La dottrina
del merito in Lutero
Negare il
merito soprannaturale è peccato contro lo Spirito Santo
Un concetto essenziale della dottrina
cattolica è quello del merito soprannaturale, che è quel meritare in grazia o
per impulso della grazia, che ci rende degni della vita eterna, come di premio
per le buone opere; un merito, dono della grazia, col quale meritiamo la vita
eterna. E per contrasto esiste anche un merito, col quale, morendo in peccato mortale
privi della grazia, meritiamo per sola colpa nostra il castigo eterno
dell’inferno a causa delle cattive opere compiute, quindi senza la grazia
divina.
Benchè però il merito al paradiso sia dono di
Dio, non per questo noi non dobbiamo impiegare tutte le nostre forze rimaste
sane dopo la caduta originale, per corrispondere alla grazia ricevuta, come è
suggerito dal Vangelo stesso, per
procurarci, con ogni buona volontà e sforzo ascetico, il maggior numero di
meriti possibile, e «accumulare tesori nei cieli» (Mt 6,19), col trafficare al
massimo i talenti ricevuti, giacchè, quanto più avremo da essi ottenuto, tanto
maggiore sarà il premio celeste, benché ciò a cui miriamo facendo il bene, non
dev’essere tanto il premio, quanto piuttosto il poter raggiungere la visione
beatifica e l’unione con Dio in cielo. Non dobbiamo infatti tanto pensare a ciò
che spetta a noi, benché ciò sia doveroso, quanto piuttosto a chi è Dio in Se
stesso, alla sua infinita bontà, e a ciò
che Egli vuol fare e fa in noi: «fecit mihi magna, Qui potens est».
Nel 1536 il Principe Giovanni Federico di
Sassonia, protettore di Lutero, in vista della Dieta dei Protestanti a
Smalcalda, chiese a Lutero di redigere uno scritto dogmatico contenente i punti
fondamentali ed irrinunciabili del suo pensiero. Lutero rispose con uno scritto
in 21 punti, tra i quali figura il seguente:
«Tutti siamo peccatori e giustifichiamo senza alcun merito nostro. … Da questo articolo
non è possibile allontanarsi né cedere di un passo, anche se sprofondassero cielo
e terra. … Su questo articolo si fonda tutto
quanto insegniamo e viviamo contro il papa, il demonio e il mondo»[1].
E difatti, ancor oggi i luterani sono rimasti
fedeli alla consegna del Riformatore, tanto che questa negazione del merito compare
addirittura in un documento della Santa Sede: la Dichiarazione congiunta sulla
dottrina della giustificazione tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana
Mondiale[2], nella quale,
come vedremo, gli autori cattolici del documento si associano ai luterani nel negare
il valore giustificatorio del merito.
Ora, è chiaro che tale documento non ha nessun
valore magisteriale, ma solo consultivo. Ma proprio per questo, sorprende e può
creare confusione il fatto che gli ignoti autori trattino di una materia delicatissima,
di per sè relativa al dogma, al di fuori dell’autorità pontificia, anche se è
in gioco un organismo della S.Sede.
Si tratta di semplici proposte. Alla fine del
documento sta scritto che «la Chiesa cattolica conferma la Dichiarazione». La conferma nella persona di chi? Non è detto. Manca
in questo documento la specificazione del
nome e quindi del grado di autorità di chi lo ha autorizzato. Qual è il suo
valore giuridico?
Inoltre, l’uso dell’espressione «Chiesa
cattolica» qui è inadeguato e improprio, quindi giuridicamente inconsistente.
Giacchè, che cosa s’intende qui con tale espressione? Non certo il Magistero
della Chiesa, perché in tal caso dovrebbe esserci la firma o del Papa o almeno
del Prefetto di una Congregazione Romana,
per esempio la CDF, cosa del tutto assente.
