della volontà creatrice.

Fine Seconda Parte (2/3)

P.Tomas Tyn, OP

Trascrizione da audio di:
Prima parte (A) Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 16 febbraio 2014 e
Seconda parte (B) Amelia Monesi – Bologna, 1987
Testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli, OP - Varazze, 25 luglio 2015

L’uomo certamente conosce il fine e lo conosce in quanto è fine, però non determina il fine.

Cioè il mio fine ultimo, cioè che io in Dio abbia il mio fine ultimo vero, questo non lo determino. Però lo conosco e lo conosco proprio nella sua ratio finis. Un animale, anche il cagnolino, il gatto, ha il suo fine ultimo in Dio, ma non lo sa, poverino. Cioè lui sa, conosce i fini particolari, ma non conosce nè la ratio finis, cioè la ragione formale di fine, nè l’identità concreta della ratio finis con quel vero unico fine ultimo, che è Dio.

Questo è dato solo all’uomo. Quindi, l’uomo conosce il fine ultimo nella sua ratio finis, l’uomo in qualche modo si impadronisce dell’essenza del fine ultimo, nella sua essenzialità, ma non determina la sua essenzialità. Abbiamo il dominio del conoscere l’essenza, ma non del dare l’essere all’essenza.


Il primo obbligo è quello di conoscere il vero fine ultimo. E’ proprio questa l’unica opzione fondamentale che San Tommaso ammette. Cioè dice che, quando uno giunge all’età di ragione, quando pone il primo atto morale, deve ordinare tutta la sua vita; se non lo fa, è già nel male. Cioè il primo dovere, è la impostazione globale della propria vita. 

Non c’è dubbio che l’uomo non determina il fine ultimo. Però lo afferra conoscitivamente. Questo è interessante, il Signore mi perdoni, ma noi veramente imitiamo Dio, ovviamente non entitativamente, perché Lui solo è la pienezza di essere, noi siamo creature limitatissime, abbiamo un’essenza che non è essere, ma abbiamo un’anima che conoscitivamente è ogni essere.

Si potrebbe dire addirittura, in qualche modo, che la nostra anima dà l’esse cognitum alle essenze. Vedete come imita la creazione divina, ma è una imitazione per modo di dire, perchè solo Dio è il datore dell’atto di essere. La mente, l’intelletto, dà l’atto di essere, ma non l’atto di essere esterno, reale, fisico, bensì l’atto di essere nella mente, nella conoscenza, la rappresentazione intenzionale.

Confondere questi due ordini, come fa appunto il soggettivismo, significa arrivare coerentemente all’ateismo.


 

Se qualcuno è interessato ad approfondire, adesso citerò me stesso. Una volta tanto, si può fare. Dunque, se qualcuno è interessato ad approfondire l’argomento, su Sacra Dottrina n.89 del 1979, I fascicolo, trova un articoletto del sottoscritto, la Tertia pars della Tesi di laurea, dove ho cercato appunto di approfondire questa condizione del libero arbitrio sottoposto all’influsso della premozione fisica e della grazia attuale.

Cf. http://www.arpato.org/bibliografia.htm

http://www.arpato.org/testi/tesi/Tesi_di_dottorato.pdf 

Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP


 

 

Immagini da Internet:
- Il suo unico amico, Briton Rivière
- Ragazzo con cane, Pablo Picasso

[1] Anche la concezione rahneriana dell’uomo come spirito autotrascendente verso Dio, entra in questo atteggiamento, perché qui Dio non è trascendente, ma è l’orizzonte della trascendenza umana.

[2] Se uno non riconosce Dio come oggetto di contemplazione distinto da sé, a cui posso avvicinarmi per contatto intellettivo.

[3] Sottinteso: sia voluta come tale.

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