Vociare assassino - L’accusa lanciata dal Papa emerito ai suoi nemici tedeschi - Terza Parte (3/4)

Vociare assassino

L’accusa lanciata dal Papa emerito ai suoi nemici tedeschi

Terza Parte (3/4)

La guerra

Nel 1978 salì al trono di Pietro San Giovanni Paolo II, dopo il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I. Egli era pieno di energia e intendeva riparare alla debolezza di Paolo VI nei confronti dell’avanzata del modernismo e del comunismo nel mondo e nella Chiesa stessa. Ovviamente non gli faceva colpa di ciò, perché Paolo VI fu un santo, ma, come dice il Salmo, «quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?». Quando arriva un terremoto, che cosa faccio? Fermo il terremoto? Neppure Gesù era riuscito a convertire i farisei, che hanno messo a morte. Paolo VI fu un Papa crocifisso.

Giovanni Paolo, tuttavia, non rifiutava certo la croce, ma provò a vedere se riusciva ad ottenere qualcosa ed era meno disposto ad accettare che ci si prendesse gioco di lui, questo naturalmente, non per sostenere il suo prestigio personale, ma per il bene della Chiesa. In fin dei conti, che cosa voleva, infatti, se non il bene della Chiesa? Paolo VI non era riuscito a fermare gli scillebexiani e rahneriani. Volle provarci lui.

Paolo VI, emanò o fece emanare diversi importanti documenti concernenti la cristologia e la Santissima Trinità (1972), l’infallibilità del Magistero della Chiesa e il valore delle formule dogmatiche (1973), l’etica sessuale (1975), l’esclusione ella donna dal sacramento dell’Ordine (1976)[1]. Non è difficile vedere in essi riferimenti ad errori di Rahner.

Tuttavia Paolo VI, invece di adottare provvedimenti disciplinari, ricorreva alle frasi gentili, alle suppliche, alle esortazioni e alle allusioni. Ma l’esperienza ci dice che i ribelli si prendono gioco dei superiori che li trattano così. Giovanni Paolo II non voleva esser preso in giro ed iniziò col colpire lo schillebexismo, responsabile dei danni fatti dal Catechismo olandese.

Schillebeeckx fu più volte richiamato dalla CDF, gli si fecero notare alcuni errori, ma ciò non servì a nulla. Anche in questo caso forse era meglio prendere un provvedimento canonico. Fatto sta che i suoi seguaci se ne infischiavano delle correzioni apposte dal Papa e perseverarono nell’errore come se niente fosse, anzi lamentandosi che il Papa perseguitava il profeta[H1] . Il Papa, davanti alla tracotanza di Schillebeeckx, non insistette. Chiaramente anche Giovanni Paolo II si trovò davanti a una ostinazione insuperabile. 

Egli volse nel contempo l’attenzione ad altri problemi: c’era anzitutto quello del rahneriani. Come fare, potenti ed astuti com’erano? Occorreva qualcuno che li conoscesse bene, avesse forti capacità dialettiche, magari di lingua tedesca, fosse stimato e ad un tempo garantisse pienamente in fatto di ortodossia. La Provvidenza volle che proprio nel 1981 Ratzinger, al colmo della indignazione, per le continue audacie di Rahner, gli lanciasse, in un suo libro[2] la gravissima accusa di panteismo, nel senso di identificare la libertà umana con la libertà divina secondo l’idealismo hegeliano. Era colpire al cuore con acutissima e giustissima visione l’errore, del quale Rahner era infetto sotto finte apparenze di tomismo.

A quel punto il destino di Ratzinger fu segnato in due direzioni opposte: da una parte si attirò l’odio implacabile dei rahneriani che giurarono vendetta e dall’altra attirò a sé l’ammirata attenzione e la fiducia del santo Pontefice, che nel 1982 lo nominò Cardinale Prefetto della CDF, come a dirgli: vieni a combattere con me. Bella, questa associazione di un polacco e di un tedesco, dopo gli odii della seconda guerra mondiale, a dare uno splendido esempio di riconciliazione in Cristo: la Polonia e la Germania cattoliche unite nella paolina buona battaglia!