Resta quindi che questo termine astratto
«Chiesa», finisce per essere vuoto di contenuto. Questo documento è quindi un
aborto giuridico e meraviglia come S.Giovanni Paolo II ne abbia autorizzato la
pubblicazione, ammesso che lo abbia fatto. Ha infatti tutto l’aspetto di essere
un colpo di mano, quasi ad insaputa del Papa, un sotterfugio quindi disonesto, che
non concorda affatto col limpido ecumenismo di Giovanni Paolo II, che non si è
mai sognato di negare i meriti, e
purtroppo getta discredito sulla S.Sede e non favorisce ma ostacola il vero ecumenismo.
Ricordiamo d’altra parte una cosa ben più
seria e cioè che il Catechismo di
S.Pio X pone la «presunzione di salvarsi senza merito» tra i peccati contro lo Spirito Santo. Per
quale motivo una nota così grave? Perché peccato contro lo Spirito Santo?
Perché Egli è lo Spirito della verità, dell’onestà, della pietà, e della
santità. Ed è menzognero, non onesto,
non è santo e non è pio pretendere di ricevere la misericordia di Dio rifiutandosi
di fare il possibile per emendarsi o giudicandolo impossibile o ipocrita. Vale
a dire rifiutandosi di acquistare meriti.
La fiducia nella sola misericordia divina non
dev’essere intesa e praticata senza curarsi di operare attivamente per il
proprio emendamento e non dev’essere un pretesto per negare la possibilità e il
dovere di meritare con le opere la benevolenza del Signore. Se ci pare di
essere privi di meriti, non dobbiamo adagiarci in questa falsa umiltà, che in
realtà è pigrizia ed accidia, ma scuotiamoci dal torpore ed impegniamoci ad
acquistarli, mettendo a frutto i doni che Dio ci ha dato. È falsa umiltà quella
di chi dice di non valere nulla e di non poter fare nulla di buono. È invece la
infingardaggine di chi vuol mangiare ad ufo alla mensa del Signore.
Il peccato contro lo Spirito Santo è tra i
peggiori che esistano. Si tratta quindi di un’accusa gravissima contro Lutero. L’ecumenismo,
se vuole essere sincero e fruttuoso, non può non tener conto di questo severo avvertimento
del Santo Pontefice. E quindi deve fare tutto il possibile per tenere i
fratelli separati lontano da tale tremendo peccato.
Il fattore
fondamentale della ribellione di Lutero al Papa
Sappiamo
come Lutero fu devoto dello Spirito Santo: ma questa fu vera devozione o fu un
pretesto per sottrarsi all’obbedienza ai suoi Superiori ed al Sommo Pontefice?
Era l’umiltà di chi si mette a disposizione dello Spirito o era la presunzione di
saperne più del Papa? Il principio del sola
Scriptura fu veramente docilità allo Spirito ed alla Parola di Dio o
pretesa di interpretare la Scrittura indipendentemente dall’assoggettarsi alla
guida di coloro che lo Spirito ha costituto apostoli e maestri, ossia il
magistero della Chiesa e quindi la Chiesa stessa?
Tocchiamo dunque qui il fattore originario
della ribellione di Lutero alla dottrina cattolica. Perché S.Pio X parla di presunzione? Ne parla come ne parla il
Concilio di Trento, laddove, trattandosi della remissione gratuita dei peccati
grazie alla divina misericordia, afferma che «bisogna dire che a nessuno è
consentito di vantare fiducia e certezza della remissione dei propri peccati, con
l’idea che i peccati siano rimessi o siano stati rimessi appoggiandosi solo
sulla misericordia»[3]. Ma,
sottintende il Concilio, come dice altrove, occorrono anche i meriti della
penitenza, delle opere soddisfattorie e della conversione. Si tratta, dice il Concilio[4],
di una «fiducia priva di qualunque pietà»[5].
Ci possiamo però domandare: ma i discepoli di
Lutero nei secoli seguenti fino ad oggi e lo stesso Lutero, si sono resi conto
e si rendono conto di commettere un peccato così enorme? Sta di fatto che il concetto
di merito naturale è uno dei concetti fondamentali della morale, un concetto
primitivo e spontaneo, ineliminabili dalla coscienza morale anche più perversa.
