La stoltezza del dubbio cartesiano - Seconda Parte (2/2)

La stoltezza del dubbio cartesiano  

Seconda Parte (2/2) 

Chi sono io?

La scelta equilibrata sarebbe stata la concezione aristotelica del composto umano, fatta propria dalla Chiesa per il tramite di San Tommaso, e che Cartesio aveva a portata di mano. Ma egli purtroppo, per voler fare l’originale, ancor più saggio della Chiesa, la scarta.

Infatti, accertatosi della propria esistenza, Cartesio si domanda:

 

«Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo: perché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale e che cosa è ragionevole e così da una sola questione cadremmo insensibilmente in un’infinità di altre più difficili ed avviluppate e io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze» (p.82).

È evidente che queste difficoltà che Cartesio oppone al definire se stesso come uomo, animale ragionevole, sono pretestuose, perché Cartesio evidentemente mantiene il dubbio circa l’esistenza dei corpi, il suo corpo e le cose esterne. Egli sa di essere uno spirito, ma non sa di avere un corpo: lo deve dimostrare; quindi non può dire ex abrupto di essere un composto di spirito e corpo. Egli si ritiene certo solo di essere o possedere uno spirito, giacchè evidentemente è solo lo spirito che pensa e può essere cosciente di se stesso.

Tuttavia, questo rifiuto di Cartesio di considerarsi un uomo animale ragionevole è gravido di gravissime conseguenze, che appariranno solo secoli dopo, ma che a Cartesio certamente sfuggono, tutto prigioniero del suo scetticismo riguardante la veracità del senso e gonfio d’orgoglio per la favolosa scoperta del cogito.

Cartesio tutto preso dalla coscienza di essere un io e concentrato su ciò come se esistesse solo il suo io e l’esistenza di tutto il resto fosse da dimostrare sulla base di questa coscienza, si forma dell’io un concetto spropositato, talmente alto, che non si distingue più dall’Io divino. Infatti che cosa è questo io cartesiano? È la famosa res cogitans. Ma ci rendiamo conto esattamente di che cosa vuol dire res cogitans?

Qual è quella sostanza pensante la cui essenza sia l’atto del pensare? È la nòesis noèseos, è il Pensiero autocosciente sussistente di Aristotele! È Dio! Ci rendiamo conto a questo punto per quale motivo Hegel conclude la sua Logica con la citazione del famoso brano di Aristotele, dove appunto lo Stagirita glorifica il Pensiero del Pensiero? Che cosa è infatti la Logica di Hegel se non l’esplicitazione e l’apoteosi panteistica del significato profondo ed ultimo dell’io cartesiano?

È troppo benevolo Maritain quando si ferma a dire che Cartesio confonde l’uomo con l’angelo. No. Egli, pur senza accorgersene e senza volerlo, va ben oltre: egli, come sarà chiaramente dimostrato dagli idealisti tedeschi, pareggia l’uomo a Dio!

Per Cartesio l’io non è un soggetto con la facoltà di pensare, per cui passa dal poter pensare al pensare e dal pensare al non pensare. No, l’io è «una cosa che pensa, cioè uno spirito, un intelletto o una ragione» (p.84). Certo, manca solo un passo: in Cartesio l’uomo è uno spirito, è una ragione. In Hegel, è lo Spirito, è la Ragione.

Ma come Hegel può compiere questo passo? Perché già Cartesio lo autorizzava: può esistere uno spirito che sia una ragione sussistente e un pensare sempre in atto, e che non sia una semplice facoltà di pensare e di ragionare in un soggetto, come è nell’animale ragionevole, senza che questo spirito e questa ragione e questo pensare siano essi stessi Soggetto, siano uno Spirito assoluto, un Pensiero assoluto e una Ragione assoluta come quelli divini?

Adesso comprendiamo qual è stata la ragione, forse inconscia, per cui Cartesio si è rifiutato di ammettere che l’io da lui scoperto è semplicemente il soggetto umano, animale ragionevole. Questo io puro spirito senza corpo, principio e fondamento di tutto il sapere e dal quale viene dedotto tutto l’essere, compreso Dio, come non appare un soggetto che si trova troppo stretto nei limiti della semplice umanità?