La guerra di Ratzinger contro il rahnerismo, per il vero rinnovamento conciliare, ha un’altissima motivazione di fondo. Si tratta di una speciale interpretazione degli intenti del Concilio, più profonda di quella di Giovanni XXIII e di Paolo VI, i quali si erano fermati, il primo ad assegnare al Concilio un intento semplicemente pastorale di moderna presentazione del messaggio evangelico, mentre Paolo VI aveva aggiunto un intento dottrinale, ossia quello di chiarire la natura e la missione della Chiesa oggi nel mondo.

Ratzinger e Giovanni Paolo II, molto sensibili al valore teologico, formativo e spirituale della Liturgia («lex orandi, lex credendi»), influenzati da Romano Guardini, dietro suggerimento della tradizione greco-slavo-russa e riflettendo sul fatto che il Concilio cominciò la sua riforma lavorando sulla Liturgia, e in particolare sul valore della Messa, si accorsero che l’intento principale del Concilio non è stato pastorale, non è stato dottrinale, ma è stato liturgico, intendendo però la liturgia non tanto come atto giuridico, rito o cerimonia, quanto piuttosto come esperienza del Mistero divino e azione misterica ossia sacramentale introduttiva al Mistero, conosciuto nella fede e misticamente sperimentato, amato e gustato, dal quale apprendere l’impulso interiore all’azione ed alla propria ed altrui santificazione.

Ratzinger e Giovanni Paolo compresero che il Concilio propone un altissimo concetto della liturgia, fons et culmen totius vitae christianae, un concetto che troviamo nella tradizione orientale, dove culto, supplica, preghiera, elevazione dello spirito fanno tutt’uno[3]. Ora, l’amicizia di Ratzinger con Rahner faceva appunto riferimento a questo aspetto mistico della liturgia, perché anche Rahner, similmente a suo fratello Hugo, era sensibile all’aspetto misterico e mistico del cristianesimo. Tuttavia Ratzinger, frequentando l’amico, si era accorto che egli, per il suo concetto di mistero divino, non attingeva alla vera concezione biblica, ma riprendeva quell’Inconoscibile che già era stato condannato dalla Pascendi, come già abbiamo visto sopra, si rifaceva ad un’emotività romantica, nella quale la lucidità dell’intelletto è offuscata dall’impeto del sentimento, quella che Rahner e Schillebeeckx chiamano «esperienza atematica».

Rahner infatti concepisce il Mistero divino come un qualcosa di talmente oscuro, che non ammette che l’intelletto possa vedervi qualcosa sia pur di parziale e limitato, ma sostiene che l’intelletto non vede assolutamente niente. Per cui, imbattendosi nel dogma della visione beatifica, afferma che non è un vedere, ma un amare. In tal modo Rahner equivoca sul concetto di oscurità o di tenebra, che nella Scrittura è usato in due sensi opposti. Un conto è la tenebra dove non si vede niente; e un conto è la tenebra al di là di quel che si vede. Un cieco o una persona al buio è nelle tenebre nel senso che non vede niente. Oppure posso dire che non vedo niente perché non c’è niente.

Quindi alla fine Rahner viene a dire che la conoscenza concettuale[4] e quindi dogmatica di Dio è impossibile. Infatti, per quanto riguarda i concetti di fede, egli sostiene una forma di relativismo e storicismo dogmatico, come i modernisti. Non gli resta che la categoria dell’esperienza, per cui egli parla di un’«esperienza trascendentale preconcettuale ed atematica di Dio»[5].

E un conto è quando si tratta dell’esistenza di quel qualcosa che è Dio, di per sé visibilissimo. La tenebra propria del mistero divino, nella quale si trova il mistico allora, è tenebra non nel senso che il mistico non vede nulla. Egli è nelle tenebre in quanto s’accorge o intuisce o avverte che al di là di quel poco che capisce di Dio, c’è un’infinità di realtà divina, che non vede assolutamente.

In tal modo, mentre per il mistico Dio ha un volto visibile e un nome dicibile, anche se egli ama il silenzio, questo nome e questo volto sono talmente al di sopra dei limiti della sua visione e dizione, che Dio gli appare incomprensibile ed ineffabile. In realtà Dio ha un volto riconoscibile ed inconfondibile, distinto da tutti gli altri volti, colui invece per il quale Dio è totalmente incomprensibile ed ineffabile, ben lungi dall’essere un mistico, non è altro che l’ateo; e questo per il semplice motivo che per lui non c’è niente da comprendere o descrivere, perché per lui Dio non esiste o è qualcosa di assurdo.

