Il parere del teologo e il giudizio del Magistero nelle questioni dottrinali


Il parere del teologo e il giudizio del Magistero
nelle questioni dottrinali

Communiter veritatem quaerere

Un faticoso ma fruttuoso cammino assieme

Il buon rapporto dei teologi col Magistero e soprattutto col Sommo Pontefice è una delle più alte ed utili attività che caratterizzano la Chiesa cattolica,  affinchè i fedeli «camminino nella verità» (cf 3 Gv 3) e sappiano quali e quante sono le verità di fede e sappiano difendersi dagli errori contrari, così come un organismo vivente ha bisogno di tutti gli organi vitali per poter vivere. Un Card.Kasper, che dice che non sappiamo quante sono le verità di fede, è come quel medico che dicesse di non sapere quanti sono gli organi vitali del corpo umano.

Questo certo non vuol dire che lo sappiamo con la stessa precisione con la quale sappiamo quanti sono i nostri denti, ma solo nel senso che esistono credenze, circa le quali non è tuttora chiaro se sono o non sono di fede. E per questo si discute fra teologi, perché si potrebbe, in linea di principio, giungere ad una duplice conclusione: o che non sono di fede; e allora possono essere abbandonate, come è successo per la credenza nel limbo. Oppure che possono essere elevate a dogma, come alcuni auspicherebbero per la dottrina della corredenzione di Maria.

  Senonchè, però, a causa dell’umana fragilità e anche a volte della malizia, questo rapporto nei secoli tra teologi e Magistero non è sempre stato facile, e si è avuta anche la rottura con grave danno dei fedeli scandalizzati, confusi, divisi, sviati e indotti nell’errore e nel peccato.

A volte l’autorità è restata sorda agli appelli dei teologi. A volte sono stati loro a prendere l’iniziativa senza il permesso dell’autorità. I teologi faticano a sottomettersi. L’autorità tende ad imporsi. Oppure si dà anche il caso di una teologia ripetitiva o per pigrizia o perchè troppo bisognosa di sicurezza o paurosa della ricerca e del progresso. E d’altra parte si può dare un’autorità troppo permissiva, che si lascia prendere la mano dai teologi sovversivi.

Il rischio del teologo è duplice: o quello della presunzione di far da maestro al Papa o di accondiscendere ai difetti del suo governo pastorale, così da bloccare le riforme e il progresso della teologia e della Chiesa. Anche il rischio del pastore è duplice: o l’eccessiva severità e durezza nella condanna degli errori e degli abusi, il che denota mancanza di carità e misericordia; oppure negligenza, interesse privato, pigrizia, trascuratezza, reticenza, opportunismo, rispetto umano, ingenuità, mondanità, per cui non interviene a togliere gli errori e a punire i colpevoli e neanche a riformare i costumi.

Una S.Caterina da Siena[1] ci offre preziosi insegnamenti in questo campo: da una parte dà ottimi suggerimenti circa i doveri del buon pastore e di come egli debba divulgare la sana dottrina ed estirpare gli errori, nonché debba dedicarsi al progresso ed alla riforma della Chiesa, anche a rischio della sua stessa vita; mentre d’altra parte essa ha severi rimproveri per i cattivi pastori, che accusa di tacere per acquistarsi la nomea di misericordiosi e liberali, ma in realtà  perché, coinvolti negli stessi peccati, sono bloccati dalla loro coscienza o perché sperano di ottenere vantaggi e potere da coloro che dovrebbero correggere. E a Caterina, come è noto, non manca neppure il coraggio e la saggezza di richiamare lo stesso Papa Urbano VI ai suoi doveri, minacciandolo addirittura del castigo divino.

Come sappiamo, il paradigma evangelico del buon pastore è lo stesso Gesù Cristo, che è ad un tempo la «porta» (Gv 10,7), ossia colui che tiene aperta la coscienza e lealmente entra nell’ovile «per la porta» (Gv 10,2), ossia entra nella coscienza dei fedeli.

Il «guardiano» (v.3) apre al buon pastore. Il guardiano è il buon teologo, il quale conosce bene il pastore, cioè il Vescovo, e conosce bene anche le pecore, sicchè può metterle a contatto col pastore e questi con esse, che le conduce fuori dell’ovile ad ubertosi pascoli (v.3). Il guardiano ottiene dunque che le pecore riconoscano la voce del pastore, ossia apprezzino la sua retta dottrina, sicchè possano seguirlo tranquille e fiduciose (v.4).