Caso mai vien applicato ad obbiettivi meramente terreni ed umani; ma tutti
sanno cosa vuol dire meritare e sanno che è possibile meritare nel bene. Il
difficile è capire cosa vuol dire meritare davanti a Dio e se ciò è possibile.
Ma questo, in fin dei conti, è difficile anche per i cattolici. Come accordare
la grazia col libero arbitrio, quindi col merito? Come può una medesima cosa
essere ad un tempo gratuita e guadagnata? La famosa controversia De auxiliis che pure nacque pochi
decenni dopo le chiarificazioni del Concilio di Trento, alla fine del ’500, tra
Domenicani e Gesuiti, dimostra la complessità del problema e l’oscurità del mistero.
Se dunque la negazione cosciente e deliberata
del merito soprannaturale è in sé grave peccato, occorre però essere comprensivi soprattutto con i
protestanti, magari sviati da false filosofie, che non dispongono della
lucidità della dottrina cattolica con gli sviluppi e chiarificazioni del
magistero pontificio, della teologia scolastica e degli studi biblici fino ai
nostri giorni. Essere comprensivi, però, non può voler dire cedere agli errori
di Lutero. Uno sforzo proficuo, semmai, del moderno ecumenismo è quello di
mostrare che certe tesi di Lutero, espresse in un linguaggi inappropriato, si
possono interpretare in senso cattolico.
La posizione
di Lutero
Lutero
aveva presente il fatto che Dio è misericordioso e ci dà i suoi doni
indipendentemente dai nostri meriti; ma non teneva conto del fatto che Egli è anche
giusto, ossia rimuneratore delle nostre opere, buone o cattive che siano, secondo
giustizia.
E questa lacuna dipendeva dal fatto che Lutero
intendeva la gratuità della grazia non come gratuità condizionata dalle opere,
come invece insegna il Vangelo, ma tale da non essere assolutamente condizionata
da esse. Ora, se così fosse, come avrebbe potuto Cristo, parlando col giovane
ricco, dirgli: «se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17)?
È infatti come dire: tu entrerai nella vita eterna, a condizione che tu osservi
i comandamenti.
Inoltre Cristo paragona il cristiano a un
«operaio» (Mt 9,37), il quale, al termine del lavoro pattuito, che si suppone
ben fatto, merita, ossia ha diritto a ricevere una giusta paga per obbligo di
giustizia da parte del padrone[6].
Certo, Dio non ha obblighi verso nessuno. Tuttavia, Egli ha voluto stipulare
prima con Israele per mezzo di Mosè e poi per mezzo di suo Figlio con l’intera
umanità, un patto o un’alleanza sul modello di un contratto di lavoro: «tu fa’ questo
e, se lo fai, io ti darò una paga». Dio, quindi, si è come obbligato con Se
stesso ed è fedele ai patti ed alle promesse. È l’uomo, che, purtroppo, non è
fedele.
Lutero accoglie il concetto paolino della
predestinazione alla salvezza (Rm 8, 28-30), per cui riconosce giustamente che chi
si salva, si salva perchè è predestinato, ossia perchè Dio vuol salvarlo e, se vuol
salvarlo, non può non salvarsi. Questo è vero. Tuttavia Lutero non capisce che
l’atto umano col quale l’uomo si salva, è un atto del libero arbitrio e perciò
meritorio, causato dalla volontà divina, che è la causa prima creatrice e
motrice di tutti gli atti del libero arbitrio delle creature[7].
Siccome poi Lutero, come è noto, non
riconosce il libero arbitrio in ordine alla salvezza, non vuol riconoscere che
è in potere di ciascuno accogliere o rifiutare la grazia. La predestinazione,
quindi, per lui, non suppone e non causa la libera scelta dell’uomo, ma destina
l’uomo alla salvezza o alla perdizione, indipendentemente da quello che l’uomo vuole
o fa. Quindi chi va in paradiso o all’inferno, non ci va perchè lo merita, ma
perché Dio vuole così.