È chiaro che là dove non vedo nulla, pur avendo una buona vista, vuol dire che non c’è nulla. Ma il fatto che io veda qualcosa di immenso e infinito, che so essere Dio, non vuol dire che io veda fino in fondo chi è Dio: posso vederlo solo parzialmente e il resto mi sfugge. Ma del resto, è logico che mi sfugga: se capissi tutto non sarebbe Dio. E questo è l’atteggiamento giusto della nostra mente davanti a Dio, umile e magnanimo ad un tempo, del quale parla la Scrittura.

Negli anni 1984-1985 Ratzinger mosse all’attacco della teologia della liberazione, senza misconoscere i suoi lati buoni. La confutò nelle sue linee generali e confutò il suo principale esponente, Leonardo Boff. I punti contestati sono i seguenti.

1. Una concezione materialistica di Dio. Dio non è visto come puro Spirito, ma, col pretesto dell’Incarnazione, è visto come un Dio umanizzato e storicizzato. Nella sua misericordia, Egli ha pietà per gli oppressi, per cui dà forza ad ogni lotta sociale di liberazione in nome della giustizia.

2. Il progetto di umanesimo insufficiente. Ratzinger nota che il progetto escatologico e celeste della liberazione è ignorato e sostituito da un progetto puramente terreno e politico, che ritiene che l’umanità possa già in questa vita liberarsi dalle ingiustizie e dalla sofferenza, come se fosse sostanzialmente innocente e libera dalle conseguenze del peccato originale.

3. Una concezione insufficiente della liberazione, che non è solo economica, ma anche dal peccato, Per questo Ratzinger nega che la felicità che il cristianesimo promette ed assicura possa realizzarsi nei limiti della presente vita mortale, e ci ricorda che invece è possibile solo in un mondo futuro e celeste, al di là della morte.

4. La pratica della violenza come intrinseca all’azione sociale, col pretesto della lotta per la giustizia. Ratzinger fa notare che non è lecito voler forzare la volontà altrui, sia pure in nome di ideali di giustizia.

Aggiungiamo adesso che Papa Benedetto, ancora da Papa emerito denunciò con esattezza l’erroneità della tesi di Rahner dei cristiani anonimi descrivendola in questi termini:

«In essa si sostiene che l’atto-base essenziale dell’esistenza cristiana, che risulta decisivo un ordine alla salvezza, nella struttura trascendentale della nostra coscienza consiste nell’apertura al tutt’altro, all’unione con Dio. La fede cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell’uomo in quanto tale. Perciò, quando l’uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l’essenziale dell’essere cristiano pur senza conoscerlo concettualmente. Il cristiano coincide dunque con l’umano e in questo senso, anche senza saperlo, è cristiano ogni uomo che accetta se stesso. … Questa teoria riduce il cristianesimo a una pura conscia rappresentazione di ciò che è in sé l’essere umano e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel cristianesimo».[6]

Nel 1990 Ratzinger come Prefetto della CDF pubblica l’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, nella quale toglie a Rahner l’arma con la quale egli vuol condurre la Chiesa sulla via del modernismo. In essa si precisa che la Chiesa non è guidata dai teologi ma dai vescovi.

In questo documento Ratzinger dice che il teologo non lavora per il trionfo di un partito o delle sue opinioni, ma per il bene di tutta la Chiesa, in obbedienza al Magistero; la verità di fede è dono di Dio; la verità di ragione è conquista della ragione. La verità del sapere come tale non è l’esperienza atematica originaria della rivelazione divina trascendentale, alla maniera di Heidegger, ma come in San Tommaso, è l’adeguazione della ragione al dato reale; dal che discende che la ragione introduce alla fede come luce soprannaturale della ragione e non è la fede intesa, come la intende Rahner, come esperienza trascendentale atematica di Dio ad esprimersi nelle forme categoriali mutevoli e relative della ragione.