I Papi e i buoni Vescovi hanno sempre svolto onorevolmente questo ufficio, spesso ingrato, eppur necessario, anche se si deve riconoscere – come tutti sanno – che in passato è esistita su larga scala ed ufficialmente la pratica di uno zelo e di  un metodo repressivo e rieducativo, anche nei più Santi, di una durezza e sbrigatività, che a volte sa di arroganza e di volontà, magari inconscia, di affermare il proprio potere.

Questa prassi corrente, salvo l’eccezione di Santi precorritori e particolarmente illuminati[2], non dobbiamo addebitarla a una non so quale intolleranza o prepotenza clericale o mancanza di amore cristiano, secondo il vecchio modulo polemico della massoneria di ieri e di oggi, ma, come puntualizzò S.Giovanni Paolo II, commemorando nel 2000 il IV centenario della condanna a morte di Giordano Bruno, era motivata da un livello sì oggi superato, ma autentico e quindi onesto della coscienza ecclesiale evangelica e giuridica del tempo.

 Nel contempo nella storia avviene continuamente, in questa coscienza collettiva, un approfondimento graduale, spesso faticoso, contrastato e sofferto, delle esigenze del Vangelo, con l’assistenza dello Spirito Santo e la successiva, a volte lenta approvazione del Papa, dopo dubbi, verifiche e resistenze. Scaturisce poi di volta in volta, un corrispondente progresso dottrinale e morale, un nuovo ordinamento giuridico e quindi una nuova concezione dei doveri del vescovo e del Papa nei confronti degli eretici.

Gli antesignani e profeti di questo progresso pastorale, dottrinale ed evangelico, ossia i riformatori ed innovatori, passano a volte per sovversivi e scandalosi e possono sembrare ad alcuni conservatori anche eretici. Questi riformatori possono essere anche teologi, i quali avviano col Magistero un nuovo rapporto, i cui termini e condizioni, all’inizio, possono sembrare poco chiari per ambo le parti; ma poi, mediante l’esercizio della carità, dell’umiltà e della prudenza, unendo chi tira troppo con chi resta indietro, facendo capo alla fede comune, sotto la guida del  Papa, col soccorso dello Spirito Santo, le cose si chiariscono e sorge così una conseguente riformulazione delle norme giuridiche e pastorali concernenti il rapporto teologi-vescovi.

La riforma conciliare

L’abbandono e il superamento della suddetta concezione del ministero dottrinale del Vescovo e del Papa, per un migliore lavoro critico, per una concezione più aperta alla parte di verità delle dottrine ereticali e più attenta alla dignità umana dell’eretico, e per favorire meglio il ravvedimento dell’errante, sono avvenuti, come è noto, con la riforma del Dicastero della S.Sede addetto alla custodia della dottrina della fede, riforma operata da S.Paolo VI col Motu proprio Integrae servandae del 7 dicembre 1965. Per evidenziare l’importanza della riforma, il Papa mutò il nome stesso del Dicastero, che passò da «Sant’Offizio» a «Congregazione per la dottrina della fede».

L’aspetto fondamentale della riforma consistette nel fatto che mentre prima l’ufficio accoglieva le denunce di sospetta eresia fatte dal Vescovo o dal teologo e, considerando con ciò stesso l’accusato come reo di sospetta eresia, avviava senza indugio un processo canonico, col quale lo convocava in giudizio a discolparsi, con l’intimazione di ritrattarsi, se voleva evitare di essere punito, adesso l’ufficio non catalogava più l’informazione ricevuta sotto il titolo giudiziario della denuncia o dell’accusa, ma della semplice segnalazione di sospetta eresia, riservandosi di contattare l’autore, che viene informato di quanto la Congregazione è venuta a sapere; per cui, tenendo conto della legittima libertà di pensiero e del legittimo pluralismo teologico, la Congregazione svolge un previo lavoro di indagine e di interpretazione delle intenzioni e del linguaggio dell’autore. Dopodichè egli viene richiesto non di discolparsi, ma di spiegare le ragioni o motivi della sua posizione, valendosi eventualmente del patrocinio di qualche esperto.