Lutero non nega il premio e il castigo
eterni, il paradiso e l’inferno. Solo che sostiene che chi si salva e chi si
danna non si salva o si danna perché ha compiuto liberamente, per scelta
deliberata e responsabile e quindi atto meritevole, opere rispettivamente buone
o cattive, ma perchè è predestinato da Dio. A chi Dio dà la grazia, si salva; a
chi non la dà, non si salva. Le opere buone non c’entrano, perché comunque sono
tutti peccati.
La dottrina
cattolica
Invece,
che cosa vuol dire per la dottrina
cattolica che la grazia è gratuita? Non significa che il regno di Dio non sia
frutto di una nostra conquista e che non dobbiamo acquistare meriti per
ottenerlo o che non sia il premio delle buone opere, ma che la salvezza è congiuntamente effetto e della
grazia e delle opere. Dio ci dona gratis quello che da soli non potremmo
ottenere. Ma noi dobbiamo fare ciò che entra nelle nostre forze. Non possiamo
pretendere di conquistare ciò che supera le nostre forze; e non possiamo
pretendere di avere gratis ciò che possiamo ottenere da soli.
La giustizia di Cristo si congiunge con la
nostra. Occorre questa e quella. Come dice S.Agostino: «Chi ti crea senza di te,
non ti salva senza di te». Invece per Lutero, qui poco agostiniano, Dio salva e
danna senza di noi. Si deve dire, al contrario, che Cristo non sostituisce, ma si
aggiunge a quello che noi facciamo e lo porta a compimento. Gratia naturam non destruit, sed perficit,
come dice S.Tommaso. Né una natura malvagia può cooperare con la grazia.
La nostra giustizia, infatti, con la quale
siamo giustificati o diventiamo giusti, dice il Concilio di Trento, è la nostra
ed è ad un tempo quella di Cristo. Non che le sia identica, il che sarebbe
divinizzare l’umano o ridurre il divino all’umano. Infatti, dice il Concilio, «non
è la nostra propria come se venisse da noi o come fosse stabilita da noi (propria nostra iustitia tamquam ex nobis propria statuitur)» - e
in ciò si dà ragione a Lutero -, «né si ignora o si ripudia la giustizia
divina, perché, grazie ad essa a noi inerente» - e qui si dà torto a Lutero, che la considera
estrinseca (aliena) - , «siamo
giustificati, ma è la medesima giustizia divina, perché è infusa da Dio in noi
grazie al merito di Cristo»[8].
Dice ancora il Concilio: «A coloro che
sperano in Dio si deve proporre la vita eterna e come grazia misericordiosamente promessa ai figli di Dio per mezzo di
Cristo, e come mercede, da rendersi in
forza della stessa promessa di Dio alle loro buone opere e meriti. Questa, infatti,
è la corona di giustizia, che dopo il suo combattimento e la sua corsa
l’Apostolo diceva esser preparata per lui (II Tm 4, 7s)»[9]. Ancora: «Cristo infonde intimamente la sua virtù
negli stessi giustificati, la quale virtù sempre precede, accompagna e segue le
loro opere buone e senza la quale in nessun modo esse potrebbero essere grate a
Dio e meritorie»[10].
Invece, per Lutero la nostra è una falsa
giustizia; per cui, se siamo giusti, questa giustizia non è la nostra, ma è
quella di Cristo. Anche facendo nostra la giustizia di Cristo, per Lutero essa
non può diventare nostra, perché noi per conto nostro siamo ingiusti e restiamo
ingiusti. Ci si potrebbe chiedere allora: che cosa conta che Cristo sia giusto, se noi restiamo
ingiusti? Che giustificazione è mai questa? Un ingiusto può andare all’inferno;
ma come può andare in paradiso?
Quello che manca a Lutero è il concetto del
merito soprannaturale. Ciò dipende più in radice dal fatto che gli manca il concetto
stesso del merito, a causa della sua concezione della volontà umana, che dopo
il peccato originale, secondo lui è in questa vita schiava del peccato in modo talmente
grave, che, come dichiara in una delle proposizioni condannate da Leone X, «in
ogni opera buona l’uomo pecca»[11];
«l’uomo, mentre fa ciò che è in lui, pecca mortalmente»[12].