La ragione non è la categorizzazione della fede come esperienza atematica, ma è concettualità che prepara all’esperienza di fede. La fede non è un’esperienza originaria di Dio, ma è conoscenza di Dio mediata dai concetti di fede, da Lui ricevuta ed accolta nella grazia per motivo della sua autorità e trasmessa dalla Chiesa.

Nel 1992 esce il Catechismo della Chiesa Cattolica, al quale Ratzinger dà un contributo sostanziale[7]. Ecco la risposta cattolica al Corso fondamentale sulla fede di Rahner e al Catechismo olandese. Tutte le eresie lì contenute sono confutate e viene ribadita la verità cattolica.

Il Catechismo assesta un colpo decisivo alla cristologia panteista hegeliana di Rahner. Infatti il Catechismo ribadisce il dogma calcedonese dell’unica persona divina in due nature «senza mutamento, senza confusione, senza divisione, senza separazione» (nn.461-470). Viceversa Rahner, confondendo persona e natura cade nell’arianesimo, umanizzando la natura divina, nel nestorianesimo ammettendo due persone, nell’eutichianesimo sostenendo che Dio si muta nell’uomo, nel monofisismo sostenendo che l’uomo diventa Dio, nell’apollinarismo sostituendo il pensare divino al pensare umano e nel docetismo concependo l’umano come l’apparire del divino.

Inoltre il Catechismo, contro Rahner che nega il valore espiatorio del sacrificio sacerdotale di Cristo, ribadisce il dogma tridentino della Redenzione come opera espiatrice, soddisfattoria e riparatrice compiuta da Cristo con l’offerta di se stesso sull’altare della croce in espiazione dei nostri peccasti al nostro posto per compensare il Padre per l’offesa del peccato (nn.599-618).

Inoltre il Catechismo ribadisce, contro la tesi di Rahner secondo la quale tutti si salvano, il dogma dell’Inferno e del Giudizio universale, per il quale invece, benché Dio chiami tutti alla salvezza, non tutti si salvano, ribadendo quanto era già stato definito dal Concilio di Quierzy dell’853 (Denz.623), confermato dal Concilio di Trento (Denz.1523). Per cui il Catechismo insegna che «Dio non predestina nessuno ad andare all’inferno» (n.1037) rimandando in nota al Concilio di Trento (Denz.1567), che insegna che Dio predestina solo gli eletti ad andare in paradiso.

Nel 1993 Ratzinger aiuta il Papa nella redazione della grande enciclica sulla morale cattolica, la Veritatis splendor, nella quale Giovanni Paolo condanna l’etica rahneriana, senza nominare l’Autore, come si evince con chiarezza dalla sua caratteristica distinzione, di origine kantiana, fra «categoriale» (atti del libero arbitrio) e «trascendentale» (opzione fondamentale) (n.65), dove, a somiglianza dell’etica luterana, tutto l’agire morale si risolve nell’opzione fondamentale intesa come effetto della fede come esperienza di Dio originaria, atematica e trascendentale, mentre gli atti categoriali del libero arbitrio non sono altro che la manifestazione empirica moralmente indifferente, benché necessaria, dell’opzione fondamentale, che costituisce la stessa tensione essenziale ed  esistenziale dell’uomo verso Dio.

Nel 1998 appaiono due importantissimi documenti: uno, l’enciclica Fides et ratio, che mette in luce il vero rapporto fra ragione e fede contro la confusione rahneriana fra natura e grazia – l’enciclica Fides et ratio –; l’altro tratta della differenza fra insegnamenti pontifici infallibili e quelli riformabili, contro la negazione rahneriana dell’infallibilità pontificia[8] e l’immutabilità del dogma. Si tratta della Lettera apostolica Ad tuendam fidem corredata da una nota illustrativa della CDF.

L’enciclica Fides et ratio riprende il tema già svolto nell’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo e lo arricchisce di nuovi elementi e precisazioni, come quello di una chiara affermazione del realismo gnoseologico per il quale la filosofia

«poggia sulla percezione dei sensi, sull’esperienza e si muove alla luce del solo intelletto. La filosofia e la scienza spaziano nell’ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la “pienezza della grazia e della verità” (cf Gv 1,14), che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo (Cf I Gv 5,9, Gv 5, 31-32)» (n.10).