Dopo avere esaminato attentamente le posizioni del teologo segnalato, eventualmente con la consulenza di esperti, ed averlo ascoltato, la Congregazione si riserva di esprimere un giudizio, che può essere di non luogo a procedere; oppure, se effettivamente si giustificano fondati sospetti di eresia, il soggetto passa dallo status di semplice segnalato a quello di reo o accusato, e perciò viene avviato un regolare processo canonico a suo carico. Queste disposizioni sono state confermate ed esplicitate nel Regolamento per l’esame delle dottrine della Congregazione per la Dottrina della fede del 29 giugno 1997.

La riforma di Paolo VI, come ogni riforma dipendente dalla prudenza umana, benchè assistita dallo Spirito Santo, ha i suoi pregi e i suoi difetti. E per questo vale il noto detto Ecclesia semper reformanda. Se una riforma fosse perfetta, non occorrerebbe a un certo momento sostituirla con un’altra. A queste limitatezze per non dire difetti non sfuggirono neppure i Santi Pontefici San Pio V o S.Pio X, i quali indubbiamente furono santi come lo furono S.Giovanni XXIII e S.Paolo VI. Eppure quale differenza!

Infatti, occorre tener presente che anche i santi riflettono la coscienza morale e giuridica del proprio tempo ed inoltre la loro azione, per quanto eroica e poderosa, non può vincere certi ostacoli oggettivi propri di una data situazione ecclesiale e di un dato clima storico, che magari hanno ereditato dai Papi precedenti, e dei quali essi non hanno colpa, ma semmai ne sono vittime.

Inoltre, nessuno ci impedisce di rilevare anche nei santi dei difetti psicologico-morali oggettivi, dei quali, però, essi, per i loro limiti umani, o non sono coscienti o non hanno colpa. Per cui ciò non impedisce alla Chiesa di proclamarli santi. Si iniquitates observaveris, Domine, Domine, quis sustinebit? Lo stesso Gesù Cristo non ha potuto punire i farisei, i  dottori della legge e i sommi sacerdoti per la loro incredulità, ma al contrario, ne è stato la vittima.

Il problema del rahnerismo[3]

Qualcosa di simile è successo a Paolo VI con Rahner e il rahnerismo. Considerando le cose da un punto di vista puramente oggettivo, a prescindere dalla situazione storica e dai limiti scusabili di Paolo VI, è indubitabile che il pensiero di Rahner, per quanto ricco di elementi positivi, contiene molti errori filosofici ed eresie, errori biblici e contro il magistero della Chiesa, a volte manifesti, più volte insinuati o adombrati o mascherati, quasi a volerli diffondere senza dar nell’occhio e sotto colore di promuovere la riforma conciliare, di far progredire la teologia e di servire la Chiesa secondo le esigenze del nostro tempo.

Inoltre Rahner, come sanno coloro che reggono alla lettura dei suoi scritti, procede spesso stilisticamente con lunghissimi periodi pieni di subordinate,  dove queste smorzano la principale o addirittura la contraddicono, con un fare mellifluo e apparentemente rispettoso ed ossequiente, del tutto alieno dagli attacchi e dagli insulti furiosi di un Lutero. Ma esiste anche un rahnerismo divulgativo, fatto per comuni fedeli, che si esprime in alcuni semplici princìpi, come per esempio l’idea che tutti si salvano o che il Papa può sbagliarsi o che la fede non è conoscenza, ma «incontro», o che i concetti e i valori sono relativi, o che la legge dipende dalla situazione, o che il peccato non esiste o che tutte le religioni sono uguali o che Lutero aveva ragione.

Eppure, gli errori di Rahner non sono meno pericolosi di quelli di Lutero ed anzi a volte si scostano dalla verità cattolica ancor più, nella linea di Hegel e dei modernisti, di quanto non abbia fatto Lutero, come quando Rahner nega l’immutabilità divina, nega l’esistenza di una verità immutabile e definitiva, pareggia l’essere, il sapere e la libertà umane a quelle divine, intende la natura umana come effetto della propria volontà, nega l’esistenza dell’inferno e il valore espiatorio del sacrificio di Cristo; concepisce la grazia come vertice dell’umano, l’umano come divenire del divino, relativizza il dogma cristologico di Calcedonia, intende la Trinità in senso modalistico, nega l’esistenza degli angeli e del demonio. Neppure Lutero era arrivato a tanto.