Certo, Cartesio non ha l’audacia che avrà Fichte di dire che questo io è l’Io assoluto; tuttavia Cartesio indubbiamente lascia aperta la possibilità di una tale conclusione, perché l’autocoscienza non è il punto d’arrivo della precedente conoscenza delle cose, ma è punto di partenza per determinare la conoscenza delle cose, similmente alla mente divina, la quale,  conoscendo se stessa, forma le idee di tutte le cose. Dio non raccoglie il suo sapere dalle cose, ma dalla sua autocoscienza. Lo stesso fa l’io cartesiano. Come non potrebbe venire in mente di identificarlo con l’Io divino?

Significativo è anche il famosissimo ergo sum come espressione che richiama al biblico Io Sono di Es 3,14. Certo, il sum dell’ergo sum significa io esisto e non necessariamente un essere assoluto. Tuttavia, essendo l’esistere di un io la cui certezza è quella di esistere solo lui, mentre l’esistenza di tutto il resto la deduce da sé, come a questo io così ingigantito non potrebbe venire in mente di farsi Dio?

Certo, Cartesio era convinto che il suo io fosse creato e per questo si preoccupa di dimostrare l’esistenza di Dio; ma siamo daccapo: che cosa vale questa dimostrazione, se, come ritiene Cartesio, l’idea di Dio è innata, chiara e distinta, e se, stando allo stesso Cartesio, basta che un’idea sia chiara e distinta per esser certi che ad essa corrisponda una realtà? Questo Dio esiste indipendentemente dall’idea di Dio o si risolve ad essere un’idea dell’uomo? Kant risponderà per la seconda alternativa. A Kant seguirà Feuerbach, il quale osserverà che se Dio dev’essere un prodotto della mente umana, Dio non esiste o semmai è l’uomo ad essere Dio.

Le cose esterne esistono

Una volta posto il principio del cogito, Cartesio si mette a dimostrare l’esistenza delle cose esterne. Siccome non crede che noi le attingiamo per mezzo dei sensi, ritiene di poterle raggiungere per mezzo delle loro idee. Sono queste le idee «avventizie», che sono le idee «estranee e venute dal di fuori» (p.97). A loro riguardo Cartesio afferma che queste idee «sembrano venire da oggetti posti fuori di me».

Egli pertanto vuole indagare «quali sono le ragioni che mi obbligano a crederle simili a questi oggetti» (p.98), ed è tanta la ritrosia che Cartesio prova nell’ammettere che quelle idee provengono dai sensi, che arriva a dire, precorrendo in ciò lo stesso Kant, che « può essere che in me vi sia qualche facoltà o potenza, adatta a produrre queste idee senza l’aiuto di cose esteriori, benché essa non mi sia ancora conosciuta» (p.99).

Non è dunque l’idea che proviene dal contatto sensibile con la cosa, ma sono le cose che sono dedotte dalla presenza in noi delle loro idee. L’idea è rappresentazione della cosa, ma ciò perchè è dall’idea che si ricava l’esistenza e la natura della cosa. I sensi certamente sono presenti, ma solo come occasioni della conoscenza intellettuale della cosa, non come vere rappresentazioni della cosa ricavate dalla esperienza sensibile della cosa.

Cartesio pertanto insiste nel ritenere che

 

«per un cieco e temerario impulso ho creduto esservi cose al di fuori di me e differenti dal mio essere, che, per gli organi dei miei sensi o per qualsiasi altro mezzo, inviavano le loro idee o immagini e v’imprimevano le loro rassomiglianze» (p.100).

Si nota però che egli non sa veramente che cosa sono le idee delle cose. Ha ragione nel dire che esse non provengono dalle cose, perché in realtà sono formate dall’intelletto, solo che per questa malintesa preoccupazione non capisce che esse, essendo rappresentazioni delle cose, sono ricavate per astrazione dal contatto sensibile con le cose.

Per dimostrare che esistono cose al di fuori dell’io, Cartesio utilizza il principio di causalità. Egli suppone che esistano idee che egli chiama «innate», come se le possedessimo sin dalla nascita, ignorando il fatto che quando noi nasciamo, la nostra mente è vuota di qualunque idea, perché il nostro intelletto non ha ancora cominciato a funzionare.

L’impressione di possedere idee innate sorge dal semplice fatto che le possediamo sin da bambini e le formiamo spontaneamente, senza che ci vengano insegnate, ma per il potere naturale del nostro intelletto, come per esempio l’idea di cosa, bene, male, vero, falso, bello, brutto, grande, del piccolo, vicino, lontano, pesante, leggero, umido, secco, bianco, nero, ecc.