Viceversa, per Rahner il conoscere non avviene «per contactum intellectus ad rem»[9], ma «conoscere è la capacità che ha l’essere, per la sua stessa costituzione, di riflettere su se stesso, è la sua soggettività»[10]. L’intelletto non ha un contatto con una realtà esterna. L’atto conoscitivo non va concepito come  un   «rapporto intenzionale di un soggetto conoscente verso un oggetto da lui diverso»[11], perché «il conoscere stesso dell’essere in originaria unità con esso , è lo stesso soggetto conoscente»[12].

Per Rahner non esiste una realtà esterna, perché l’oggetto della conoscenza è lo stesso soggetto conoscente. L’essere è conoscere ed essere conosciuto. Non è l’esperienza sensibile che ci conduce all’autocoscienza, ma è l’autocoscienza ad essere la condizione di possibilità dell’esperienza. La scienza è sempre autocoscienza.

Nel conoscere, dunque, per Rahner, noi non abbiamo nessun contatto con una realtà sensibile o spirituale fuori di noi, indipendente da noi o al di sopra di noi, ma semplicemente partendo dalla nostra autocoscienza (il cogito cartesiano), ci sperimentiamo come spirito e sperimentiamo in noi atematicamente ed originariamente l’«unità originaria di essere e conoscere, che chiamiamo, dal punto di vista gnoseologico, coscienza di sè»[13].

Quindi per Rahner tutto si risolve nell’io in quanto pensato dall’io[14]: il mio corpo, gli altri, la materia, lo spirito, il mondo, il naturale, il soprannaturale e Dio stesso. Da qui viene l’identificazione rahneriana della cosmologia con l’antropologia con la cristologia con la teologia e con la logica, esattamente come in Hegel, con qualche variante per quanto riguarda la terminologia, desunta da Heidegger.

L’enciclica ricorda che «proprio ragionando sulla natura, si può risalire al creatore: “Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce l’autore” (Sap 13,5)» (n.19). Rahner viceversa deride l’analogia come ibrido fra l’univocità e l’equivocità e concepisce la scoperta di Dio non come applicazione del principio metafisico di causalità per induzione dall’effetto sensibile alla causa prima intellegibile, ma come presa di coscienza categoriale, verbale e razionale dell’originaria ineffabile coscienza preconcettuale trascendentale dell’io, dell’essere e di Dio, come unità del pensare e dell’essere. Rahner, invece di partire dal creato per scoprire Dio, pretende di partire da Dio per affermare il creato, come se all’uomo appartenesse aprioricamente il possesso dell’autocoscienza divina.

Siccome Dio è ontologicamente prima del creato, Rahner, da buon idealista, che confonde l’essere col pensare, crede che la conoscenza di Dio preceda la conoscenza delle cose. Per l’idealista la tesi del realista, che noi produciamo il concetto di Dio, perché abbiamo prodotto il concetto del mondo, è un’empietà, perchè ai suoi occhi sarebbe come voler produrre Dio; e non s’accorge che è proprio lui a cadere in questa empietà confondendo Dio col concetto che lui ha di Dio.

Per Rahner dunque occorre conoscere Dio anche per conoscere la natura della formica o del calabrone. Nulla potremmo conoscere, se prima, seppur atematicamente, non conoscessimo Dio. È in fondo la tesi hegeliana che l’oggetto di qualunque sapere è sempre Dio.

L’enciclica respinge inoltre il concetto rahneriano di fede come esperienza:

«la fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una è proposizione universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi ad una ragione debole, abbia maggiore incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione» (n.48).

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 marzo 2023

 
 
 
La guerra di Ratzinger contro il rahnerismo, per il vero rinnovamento conciliare, ha un’altissima motivazione di fondo. Si tratta di una speciale interpretazione degli intenti del Concilio, più profonda di quella di Giovanni XXIII e di Paolo VI, i quali si erano fermati, il primo ad assegnare al Concilio un intento semplicemente pastorale di moderna presentazione del messaggio evangelico, mentre Paolo VI aveva aggiunto un intento dottrinale, ossia quello di chiarire la natura e la missione della Chiesa oggi nel mondo.