Rahner  iniziò in modo assai promettente la sua produzione teologica negli anni 30 del secolo scorso. Ma, già dalla fine di quegli anni cominciò a dare i primi segni di un accostarsi ad Hegel scrivendo due libri che pretendavano interpretare S.Tommaso come fosse un hegeliano[4]. In essi Rahner espose i fondamenti della sua concezione gnoseologico-metafisica tendenzialmente idealistica, che non avrebbe più abbandonato per tutta la vita, nonostante le critiche che gli vennero fatte  sin dall’inizio da parte di illustri pastori, teologi e filosofi, fedeli alla Chiesa e ciò fino ai nostri giorni.

Niente da fare. Anzi, cominciarono gli ammiratori, illusi che Rahner, come si vantava, avesse trovato lo spirito profondo di S.Tommaso. Pio XII si limitò a frenare la sua attività teologica relativamente ad uno suo scritto contro la verginità della Madonna.

Quando S.Giovanni XXIII ebbe l’idea indire il Concilio, dietro interessamento di Konrad Adenauer, il Papa liberò Rahner dalla censura e lo ammise tra i periti del Concilio. Ma, finito il Concilio, Rahner cominciò a manifestare la sua impostazione hegeliana propagandando un’interpretazione modernista del Concilio e così durò, lasciato libero dall’autorità ecclesiastica, anzi con crescente successo, fino alla morte, avvenuta nel 1984.

Il comportamento di S.Paolo VI

La domanda che a questo punto sorge è la seguente: come mai Paolo VI non prese mai pubblicamente in considerazione quei salutari interventi critici dei teologi fedeli al Magistero ed alla sana filosofia, che segnalavano il pericolo rahneriano? Forse che il Papa parteggiava per Rahner? La cosa è assolutamente impensabile e indimostrabile. E sarebbe calunniosa. Neppure i rahneriani hanno avuto l’audacia di sostenere una cosa del genere.

Paolo VI non pronunciò mai neppure una parola a favore delle idee di Rahner, se non fu per riconoscere, come era giusto e doveroso, i suoi meriti al Concilio. E Rahner, da parte sua, non dette mai il minimo segno di accogliere, riprendere e sviluppare il magistero di Paolo VI, come si sarebbe addetto a un buon teologo. Anzi, osò persino accusarlo di errore, quando il Papa pubblicò la famosa enciclica Humanae vitae, anziché difenderlo dagli attacchi degli eretici.

Comunque, è vero che Rahner, come del resto è noto, ebbe, come assistente perito del Concilio del Card.König, una notevole parte nella preparazione dei documenti del Concilio, soprattutto quelli pastorali, che poi commentò in numerose pubblicazioni e conferenze, che lo resero famoso e autorevole in tutto il mondo. Rahner, che già aveva una fama di studioso, dava l’impressione di un teologo serio, affidabile, equilibrato, profondo e quasi mistico, senza atteggiamenti  rivoluzionari e senza conservatorismi preconciliari.

Egli teneva a presentarsi in questo modo perché ciò contribuiva  al suo successo e al suo prestigio soprattutto nell’episcopato. A differenza di Lutero, che odiava cordialmente tutti i vescovi e non la mandava a dire, Rahner con grande astuzia cercò sempre di accattivarsi il loro favore, almeno dei più ingenui, vanitosi e meno preparati. Non sono lontano dal vedere in ciò l’effetto di una trama della massoneria, non molto distante dalle idee di Rahner e dalle tasche di certi vescovi.

Senonchè, però, bisogna dire per nostra consolazione – e diversamente non poteva essere – che tutto il magistero di Paolo VI, con la sua ricca, dotta, limpida ragionata esposizione e difesa della dottrina cattolica, è un’implicita confutazione degli errori d Rahner. Nessuno, quindi, può trovare nel magistero di Paolo VI, alcun appiglio per sostenere gli errori di Rahner. Il Papa, dal canto suo, non amava far nomi, ma è facile riconoscere le idee di Rahner in alcune sue condanne generiche o lamentele per quello che egli chiamava il «magistero parallelo», per il quale si ha un’«autodemolizione della Chiesa».