Solo in paradiso l’uomo sarà libero dal
peccato. Invece, finchè è in questa vita mortale, l’uomo è peccatore, anche il santo.
Ma ciò, se inteso bene, è vero, ossia nel senso che l’uomo conserva la tendenza a peccare, la cosiddetta
«concupiscenza»; ma questa, precisa il Concilio di Trento non vuol dire ancora
che l’uomo sia sempre attualmente in
peccato[13].
Il concetto
di merito
Infatti il merito, in generale, è quello
stato morale della libera volontà della creatura, per il quale ad essa è
dovuto, da parte di un rimuneratore, secondo giustizia, un premio o un castigo
per un comportamento rispettivamente buono o cattivo. Il termine merito deriva dal latino meritum, concetto fondamentale dell’etica romana, perfettamente conscia del
fatto che l’uomo possiede il libero arbitrio, per cui, con le sue azioni buone o
cattive può meritare rispettivamente il premio come il castigo.
L’etica romana concepisce pertanto il merito
in modo esatto; e per questo il concetto, dovutamente adattato al rapporto
della grazia e del peccato col libero arbitrio, è entrato nell’uso della Chiesa
sin dall’epoca dei Padri, è diventato una delle nozioni fondamentali delle teologia
morale ed è stato dogmatizzato dallo stesso Concilio di Trento. S.Tommaso ne
tratta nella Summa Theologiae[14].
È interessante, al riguardo, la distinzione
che Tommaso fa tra la perseverantia
gloriae, che riguarda il termine della vita presente, ossia la vita eterna,
il premio celeste; e la perseverantia
viae, che riguarda il suo percorso o svolgimento attuale. Ebbene, mentre la
vita eterna può essere meritata, in quanto essa è il termine dell’attività del libro arbitrio, ovviamente sostenuto
dalla grazia (gratia cooperans vel
consequens), l’attività del libero arbitro nel corso della vita terrena ha
nella grazia il suo principio e la
sua causa, è puro dono della grazia (gratia
operans sive praeveniens) e non si può meritare, perché è il principio del
meritare.
E per questo, precisa S.Tommaso, mentre
possiamo meritare il paradiso, non possiamo meritare il perseverare fino a giungervi; ma si tratta di un dono di Dio, che dev’essere chiesto
insistentemente nella preghiera. Da qui segue un’importante conclusione, e cioè
che, come insegna il Concilio di Trento[15],
noi possiamo e dobbiamo sperare di
essere nel numero dei predestinati operando ogni giorno il bene; ma non ne
possiamo esser certi come fosse una verità di fede, cosa che invece Lutero
faceva. Egli dunque ebbe ragione nel negare che occorresse il merito per la
perseveranza finale; ma sbagliò nel negare che fosse necessario per ottenere
il premio eterno.
Il merito del quale parla la dottrina
cattolica è il merito soprannaturale, che suppone nell’agente lo stato di
grazia. Solo così ciò che è meritato, ossia l’aumento della grazia e la vita eterna,
può essere oggetto del merito, che diversamente non sarebbe proporzionato. Ma
anche così, bisogna stare attenti a non fare un paragone troppo stretto fra il
meritare umano davanti ad un uomo e il meritare soprannaturale davanti a Dio.
Chi merita la nostra salvezza, a rigor di termini
e in senso stretto e proporzionato (de
condigno), è certamente solo Cristo, grazie ai suoi meriti infiniti di Figlio
di Dio. Su questo punto Lutero ha ragione. Ha invece torto nel negare che anche
noi, sebbene senza piena proporzione, ma solo per misericordiosa concessione
divina (de congruo), possiamo, con le
nostre buone opere e il nostro cammino di conversione di penitenza, in Cristo,
per Cristo e con Cristo, collaborare attivamente ed indispensabilmente alla nostra
salvezza.