Ratzinger e Giovanni Paolo II, molto sensibili al valore teologico, formativo e spirituale della Liturgia («lex orandi, lex credendi»), influenzati da Romano Guardini, dietro suggerimento della tradizione greco-slavo-russa e riflettendo sul fatto che il Concilio cominciò la sua riforma lavorando sulla Liturgia, e in particolare sul valore della Messa, si accorsero che l’intento principale del Concilio non è stato pastorale, non è stato dottrinale, ma è stato liturgico, intendendo però la liturgia non tanto come atto giuridico, rito o cerimonia, quanto piuttosto come esperienza del Mistero divino e azione misterica ossia sacramentale introduttiva al Mistero, conosciuto nella fede e misticamente sperimentato, amato e gustato, dal quale apprendere l’impulso interiore all’azione ed alla propria ed altrui santificazione.

Ratzinger e Giovanni Paolo compresero che il Concilio propone un altissimo concetto della liturgia, fons et culmen totius vitae christianae, un concetto che troviamo nella tradizione orientale, dove culto, supplica, preghiera, elevazione dello spirito fanno tutt’uno. 

Ora, l’amicizia di Ratzinger con Rahner faceva appunto riferimento a questo aspetto mistico della liturgia, perché anche Rahner, similmente a suo fratello Hugo, era sensibile all’aspetto misterico e mistico del cristianesimo. 

Tuttavia Ratzinger, frequentando l’amico, si era accorto che egli, per il suo concetto di mistero divino, non attingeva alla vera concezione biblica, ma riprendeva quell’Inconoscibile che già era stato condannato dalla Pascendi, come già abbiamo visto sopra, si rifaceva ad un’emotività romantica, nella quale la lucidità dell’intelletto è offuscata dall’impeto del sentimento, quella che Rahner e Schillebeeckx chiamano «esperienza atematica».

Immagini da Internet:
- Patriarca Bartolomeo
- Papa Francesco

[1] Cf Documenta inde a Concilio Vaticano secundo expleto edita 1966-1985), Libreria Editrice Vaticana 1985.

[2] Les principes de la théologie cathlique, Téqui, Paris 1981, p.188.

[3] Vedi per esempio l’Omelia VI sulla preghiera di S.Giovanni Crisostomo, PG 64, 462-466.

[4] O «categoriale», come egli la chiama.

[5] Questa teoria si trova anche in Schillebeeckx, Cf il mio articolo Il criterio della verità in Schillebeeckx, un Sacra Doctrina, 2, mar-apr.1984, pp.188-205.

[6] Che cosa è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, a cura di Elio Guerrero e Georg Gänswein, Edizioni Mondadori, Milano 2023, p.93.

[7] Riguardo al mistero della Redenzione, Ratzinger nella Introduzione al cristianesimo (Queriniana, Brescia, 2003, pp.227-238) riflette l’interpretazione di Bultmann, che rifiuta il valore soddisfattorio, riparatore ed espiativo vicario del sacrificio della Croce, vedendo nella morte di Cristo solo l’effetto dell’odio dei suoi uccisori e il martirio del profeta, senza accorgersi che questa tesi porta come a sua logica conseguenza all’abolizione della Messa come sacrificio, come ha fatto coerentemente Lutero. Purtroppo questa tesi si trova ancora in Che cosa è il cristianesimo (Mondadori, Milano 2023, pp.88-94). Ma ciò vuol dire solo che un Papa Emerito ha perduto il dono dell’infallibilità, che è privilegio del solo Papa regnante. È interessante notare peraltro come nella presentazione della Redenzione fatta dal Catechismo si ribadisce, come era da aspettarsi, la dottrina ortodossa. Questo influsso protestante si nota anche in altri cristologi contemporanei, come Küng, Kasper, Rahner, Forte, Schillebeeckx e Bordoni. Vedi al riguardo il mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004, c.VI.