La situazione di oggi e il rapporto Vescovo-teologo

Con l’enorme circolazione delle idee e dei messaggi oggi consentita dai moderni mezzi di comunicazione, il cattolico, al quale sta a cuore la verità della dottrina cattolica, ha oggi a disposizione un’immensa quantità di pronunciamenti, insegnamenti, dottrine, pareri, opinioni, esperienze, teorie, sentenze, prese di posizioni, racconti, proclami, provenienti dalle fonti più disparate e del più svariato valore: dal Sommo Pontefice, da “amici del Papa”, da Cardinali, Vescovi, parroci, teologi, sinodi, congressi, giornalisti, filosofi, sociologi, politici, psicologi, storici, letterati, illetterati, attori, romanzieri, cantanti, poeti, profeti, veggenti, senza escludere messaggi e avvertimenti di chi ci assicura di averli ricevuti direttamente dalla Madonna o da Padre Pio o prima di essersi risvegliato da morte o di averli ricevuti da extraterrestri o dalle anime dei defunti. Io qui vorrei limitarmi a confrontare brevemente le competenze del teologo e quelle del magistero della Chiesa per quanto concerne il problema del giudizio da dare e come darlo riguardo a dottrine che appaiono erronee o sospette di eresia.

Già dei primi secoli appaiono teologi e vescovi eretici, per cui una delle funzioni essenziali del ministero petrino ha sempre dovuto essere quella di confutare le eresie e punire gli eretici, secondo quanto S.Paolo stesso prescrive al Vescovo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (II Tm 4, 1-5).

E poi abbiamo la Lettera a Tito: «Il Vescovo, come amministratore di Dio, dev’essere … attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso, perché sia in grado di esortare con la sua dottrina e di confutare coloro che contraddicono» (1, 7-9). L’Apostolo porta ad esempio «molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. A questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono in scompiglio intere famiglie insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare» (Tt 1,10-11).

Un esempio di come il teologo deve lavorare di concerto e in sottomissione al Magistero, come aiuto, sostegno, strumento e difesa del magistero, in una giusta autonomia e in una legittima libertà di ricerca, è indubbiamente S.Tommaso.  Egli ha viva e chiara la coscienza del campo nel quale gli è consentito esprimere le sue opinioni o proporre soluzioni nuove o critiche degli avversari e dell’ambito riservato al magistero della Chiesa, che costituisce per l’Aquinate un’autorità indiscussa, dalla quale trae gli argomenti e le fonti per l’edificazione della sua teologia e per la confutazione degli eretici.

Egli sa anche proporre al magistero con modestia e spirito di collaborazione dottrine teologiche che saranno addirittura dogmatizzate, come per esempio la dottrina dell’anima umana forma del corpo o della persona divina come relazione sussistente o della visione beatifica, anticipando a volte di secoli il magistero, come è stato della sua tesi della presenza della distinzione dei sessi nella futura resurrezione, dottrina che è stata approvata e fatta sua da S.Giovanni Paolo II.

S.Tommaso non si mette mai a discutere né fa mai rilievi al Papa circa le sue opinioni private o la sua linea politica o il suo modo di governare la Chiesa o la sua pastorale o la sua condotta morale. Si può dire che tutto ciò esula effettivamente dallo stretto compito del teologo. Era lo stile dei grandi scolastici del Medioevo, i quali peraltro vissero in un periodo felice del Papato. Solo nel sec.XI un S.Pier Damiani nel sec.XII un S.Bernardo richiamarono il Papa al suo dvere. I critici del potere papale, che sconfinavano nella ribellione, erano soprattutto gli eretici, a cominciare dai catari e dai valdesi e nel ‘300 da Guglielmo di Ockham. La critica al papato rs accentò con lo scisma di Occidente, entro l’ortodossia in S.Caterina da Siena, di tendenza ereticale successivamente in Wycliff ed Hus.

Ma il teologo che per primo si impegnò a fondo, con vigore e non senza ragione  nel denunciare gli abusi del potere papale contro i Tedeschi fu certamente Lutero, che si ispirò al modo agostiniano pastorale di far teologia, ma che, però, come è noto, passò ogni limite ragionevole precipitando nell’eresia.