Non possiamo dire pertanto con Lutero –
sarebbe troppo comodo - che, siccome Cristo ha pagato sufficientemente per noi,
allora noi non abbiamo niente da fare per la nostra salvezza, anche perchè la
fede ci assicura che ci salveremo. Non abbiamo quindi nulla da espiare, nulla
di cui si debba fare penitenza, perché tanto continuiamo a peccare, ma
eventualmente dobbiamo curare gli affari del mondo, mentre le nostre opere, che
sono solo peccati, ai fini della salvezza non contano nulla.
Occorre allora osservare a Lutero che è ovvio
che l’opera di Cristo è sufficiente per la nostra salvezza e ne avanza. Tuttavia,
quando Paolo ci esorta a collaborare con Cristo per la nostra salvezza (I Cor
3,9 e II Cor 6,1), non pretende che noi aggiungiamo alcunchè – che cosa infatti
potremmo aggiungere ad un’opera divina? - a quanto ha fatto e patito Cristo, ma
solo di imitare i suoi esempi, e di partecipare alla sua Croce ed ai suoi meriti.
O, se
vogliamo, possiamo dire ancora con S.Paolo: «completo nella mia carne quanto
manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24), in quanto evidentemente Cristo, benchè abbia, nella sua scienza
infusa, conosciuto, capito, compatito e
fatti propri tutti i dolori dell’umanità, non ha di fatto patito nella
sua individualità empirica tutta l’infinità di mali che affliggono la nostra
povera umanità, ma, nel campo delle sofferenze fisiche, ha sentito solo, per
quanto acerbissime, le pene della croce. Cristo però non ha sofferto né del morbo
di Parkinson, né del morbo di Alzheimer, né di demenza senile. E se Lutero riconosce
giustamente che allo stato di grazia seguono le opere, sbaglia però nel negare che
le opere fatte in grazia meritino l’aumento della grazia e la salvezza.
Infatti, ciò che Dio ci dona resta infinitamente
al di sopra di ciò che noi, anche in stato di grazia, possiamo effettivamente
ottenere con i nostri meriti e la nostra
buona volontà. Egli infatti ci viene incontro e ci previene ancor prima che
possiamo meritare e mentre noi siamo ancora ribelli a Lui. Muta i nostri cuori
e li induce al pentimento. Muta la nostra volontà da cattiva a buona. E
tuttavia, il cuore nuovo che causa in noi è quello che passa dal peccato alla
giustizia, perché liberato dal peccato dalla Passione di Cristo.
L’errore e
la verità di Lutero
Lutero, troppo impressionato dalle
conseguenze del peccato originale, non riesce a capire che la vita cristiana è,
grazie a Cristo, alle buone opere, alla Chiesa, ed ai sacramenti, un graduale
recupero, sia pur in uno stato di natura decaduta, dell’innocenza edenica ed
anzi un anticipo e una pregustazione della
futura resurrezione.
Il protestante non conosce il gusto
dell’unione della sua volontà con quella divina, perché secondo lui la sua volontà
resta sempre cattiva, prigioniera del peccato («servo arbitrio»). Merita
l’inferno, eppure Dio lo perdona senza meriti buoni. Ma come è possibile? Come
si può essere ribelli a Dio, disobbedire alla sua legge ed essere salvati? Neppure
il protestante, per la verità, è del
tutto convinto e non potrebbe assolutamente esserlo, perchè un’assurdità. Citare
la «Parola di Dio» un’impostura. Sente, allora, che c’è qualcosa che non va; ma
non molla.
Per questo, come appare dalla storia della spiritualità
protestante, a differenza della solarità, limpidezza, coerenza e serenità della
spiritualità cattolica, che unisce fiducia e timor di Dio, umiltà e coraggio, resta
sempre al fondo della spavalda certezza luterana, il ripiegamento su di sè, la sensazione
di un ineliminabile senso di colpa (il peccatum
permanens), il tarlo del dubbio, il tormento dell’angoscia. La coscienza lo
rimorde, ma non importa: Cristo gli ha promesso di salvarlo, lui ci crede e
Cristo non può mancare alle promesse. Vuol forse mancare di fiducia in Cristo?