Cartesio è posto in questa condizione assurda di dover dimostrare di non essere solo al mondo, perché l’unica cosa di cui egli è certo è la sua propria esistenza, avendo in precedenza dubitato di tutto. Così succede che egli dedica un intero capitolo della Terza delle Meditazioni Metafisica e nel fare questa pseudodimostrazione nella quale utilizza il principio di causalità, che presuppone l’esistenza delle cose, cioè esattamente quello che deve dimostrare e conclude un intricatissimo discorso con le seguenti parole:

 

«se la realtà oggettiva delle mie idee è tale che io conosca chiaramente che essa non è in me», cioè che non si tratta di idee innate, «né formalmente, né eminentemente e che, per conseguenza, non posso io stesso esserne la causa, segue da ciò necessariamente che io non sono solo nel mondo, ma che vi è ancora qualche altra cosa che esiste e che è causa di questa idea» (p.103).

Cartesio, invece di trovare delle cose dalle quali ricava le idee, trova delle idee, dalle quali vuol ricavare le cose, senza chiedersi come fa a trovare nella propria coscienza delle idee, se non perché le ha ricavate dalle cose. Nel fondare la certezza del sapere, non si tratta di dimostrare che esistono le cose, evidenza palmare per chiunque è sano di mente, ma di dimostrare perché esistono e a che cosa servono le idee.

Cartesio, al termine del suo lavoro di fondazione del sapere giunge ad ammettere l’esistenza delle cose esterne e la veracità del senso e dell’immaginazione, tanto che egli, come è noto, ha avuto intuizioni geniali nel campo della matematica ed è stato il fondatore della fisico-matematica, che è alla base degli immensi progressi scientifici e tecnici della modernità.

Se il senso inganna in quanto distinto dall’intelletto, il senso non inganna più, se, come afferma lo stesso Cartesio, viene identificato con lo stesso sentire, giacchè in base al cogito, il sentire diventa il pensare di sentire. Il sentire è un sentire pensato. Ma allora, se pensare è sentire, sentire è pensare, ed ecco la gnoseologia del sensismo e l’etica del sensualismo, in barba allo sbandierato spiritualismo, che così si rivela essere uno spiritualismo  di facciata.

Ne viene nella prassi che la passione s’identifica con la volontà, il libero arbitrio con la libidine, la libertà con la licenza. Comprendiamo allora come la sbandierata distinzione cartesiana di anima e corpo, principio di un’antropologia dualista ultraspiritualista e in morale rigorista, si capovolge in un’antropologia materialista nella quale il sentire è pensare e lo spirito si risolve nel corpo, con la conseguenza di un’etica edonista, lassista, buonista e libertaria, quale canna sbattuta dal vento.

Pertanto, sebbene il cogito contenga in sé il germe di quell’assolutizzazione dell’io che emergerà chiaramente nell’idealismo tedesco, per il quale le cose esterne non sono veramente esterne, ma sono una creazione del soggetto, Cartesio non pensò di esplicitare queste virtualità contenute nel cogito, per cui a lui non sarebbe mai venuto in mente che l’io possa essere il creatore di tutta la realtà al posto di Dio.

Al contrario, Cartesio riteneva il proprio io come creato da Dio e così pure riteneva le cose esterne come create da Dio e per questo si preoccupò di dimostrare l’esistenza di Dio. Senonchè però egli, forse senza rendersene conto, rivela l’assolutizzazione divina del suo io, quando pretende che tutto, il suo corpo, le cose esterne, l’universo e Dio possono e devono essere dedotti dal cogito.

Senza rendersene conto, Cartesio poneva il suo io come principio e causa di tutto il reale, del mondo e di Dio stesso. Ma Fichte lo capì benissimo e fondò la sua dottrina dell’Io come totalità della realtà proprio esplicitando ciò che è virtualmente contenuto nell’io cartesiano.

Parecchi errori

Nel suo metodo Cartesio commette parecchi errori. Primo, pretende dimostrare ciò che è evidente e dà per evidente ciò che è da dimostrare. Il senso è a contatto diretto con le cose esterne. Non occorre pertanto dimostrare la sua veracità.