Tuttavia, l’esempio di Lutero, purificato dai  suoi eccessi intollerabili,  ha lasciato una traccia nel rapporto fra il teologo e il Papa, uno stile che inizia soprattutto con i teologi gesuiti, con Francesco Suarez o S.Roberto Bellarmino, passa nell’’800 dal Beato Antonio Rosmini e giunge ai nostri giorni: una’alta dottrina teologica che si accompagna con una  forte preoccupazione pastorale e una sincera passione per il bene della del proprio tempo. In tal modo anche tomisti moderni, come per esempio il Congar e il Maritain[5], soprattutto dopo il Concilio, hanno assunto questa apertura pastorale e kerygmatica della teologia, non solo offrendo il proprio contributo, ma anche non risparmiando critiche all’autorità, quando esse sono legittime ed utili.

Due esempi da non seguire

Invece, due esempi da non seguire sono quelli di Lutero e di Rahner. Entrambi possono a tutta prima dare l’impressione di esser mossi da un’ansia di riforma e di rinnovamento, di maggior libertà spirituale e semplicità evangelica, di voler estrarre come il nucleo, il succo, la sostanza, l’essenziale della vita cristiana, liberandoli dalle esteriorità, dalle vanità e dalle schiavitù del mondo, in una ardimentosa confidenza in Dio, una forte dedizione alla loro professione di servi della Parola di Dio, in lotta contro le forze dell’«uomo vecchio»,  nell’ascolto dello Spirito Santo, nella dedizione al bene ed alla riforma della Chiesa, alla promozione di una vita cristiana migliore, ed alla salvezza delle anime, che li spinge ad un’attività intensissima e prodigiosa.

Tuttavia, considerando la vita e le opere di questi due famosi teologi, vediamo una grande differenza da S.Tommaso. Occorre infatti dire con franchezza che essi, per motivi diversi, non possono costituire un buon esempio di come il teologo deve rapportarsi col Vescovo o col Papa, per cui il loro teologare non rispetta le norme che ho esposto riguardanti il rapporto tra il parere del teologo e il giudizio del Magistero in materia di dottrina.

 Per quanto riguarda Lutero, occorre dire infatti che il suo famoso gesto di protesta nella questione delle indulgenze poteva esprimere la preoccupazione del teologo in comunione col Vescovo; ma nell’intimo di Lutero da qualche anno stava agitandosi un segreto rancore contro la tradizionale dottrina della necessità delle opere per ottenere la salvezza, predicata dal Magistero pontificio.
Infatti, già nel 1515 era avvenuta la famosa «esperienza della torre» (Turmerlebins), circa la quale Lutero afferma che «gli si erano aperte le porte del paradiso», perché si era convinto che Cristo gli aveva promesso di salvarlo a prescindere da qualunque opera avesse fatto di sua volontà.

Ora, già nelle 95 tesi comincia a trapelare questo rancore, pronto a sfogarsi come un leone dormiente, destinato ad aumentare, per distruggere un po’ per volta, nel corso degli anni seguenti, quasi tutti gli insegnamenti del Magistero pontificio, lasciando intatti solo i dogmi fondamentali della fede.

Il motivo di fondo di questo rancore sembra rivelarsi con totale chiarezza a Lutero nella condanna da parte della Bolla Exsurge, Domine della seguente sua convinzione, che per lui era il fondamento della sua consolazione: «Se crediamo e confidiamo che noi conseguiremo la grazia, questa sola fede ci rende puri e degni» (n.15).

 A questo punto il Papa gli appare come nemico della sua salvezza, come uno che, invece di aprirgli, gli chiude le porte del paradiso. Da qui l’odio di Lutero contro il Papa. È chiaro che in queste condizioni la collaborazione del teologo col Magistero si spezza. Il teologo non valuta più le dottrine sottoponendole al giudizio del Magistero, ma il Magistero stesso diventa oggetto di disprezzo e di condanna. Se prima il teologo in comunione col Magistero è in ascolto di quello stesso Spirito Santo, che assiste il Magistero, adesso Lutero crede di possedere lui solo lo Spirito Santo contro il Papato «fondato dal diavolo».

Quanto al metodo teologico di Rahner, esso sembra a tutta prima assai diverso da quello di Lutero. In Rahner non troviamo nulla dell’aggressione furiosa contro il Papato. Ma ciò non vuol dire che egli non sappia istillare il veleno e demolire la verità cattolica per mezzo di astuti sofismi, fingendo di porsi al servizio della Chiesa della riforma conciliare.