Invece nella gioia, entusiasmo ed
estroversione luterani, facilmente sfocianti in
un’attività frenetica, resta
sempre un’aria di malinconia per qualcosa di anelato ma irraggiungibile, di
eternamente insoddisfacente, o di irrimediabilmente perduto, in uno sfondo
tempestoso, tragico e cupo. Ciò appare chiarissimo nel Romanticismo tedesco.
Riguardo all’azione divina della
giustificazione, è da notare che Dio, ben lungi dal coartare o necessitare il nostro
volere, cosa assurda perché il volere è per sua natura libero, lo crea e lo
causa proprio nella sua libertà, crea
la sua stessa libertà. L’atto del libero arbitrio è creato e mosso da Dio, anche
quando l’uomo pecca, benchè la colpa sia solo dell’uomo. È vero che noi, nella
nostra fragilità, ricadiamo sempre di nuovo nel peccato, almeno veniale. Ma
Egli non si stanca mai di offrirci il perdono.
Lutero ha ragione nel dire che l’iniziativa
dell’opera della giustificazione e della salvezza non appartiene all’uomo, che,
dopo il peccato originale ha perduto la grazia e si trova in uno stato di
ribellione a Dio, senza volere e senza tentare di tornare a Lui, ma ripiegato
sul suo orgoglio ed attratto dalle cose del mondo, come se in esse potesse
trovare la sua felicità. L’iniziativa allora appartiene a Dio, che offre a
tutti la grazia del perdono e della salvezza, stimolando alle opere buone.
Lutero, allora, in Rm 3,21, distingue bene la
giustizia di Dio, in quanto giustificante, dalla giustizia rimuneratrice, che
premia i buoni e castiga i malvagi. Ed osserva che lì S.Paolo si riferisce alla
prima e non alla seconda. Questa è il compenso per i meriti; quella è
misericordia che non suppone alcun merito. A questo punto però Lutero erra,
perché in nome della misericordia respinge la giustizia retributiva ed
eventualmente punitrice in base ai meriti.
Invece la vera giustificazione operata da Dio
comporta l’iniziativa divina, che suscita il volere e l’operare (cf Fil 2,13),
spingendo l’uomo a compiere liberamente e responsabilmente le opere della salvezza
e con ciò stesso a farsi dei meriti in ordine ad essa. L’azione divina, quindi,
non esclude affatto il merito dell’uomo, ma lo suscita.
Lutero,
invece, con la sua negazione dei meriti, non tien conto del fatto che è la stessa Scrittura
che ci autorizza a parlarne, anche se essa lo fa esplicitamente solo due volte
e nell’Antico Testamento (Sir 44,10 e 10,31). Ma molte sue importanti espressioni,
come il remunerare, il compensare, il pagare, il premiare o castigare, il rendere
secondo le proprie opere, il comandare o proibire, l’esortare o il minacciare,
l’invito a scegliere tra Dio e gli dèi fanno chiaramente intendere che
sarebbero incomprensibili, se l’uomo non potesse meritare anche davanti a Dio.
Anche il comando di non presentarsi davanti al Signore a mani vuote è una
chiara allusione al dovere di offrirgli sacrifici e farsi dei meriti (Es 23,15;
Dt 16,16; Sir 35,4).
La Dichiarazione sulla Giustificazione
La Dichiarazione
sulla Giustificazione sbaglia nella sua negazione sic et simpliciter della necessità del merito, senza fare le dovute
distinzioni come le ho proposte qui. Essa infatti afferma che «siamo accettati
da Dio non in base ai nostri meriti» (n.15), che noi «non possiamo mai e in nessun
modo meritare la nostra vita nuova» (n.17); e che «la vita eterna è un salario
immeritato» (n.39) – allora che salario è? -.
Quanto alla tesi che «la giustificazione
resta un dono immeritato della grazia» (n.38), questo è vero rispetto all’inizio della giustificazione, nel senso,
come riconosce il Concilio di Trento - e qui Lutero ha ragione – che «nessuna di
quelle cose che precedono la giustificazione, sia la fede che le opere, merita
la grazia della giustificazione: “se lo è per grazia, non lo è per le opere;
altrimenti – come dice l’Apostolo (Rm 11,6) – la grazia non è grazia”»[16].