La conoscenza non parte dalla coscienza come dato iniziale, una coscienza che apriori pretende di possedere delle idee come oggetti immediati ed originari, con la conseguente domanda se a queste idee corrispondano cose esterne, ma parte dal contatto sensibile con le cose e al fine di conoscerle, ne forma le idee.

La vera esperienza del conoscere sta nel fatto che mi accorgo di conoscere le cose: esse sono in me immaterialmente ciò che in se stesse, fuori di me sono materialmente. Come è possibile ciò?  Per spiegare come ciò avvenga elaboro la teoria delle idee o concetti come rappresentazioni mentali e mezzi intenzionali per cogliere e rappresentare le cose.

Non parto dalle idee di cose esterne, per domandarmi poi come dimostrare che esistono, ma vedo che esistono cose al di fuori di me, davanti a me (ob-jectum), nel luogo, nello spazio e nel tempo e mi domando come faccio ad averle presenti in me. Questa è la vera esperienza del conoscere e queste sono le domande che mi pongo per capire questo mistero.

Viceversa, non è affatto evidente che io parta dalla mia autocoscienza come oggetto originario del mio sapere. Essa certo esiste, ma arriva solo dopo che ho contattato le cose, come riflessione del mio spirito su me stesso, in quanto principio conoscitivo di quelle cose delle cui idee sono cosciente per averle formate a contatto di quelle cose delle quali esse sono rappresentazioni, che ho formato avendo avuto con esse un contatto sensibile.

In secondo luogo, Cartesio confonde il processo del sapere col processo dell’essere. Il processo della nostra conoscenza segue un iter contrario al processo dell’essere. Questo inizia con Dio, il quale crea le cose. Il nostro conoscere inizia con la conoscenza delle cose e passa alla conoscenza di Dio. Cartesio invece pretende cominciare con l’idea di Dio per passare alla conoscenza delle cose.

In terzo luogo Cartesio appiattisce i gradi del sapere al livello del grado più basso, quello della fisica. A Cartesio mancano la nozione analogica dell’essere e il principio della partecipazione, per cui nonostante il suo spiritualismo, il sapere metafisico assume a modello quello matematico dell’univocità, che a sua volta costituisce la forma del sapere fisico-matematico.

La metafisica per lui non ha per oggetto l’ente in quanto ente e le sue proprietà, ma ha per oggetto l’io. Ora invece bisogna osservare che per parlare di metafisica non basta porsi il problema del fondamento della certezza per concludere che io esisto. Semmai questo è il problema della critica della conoscenza, che però non si risolve a questo modo, ma riflettendo sull’esperienza del conoscere e prendendo atto del fatto che se conosco le cose come sono, se le ho presenti nella mia mente, vuol dire che in me esiste un potere di identificarmi intenzionalmente e rappresentativamente mediante idee con le cose, adeguando il mio intelletto al reale. Il che è appunto il potere conoscitivo.

La materia della metafisica va ben al di là dell’autocoscienza e non riguarda neppure, propriamente parlando, il problema dell’esistenza di Dio o dell’immortalità dell’anima, oggetti, questi, piuttosto, rispettivamente della teologia naturale e della psicologia razionale, ma tocca i trascendentali, in rapporto con le categorie, i componenti dell’ente: soggetto-essenza-essere, l’essere e il non-essere, i primi princìpi della ragione speculativa,  i gradi dell’essere, il rapporto dell’uno con i molti, dell’essere col divenire, tutte cose che Cartesio lascia fuori.

È vero che Cartesio distingue l’oggetto della metafisica come res cogitans dall’oggetto della fisica come res extensa, ma poi se la res extensa è un’idea, come l’oggetto della metafisica non si abbasserà a quello della fisica? Vediamo qui già il precorrimento dell’uscita della natura dall’Idea di hegeliana memoria.

Così a Cartesio sfuggono le nozioni più proprie della metafisica, legate alla nozione analogica e partecipativa dell’ente, come la somiglianza, l’alterità, la diversità, la corrispondenza, mentre impone alla metafisica fisicizzata la concettualità matematica, relativa alla quantità, all’estensione, all’uguaglianza, alla formalità, alla negazione, alla misura.