Mentre Lutero taglia netto col Papato, Rahner per tutta la vita, fingendo di onorarlo, gli è stato sempre accanto, lo ha seguito passo passo, ma corrodendolo e svuotandolo dal di dentro come un tarlo, che sembra lasciare intatto il tavolo che ha consumato, ma poi basta toccarlo, che esso si sbriciola.

Il capolavoro di questo approccio al Papato, secondo me, è il modo col quale Rahner intende l’infallibilità pontificia, fingendo di opporsi a Küng, ma in realtà confermando la sua eresia mediante una subdola perversione del concetto stesso della verità. Rahner infatti distingue tra un «essere nella verità», e il «possedere delle proposizioni vere»[6]. L’essere nella verità sarebbe «quella suprema e libera decisione e situazione fondamentale, nella quale è nella verità». Si tratta della sua famosa «esperienza trascendentale atematica e preconcettuale», che caratterizza, secondo Rahner, lo spirito umano autotrascendente verso Dio.

Ebbene, secondo Rahner, è possibile che l’uomo, nonostante questo essere fondamentalmente nella verità, «accetti molte proposizioni errate e non si renda conto della contraddizione con quella suprema e libera decisione» ineffabile e trascendentale. Ma non importa. L’uomo è comunque nella verità in quella forma preconscia, esperienziale e non concettuale, che Rahner chiama «trascendentale». Applicando questa distinzione, si capisce dove Rahner vuole arrivare: a dire che il Papa è infallibile in senso trascendentale, ma non in senso categoriale e tematico.

Ora il guaio è che, come ho dimostrato più volte nelle mie pubblicazioni[7], quella cosiddetta «esperienza trascendentale della verità» non esiste, ma è un’invenzione dell’hegelismo heideggeriano di Rahner. Ora Rahner vorrebbe arrivare a dire che Paolo VI è infallibile in senso trascendentale, ma non in senso categoriale. Ma non è questo un modo raffinato per farsi beffe dell’infallibilità pontificia? A questo punto sono più franchi e schietti Lutero e Küng, i quali dicono: il Papa può sbagliare e basta.

Sbaglia quindi Rahner nel distinguere un Magistero irreformabile da un Magistero reformabile. Tutti e tre i gradi di autorità del Magistero sono irreformabili, nel senso che a tutti e tre la Chiesa insegna la verità, non si sbaglia, anche se al secondo grado non intende definire e al terzo non intende dichiarare in modo definitivo o per sempre.

Altra differenza. Mentre il metodo di Lutero è quello della distruzione barbarica, il metodo untuoso di Rahner è quello dell’astuta falsificazione sotto l’apparenza di un’alta sapienza e di un’esperienza mistica ed ineffabile del mistero cristiano.  Lo stile è quasi sempre ampolloso, pesante, complicato, anche se non mancano le frasi efficaci, le espressioni profonde e geniali, a differenza dello stile tagliente, colorito, popolare, paradossale, emotivo, plastico e potente di Lutero. Rahner, a differenza di Lutero, mantiene per lo più il linguaggio cattolico ed anche scientifico, ma lo usa per rivestirlo di contenuti esistenzialistici, immanentistici e storicistici, dove lo gnosticismo si alterna all’agnosticismo, si è vicini ad Hegel e non lontani da Lutero.

Altra differenza. Tanto Lutero che Rahner si atteggiano a propugnatori e riformatori della teologia. Lo fanno, apparentemente in mondo molto diverso, ma il senso che essi danno a questa riforma è sostanziante lo stesso:  sostituire il magistero pontificio con la loro teologia. Lutero lo fa in modo aperto,  violento e bellicoso, travolgente come un uragano, pieno di insulti e calunnie contro gli avversari e il Sommo Pontefice.

 Rahner invece agisce con estrema astuzia, calcolo, circospezione e doppiezza, ma non meno pericolosamente, perché alla fine fa un lavoro ancor più distruttivo di quanto non abbia fatto Lutero, giacchè in questi rimane la certezza della verità della Parola di Dio e resta salvo l’impianto di fondo realistico e concettuale del cristianesimo, mentre in Rahner l’esperienza atematica della verità, priva di formulazione dogmatica o concettuale, che è per lui relativa, mutevole e soggettiva, appare come un’indistinta foschia autunnale, dove, col pretesto del «Mistero ineffabile e senza nome», c’è di tutto e il contrario di tutto, quel famoso Assoluto di Schelling, che è «una notte dove tutte le vacche sono nere».