Ma il compimento della
giustificazione, ossia la vita eterna, è
oggetto del merito. E qui Lutero ha torto. Il documento dovrebbe distinguere e
non lo fa, creando confusione.
E così esso sembra far propria l’eresia
luterana, condannata dal Concilio di Trento, invece di correggerla, come avrebbe
dovuto. A che vale allora accordarsi con i fratelli separati nel medesimo
errore? Sarebbe questo il dialogo ecumenico? A che cosa esso vale, se non
cerchiamo di persuadere i fratelli separati a correggersi dai loro errori
perché possano entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica?[17].
A questo punto bisogna dire con franchezza
che, tutto sommato, con riferimento alle citazioni che ho fatto, hanno maggior valore
ecumenico le critiche del Concilio di Trento a Lutero, che non gli ambigui
discorsi della Dichiarazione, i
quali, anche letti con le migliori intenzioni, confermano al massimo elementi
positivi già noti della teologia luterana, come per esempio la grazia come
sorgente delle buone opere o la giustificazione e la salvezza come opere della
divina misericordia. Ma mancano del tutto le correzioni che già fece il Concilio
di Trento e che non sono state ancora recepite dai fratelli luterani.
Ci domandiamo, allora, al fine di fare
avanzare il dialogo ecumenico, se non sia il caso di tornare a basarci sul
Concilio di Trento, che pone i termini della discussione con una chiarezza ed
una serietà ben maggiori di quelli posti dalla Dichiarazione, al fine di capire
con certezza e senza equivoci fino a che punto la Chiesa può andar incontro
ai luterani e dove invece occorre che essi, abbandonati i loro errori, pensino
seriamente e finalmente ad entrare a pieno titolo nel seno della Chiesa
cattolica. Questo è il voto stesso dell’Unitatis Redintegratio.
Non credano i luterani che debba essere la
Chiesa a ravvedersi, ma sono loro che umilmente devono decidersi ad abbracciare
la pienezza della verità custodita dalla Chiesa Romana. Le condanne e le
concessioni del Concilio di Trento valgono ancora. Partiamo dalle concessioni
per togliere le condanne correggendo gli errori. I termini della questione,
dopo cinque secoli, sono ancora quelli posti dal Concilio di Trento.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 2 maggio 2019
[1] Cit. da Ricardo García-Villoslada, Martin Lutero,
Istituto Propaganda Libraria, Milano 1987, vol.II, pp.602-603.
[2] del 31 ottobre 1999, a cura del
Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei crstiani.
[3] Denz.1533.
[4]
Denz.1689,1693.
[5] Ibid.
[6] Cf anche Mt 21, 33-44 e 25, 14-30.
[7] Questo rapporto della volontà e
causalità divine col libero arbitrio umano nel processo della giustificazione,
in critica a Lutero, è stato approfondito dal Servo di Dio Padre Tomas Tyn nei
seguenti suoi scritti rintracciabili nel sito arpato.org: Il
confronto tra l’azione divina e gli atti del libero arbitrio nella
giustificazione, in Sacra Doctrina 89 (1979), pp.59-129 3; De gratia
divina et iustificatione. Oppositio inter theologiam Sancti Thomae et Lutheri, Tesi di Licenza in Teologia
dattiloscritta, direttore di tesi P.Alberto Galli, OP, Studio Teologico Domenicano,
Bologna 1976, pp.341; L'azione divina e la libertà umana
nel processo della giustificazione secondo la dpttrina di San Tommaso d'Aquino, Tesi di Dottorato in Teologia dattiloscritta
presso la Pontificia Università San Tommaso d'Aquino, Roma, 1978, pp.300.
[8] Denz.1547.
[9] Denz.1545.
[10] Denz.1546.
[11] Denz.,1481,
n.31.
[12] Denz.,1486,
n.36.
[13] Denz.1515.
[14] I-II.
q.114.
[15] Denz.1540.
[16] Denz.1532.
[17] Unitatis redintegratio,n.3.
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