E questo perchè Cartesio non intende la metafisica come vertice sommo del sapere razionale, al terzo grado d’astrazione, ma semplicemente come condizione logica e metodologica di possibilità e legittimità delle scienze fisiche. Per questo, per lui la ragione non parte dal piano della fisica per salire dal grado dell’astrazione primo-seconda fisico-matematica al terzo,  quello della metafisica[1], ma pone la metafisica come semplice premessa e introduzione alle scienze fisiche, quelle che veramente interessano a Cartesio, al fine da lui espressamente dichiarato, di essere «padroni e possessori della natura».

In quarto luogo, la psicologia di Cartesio riconosce l’anima spirituale, ma ignora quella sensitiva degli animali e quella vegetativa delle piante. Ne viene la conseguenza che l’anima umana non è più forma sostanziale del corpo, sicchè la vita infraumana è ridotta al livello della macchina.

In quinto luogo in cosmologia Cartesio fonda il metodo fisico-matematico per lo studio della natura, ma trascura la cosmologia filosofica nel suo valore ontologico[2]. Cartesio trascura il fatto che gli agenti naturali agiscono per un fine.

Egli inoltre delle sei forme del moto elencate da Aristotele: la generazione, la corruzione, l’aumento, la diminuzione, l’alterazione e il moto locale, assume solo quest’ultimo, con mentalità tipicamente matematica e meccanicistica, il moto locale, trascurando i fenomeni della vita.

In sesto luogo in antropologia la ragione umana viene indebitamente sostanzializzata, e assimilata alla ragione divina. Nasce il problema di come una ragione così presuntuosa possa assoggettarsi ad accogliere nella fede la divina rivelazione. Inoltre, l’uomo non si risolve nella ragione, ma lo spirito umano comporta altre dimensioni, legate all’emotività ed alla pura spiritualità.

In settimo luogo, la gnoseologia cartesiana non spiega sufficientemente l’esistenza dell’errore. Che esso possa dipendere da un’imprudenza della volontà, che non sta nei limiti imposti dall’intelletto, questo è vero e lo dice anche S.Tommaso. Ma d’altra parte, come abbiamo visto, una teoria volontarista del conoscere come quella cartesiana, che impone all’intelletto quel che deve pensare, come non verrà ad istituzionalizzare l’errore?

E d’altra parte il criterio delle idee chiare e distinte non basta ad assicurare la verità del conoscere. Io posso infatti avere un’idea chiara di una cosa che non esiste e non per questo sono autorizzato a giudicare che esiste. È il giudizio che si pronuncia sull’esistenza ad essere qualificato a conoscere la verità sulla realtà[3]. Non basta la semplice idea, la semplice intuizione di un’essenza, ma occorre verificare che questa essenza sia concretamente attuata nella realtà esterna.

Anche la distinzione cartesiana fra idee innate, idee fattizie ed idee avventizie non è tale da consentire il raggiungimento della verità, ma illude l’intelletto e lo induce nell’errore, che peraltro non è detto che sia volontario e colpevole, ma può essere anche in buona fede.

A tal riguardo è evidente che in questa distinzione Cartesio confonde l’idea col concetto e riduce ogni concetto ad idea. Esiste effettivamente un pensare che dà origine all’essere, senza per questo arrivare all’idea creatrice divina. Ma anche noi indubbiamente possiamo formare o possedere pensieri dai quali possiamo ricavare una prassi o un prodotto dell’arte.

Sono, queste, propriamente, le idee[4], come già capì Platone. Invece i concetti[5] sono quelli che Platone chiamava immagini (eikòn o eidos) o imitazione (mimesis) dell’idea. Secondo Platone noi, contemplando l’idea, che per lui è entità piena e reale (to pantelòs on), troviamo la perfezione, il modello e il paradigma di ciò che noi con la nostra mente formiamo o immaginiamo, appunto il concetto, come rappresentazione, imitazione e partecipazione mentale imperfetta e fallibile nel nostro spirito di quell’idea trascendente, eterna e divina, che è il principio assoluto oggettivo dell’essere e del pensare.

Tuttavia in ogni caso nel nostro ideare e per poter ideare abbiamo sempre bisogno di partire da una realtà esterna presupposta, non ideata da noi ma da Dio che l’ha creata, per cui il nostro pensare non comincia con l’idea ma col concetto, ossia con la rappresentazione mentale astratta della cosa sensibile esterna.