[8] Vedi l’intervento contro Küng in Rahner-Lehmann-Löhrer, Rispondono a «Infallibile»? di Küng, Edizioni Paoline, Roma 1971. È un capolavoro di ipocrisia, perché sotto la facciata di una difesa dell’infallibilità, in realtà dà ragione a Küng. Vedi infatti alle pp.44-47, dove Rahner utilizza la sua falsa distinzione fra una «verità categoriale o della proposizione», che è fallibile, ed una verità atematica («essere-nella-verità»), infallibile. Il Papa è infallibile a livello atematico-esistenziale (che è quello che conta), ma è fallibile a quello categoriale (che poco importa).

[9] Uditori della parola, Edizioni Borla, Roma 1977, p. 70,

[10] Ibid.

[11] Ibid.

[12] Ibid., p.68.

[13] Ibid.

[14] È il berkeleyano esse est percipi.


 [H1]gi

6 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    sono rimasto molto sorpreso da quello che spieghi qui, sul fatto che il Concilio (secondo l'interpretazione di Giovanni Paolo II e di Ratzinger), non aveva solo un intento pastorale (Giovanni XXIII) o pastorale e dottrinale (Paolo VI), ma liturgico.
    Lei spiega molto chiaramente quell'intenzione liturgica del Concilio.
    Tuttavia, potresti per favore indicarmi altri autori o fonti che hanno anche preso in considerazione questo argomento, in modo che io possa approfondire?
    Grazie.

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    1. Caro Pierino,
      questa tesi, secondo la quale il primo scopo del Concilio è stata la riforma liturgica, è un’idea che è venuta a me e non ho trovato in altri.
      L’ho ricavata dal fatto che è stato il primo tema ad essere trattato dal Concilio.
      Quello che tuttavia si nota in questa riforma è senza dubbio l’impostazione voluta da San Giovanni XXIII come scopo generale del Concilio ossia quello di esprimere il perenne messaggio cristiano in termini e modi adatti ad essere apprezzati dall’uomo moderno.
      Così, anche in questo documento si nota la preoccupazione di dare ai riti liturgici una forma più adatta alla sensibilità religiosa degli uomini del nostro tempo e di favorire un dialogo con i fratelli separati, sia protestanti che ortodossi.
      L’elemento pasquale della Santa Messa è più accentuato nel nuovo rito che nel precedente e questo da una parte ci avvicina ai protestanti, i quali commemorano la Cena Pasquale, e agli ortodossi, i quali accentuano la presenza dello Spirito Santo, che è lo Spirito della Resurrezione.

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    2. Caro Padre Cavalcoli,
      la sua personale intuizione che il Concilio non avesse in primo luogo un intento pastorale o dottrinale, ma piuttosto liturgico, mi sembra magnifica (al di là della sua originalità).
      Se la mia modesta opinione può esserli utile, mi sembra che sarebbe conveniente che lei potessi un giorno sviluppare ulteriormente le sue spiegazioni teologiche, nei dettagli e nelle implicazioni.
      Penso che ciò aiuterebbe l'attuale crisi della Chiesa, manifestata dal divario tra rahneriani e pasadisti. Penso che la sua tesi aiuterebbe a far comprendere ai pasadisti le ragioni della riforma liturgica.
      Per il resto, ho finito di leggere il tuo articolo, anche nella sua quarta parte. Conservo ancora un certo sapore di amarezza, dovuto al fatto che nonostante i continui accenni di Benedetto XVI ad aderire a quel progressismo conciliare di cui papa san Giovanni Paolo II è stato la guida, ha avuto però purtroppo la sua parte di responsabilità nel etichettato come “conservatore”, con una sconsiderata decisione disciplinare liturgica nel 2007.
      Il suo articolo mi è stato molto utile per capire gli ultimi anni che abbiamo vissuto nella Chiesa.