Sta qui l’errore di Cartesio: nel non sapere che tutte quelle che lui chiamale idee, che però sono i concetti sono avventizie, ossia sono concetti, da noi formati a seguito del contatto sensibile con le cose. Le idee fattizie certo esistono: queste sono idee in senso proprio, ossia formatrici, prodotte da noi sulla base dei concetti trascendentali e categoriali, per plasmare la materia e dirigere la nostra azione morale. 

Quanto alle idee innate, come ho detto, non esistono: si tratta di una raffigurazione ingenua, non scientifica e alla fine falsa del sapere che abbiamo da bambini. Certamente abbiamo sin da allora delle idee e anche almeno implicitamente l’idea di Dio. Ma non si tratta affatto di idee infuse da Dio nella nostra mente all’atto della nascita.

Peggio ancora ha fatto Kant a ontologizzare queste idee come se fossero delle forme del pensare appartenenti all’essenza dell’intelletto, cosa assolutamente falsa, una pura invenzione di Kant per dare all’intelletto un potere creativo che esso non possiede assolutamente.

Questa è pura fantasia che vorrebbe assimilarci agli angeli, che non avendo i sensi, formano le loro idee per pura intuizione dell’essenza delle cose materiali e spirituali, mentre l’idea di Dio se la formano semplicemente per analogia col proprio io cosciente. Ma noi abbiamo i sensi ed è da questi che traiamo, per astrazione dal sensibile, tutte le nostre dee.

Infine è grande la preoccupazione che desta la morale che può discendere dalla filosofia cartesiana. Fondata sul cogito, appare subito come una morale egocentrica, nonostante le sforzo di Cartesio di fornire prove dell’esistenza di Dio e il suo riconoscimento di Dio creatore dell’uomo. Ma un Dio la cui esistenza è dedotta dall’idea di Dio presente in un io, che, trovandosi solo al mondo, sente la necessità di dimostrare in base alle idee innate delle cose, l’esistenza delle cose, un Dio non trovato, quindi come causa dell’esistenza delle cose, ma noto prima di sapere che esistono, è veramente Dio o è un’invenzione della mente di Cartesio? Ora quale obbedienza la volontà potrà prestare a questo Dio più dipendente dalla mente che non la mente dipenda da Lui?

Cartesio dev’essersi reso conto in quali guai si sarebbe cacciato se avesse esplicitato che tipo di morale discendeva dalle sue idee. Così, mentre lavorava alla sua rifondazione della filosofia, dichiarò di ritenere opportuno seguire una «morale provvisoria», vale a dire la corrente morale cattolica, in attesa di quella nuova morale che sarebbe scaturita dai suoi princìpi. Ma questa morale Cartesio non ce l’ha mai presentata.

In conclusione, come è dimostrabile da un’analisi dei filosofi che nei secoli seguenti si sono rifatti a Cartesio, il principio del cogito cartesiano conduce, nella piena esplicitazione delle sue virtualità teoretiche ed intenzioni originarie, a sostituire il proprio io a Dio e quindi all’ateismo e al panteismo, come è dimostrato dalla genesi e dallo sviluppo dell’idealismo tedesco, che non è altro che la manifestazione ultima e conclusiva di quanto è implicitamente contenuto nel cogito, fondato a sua volta sul dubbio o negazione della veracità del senso.

P. Giovanni Cavalcoli 

Fontanellato, 27 giugno 

Propongo questo articolo come risposta a un Lettore, che pochi giorni fa mi aveva scritto:

 Caro Padre Cavalcoli, …

Nel leggere sul Suo blog il Suo articolo intitolato "Gratitudine a San Tommaso", ho appreso che, da ragazzo, Lei rimase turbato dal dubbio cartesiano sulla veracità del senso, e fu poi guarito da un sacerdote che Le fece riacquisire la certezza dell'esistenza del mondo esterno.

Devo confessarLe che, avendo studiato Cartesio, sono stato assalito dallo stesso turbamento che Lei visse da adolescente, e non riesco a venirne fuori. Come posso fare per superare il mio angoscioso dubbio?

Cartesio si domanda: 

 

«Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo: perché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale e che cosa è ragionevole e così da una sola questione cadremmo insensibilmente in un’infinità di altre più difficili ed avviluppate e io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze» (p.82).

Cartesio si è rifiutato di ammettere che l’io da lui scoperto è semplicemente il soggetto umano, animale ragionevole. 

Questo io puro spirito senza corpo, principio e fondamento di tutto il sapere e dal quale viene dedotto tutto l’essere, compreso Dio, come non appare un soggetto che si trova troppo stretto nei limiti della semplice umanità? 

Come è dimostrabile da un’analisi dei filosofi che nei secoli seguenti si sono rifatti a Cartesio, il principio del cogito cartesiano conduce a sostituire il proprio io a Dio e quindi all’ateismo e al panteismo. 

Immagini da Internet:
- Michelangelo
- Scuola Veneta, XVII secolo
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[1] I tre gradi d’astrazione erano già stati chiariti nel sec.XVI dal grande teologo tomista il Card.Tommaso De Vio, detto il Gaetano.

[2] Cf J.Maritain, La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1967.

[3] Cf Benoit Garceau, Judicium. Vocabulaire, sources, doctrine de Saint Thomas d’Aquin, Montréal-Paris 1968; P.Hoenen, La théorie du jugement d’après St.Thomas d’Aquin, Romae, Apud  aedes Universitatis Gregorianae, 1953.

[4] Cf Platone, La dottrina delle idee, antologia sistematica, La Nuova Italia, Firenze 1964.

[5] Cf il mio scritto Potere e limiti della concettualizzazione, in Il giudizio per affinità nel dono della sapienza, Pars dissertationis ad lauream in Facultate sacrae theologiae apud pontificiam Universitatem S.Thomae de Urbe, Bologna 1987.



2 commenti:

  1. Cartesio ha contribuito, con il suo pensiero, all’attuale deriva relativistica-soggettivistica perché per lui, l’unica verità che traspare con certezza al di là di ogni dubbio è che: “Io sono una realtà pensante” sostenendo così che in tutte le nostre riflessioni noi possiamo equivocarci ma non possiamo mettere in dubbio il fatto che noi conosciamo, che noi pensiamo.
    Con Cartesio la realtà, il mondo non è più un fatto immediatamente evidente di cui possiamo fare esperienza, esso va dimostrato, va sottoposto alla verifica del nostro pensiero e delle nostre idee e l’unica vera conoscenza è quella razionale che non analizza più l’essenza delle cose ma delle idee perché tutto parte e ritorna al soggetto pensante.
    Però quello di Cartesio diventa un pensiero puro, senza oggetto, senza l’essere, ma non ci può essere pensiero, conoscenza senza un oggetto da conoscere, che non sia conoscenza di qualcosa, così l’essere delle cose viene perso definitivamente.
    Grazie p. Giovanni per queste sue preziose riflessioni.

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    1. Caro Don Vincenzo,
      Cartesio certamente sta all’origine dell’attuale relativismo e soggettivismo gnoseologico e morale, in quanto relativizza tutto il sapere e l’agire all’io ovvero al soggetto. Ogni vero e ogni bene è vero ed è bene in quanto lo penso io ed io ritengo che sia vero e che sia bene. Quello che pensano o fanno gli altri vale se lo penso e lo faccio io.
      Il pensare cartesiano è effettivamente un pensare senza oggetto. Al cartesiano non interessa la realtà, ma se stesso e le proprie idee.
      Con tutto ciò di fatto Cartesio, come sappiamo, è stato un grande matematico e un grande fisico, ma solo perché su questi piani del sapere egli ha accolto il realismo. Laddove invece ha messo un opera il suo idealismo è stata la metafisica, l’antropologia, la morale e la teologia.
      In metafisica ha ridotto l’essere all’io e il reale al reale pensato.
      In antropologia ha ridotto l’uomo allo spirito pensante alla guida di un corpo pensato. Ma se il corpo è un corpo pensato, allora il pensato è un corpo. E se l’uomo è un pensante e il pensante è il pensato e il pensato è un corpo, allora l’uomo ossia il pensante è un corpo. Materia e spirito, inizialmente contrapposti, alla fine coincidono, così come il pensiero coincide con l’essere, che è anche l’essere materiale. Così Cartesio è all’origine sia dell’antropologia idealista, sia di quella materialista.
      In morale tutto è deciso dall’io giacchè tutto ruota attorno all’io. Egocentrismo assoluto.
      In teologia, se Dio è un’idea innata, allora non esce dal’orizzonte dell’io. Dunque Dio sono io.

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