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    3. Caro Pierino,
      ritengo anch’io che un approfondimento dei motivi, che hanno condotto i Padri del Concilio a cominciare i lavori col trattare del tema della Liturgia, potrebbe servire molto a favorire la conciliazione fra rahneriani e passatisti, per il fatto che da una parte darebbe soddisfazione ai passatisti, mentre dall’altra potrebbe piacere ai rahneriani, i quali si impegnarono nella riforma liturgica.
      Per quanto riguarda la sua proposta di sviluppare la mia tesi, vedrò che cosa posso fare, perché io non sono un liturgista.
      Per quanto riguarda il Motu Proprio Summorum Pontificum, secondo me è nato dalla volontà esemplare del venerato Papa Benedetto XVI di portare avanti la difficile opera di recupero alla comunione ecclesiale dei fratelli che si sono attardati in una visione della Chiesa precedente il Concilio. Tuttavia il Motu Proprio è stato strumentalizzato dagli scismatici passatisti, i quali slealmente, invece di limitarsi all’uso del rito del 1962, hanno usato il rito di San Pio V, che era proibito.
      In tal modo è successo il contrario di quello che Benedetto voleva. Non solo lo scisma non si è ricomposto, ma si è aggravato. A questo punto è intervenuto Papa Francesco con molta energia nella volontà di sanare questa ferita. Purtroppo lo scisma continua ad esistere e sembra che si sia aggravato.

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  2. Mi ha colpito anche il modo prudente e discreto con cui lei, caro padre Cavalcoli, ha spiegato il motivo degli errori teologici del Papa emerito in due sue espressioni in questi anni, prima della sua morte.
    È chiaro che quello che lei dice, padre Cavalcoli, senza dubbio (così mi è ovvio) che quanto lì espresso dal Papa, nascondendo il dogma della "satisfactio vicaria" di Nostro Signore, è una virtuale eresia (eresia materiale), un errore in cui potrebbe cadere inavvertitamente qualsiasi teologo, anche quel teologo che ha cercato di essere un fedele difensore dell'ortodossia durante la sua vita, come Joseph Ratzinger.
    Mi rendo però conto che, nelle attuali condizioni di globalismo mediatico, e in un contesto in cui qualunque laico, per quanto impreparato, cerca di spiegare il dogma anche al Romano Pontefice, sarebbe stato imprudente scrivere un articolo che avesse per tema centrale, diciamo, "le eresie del Papa emerito". Non sarebbe prudente, anche se oggettivamente è assolutamente vero.
    Mi viene in mente quando, cinque secoli fa, i carissimi amici Tommaso Moro ed Erasmo non ebbero dubbi nel difendersi a vicenda sui loro scritti, pubblicati un decennio prima della ribellione luterana, in un contesto cristiano, in cui, scritti in latino, solo una piccola numero di cristiani potevano accedervi, potendo intenderli come una vera chiamata alla "riforma", alla riforma dei costumi corrotti in buona parte del clero, anche ai vertici della Chiesa. E dieci o vent'anni dopo, quando sia Moro che Erasmo furono attaccati, sospettati e persino accusati di essere gli iniziatori della ribellione protestante, non esitarono ad affermare che se avessero saputo cosa sarebbe potuto accadere dopo il 1517, avrebbero bruciato il loro scritti, non perché contenessero errori, perché oggettivamente corretti e autenticamente ecclesiali, ma perché i tempi erano cambiati, il contesto era diverso, e sarebbe stato imprudente pubblicarli.

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    1. Caro Pierino,
      per quanto riguarda le parole del Papa emerito, io non parlerei di eresia, perché non nega in modo formale ed esplicito la soddisfazione vicaria e la volontà del Padre che Cristo si sacrificasse per la nostra salvezza.
      Si nota invece una grande fatica ad accettare le formule e una preoccupazione esagerata che esse non possano essere capite dall’uomo moderno. A questo punto può effettivamente sorgere la domanda, in chi legge simili affermazioni, se sia ancora valido questo linguaggio per esprimere il dogma della Redenzione.
      Pertanto se una critica si può fare al Papa emerito è quella di essere stato poco prudente e di avere dato corda ai buonisti e ai protestanti liberali.
      Questo doloroso episodio peraltro è una riprova che un Papa emerito non possiede più quell’assistenza dello Spirito Santo, che invece è concessa al Papa regnante, e di fatti, quando Ratzinger fu Prefetto della CDF e anche da Papa, non si sognò mai di cadere in quelle frasi infelici, e lo stesso Papa Francesco evita assolutamente di esprimersi in quella maniera.
      Ma il fatto estremamente significativo al riguardo è che nello stesso Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), al quale Ratzinger dette un contributo determinante, quando si parla del mistero della Redenzione, ricompare uguale ed identico il linguaggio del Concilio di Trento.

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