I compiti del teologo e del Vescovo

Uno dei compiti del teologo è il contribuire, per quanto sta in lui e con i   mezzi a sua disposizione, a far avanzare la conoscenza e l’approfondimento della Parola di Dio, sia in campo dogmatico che in campo morale. Egli è chiamato a mostrarci nuovi ed insospettati aspetti del mistero divino, per cui migliora la nostra contemplazione degli attributi divini e del mistero Trinitario. Ed è chiamato altresì a mostrarci nuovi e migliori modi per adempiere ai divini comandamenti e fare più perfettamente e più santamente la volontà di Dio.

Tuttavia, la proposta o la nuova tesi teoretica o morale del teologo può apparire a tutta prima irragionevole e scandalosa, addirittura falsa ed eretica, in contrasto con la Sacra Scrittura, il dogma, la Tradizione e il Magistero della Chiesa. Che fare, allora?

È bene che altri teologi esperti e competenti facciano un’attenta verifica per dare una valutazione, mentre è bene, in linea di massima, che il Magistero conceda una ragionevole libertà di confronto e di discussione, affinchè emerga la verità e si possa capire se si tratta di una sana novità o di una deviazione dalla verità.

Occorre vedere da quali premesse il teologo è partito o su quali basi si è fondato per giungere alle conclusioni apparentemente anomale o dirompenti alle quali è giunto. Occorre verificare se queste premesse o basi sono valide o no. E se sono valide, bisogna vedere se la deduzione è stata corretta. Occorre capire che cos’è che intende dire il teologo sospetto, perché potrebbe esprimere male delle cose giuste.

E chi deve fare, soprattutto a norma di diritto, questa verifica? Le persone in linea di principio più qualificate e competenti, sono i colleghi teologi, soprattutto se insegnanti nella medesima disciplina, e l’autorità ecclesiastica competente, a cominciare dal Superiore religioso del teologo, se si tratta di un religioso, oppure dall’Ordinario del luogo dove risiede il teologo, oppure dal Rettore della Facoltà dove insegna il teologo.

Oggi esiste un clima ecclesiale e teologico anormale, di sbandierata «misericordia» e di proclamato «dialogo», ma in realtà di ipocrisia, di pregiudizi, di faziosità, di delazione e di intimidazione, pari all’incompetenza di chi pretende di giudicare e condannare, per il quale clima avvelenato capita spesso che  sospetti da parte di certe autorità o di certi teologi di disobbedienza, mancata comunione ecclesiale o addirittura di falsità o diffamazione o indegnità morale, cadano proprio su alcuni pochi teologi o fedeli laici eventualmente tradizionalisti, i quali hanno il coraggio di denunciare,  anche motivatamente, gli errori, gli scandali o le eresie di certi colleghi modernisti, mentre viceversa contro costoro, sostenuti dai potenti e forti di un largo successo intraecclesiale, non si prende alcun provvedimenti. Si tratta di vere e proprie ingiustizie, che devono essere riparate.

Alcuni sostengono che un teologo non può dichiarare eretica la proposizione o la dottrina di un altro teologo, prima che l’autorità ecclesiastica locale o romana si sia ufficialmente pronunciata. Ma poi, guarda caso, costoro sono proprio quelli che sostengono le medesime eresie di coloro, le cui dottrine vengono notate di eresia dai teologi che essi vorrebbero far tacere ed accusare di presunzione. Cicero pro domo sua.

Ma ciò non corrisponde affatto alla legittima facoltà e responsabilità del teologo, al quale, se certamente non va il diritto, il dovere e la facoltà di esprimere o formulare un giudizio ufficiale e definitivo in materia di eresia o in una causa di eresia, spettante al giudice diocesano o romano al termine di un regolare processo, tuttavia, in base alla sua competenza di teologo, nessuno gli impedisce di formulare, dopo attento esame, anche come consulente dell’accusa o dell’accusato al processo[8], un giudizio o parere, certo o probabile, concernente l’essere o non essere eretica la data proposizione di un suo collega teologo, vivo o defunto, abbia o non abbia dato il suo parere in merito l’autorità ecclesiastica.

Il teologo certamente non ha l’obbligo né il carisma sacramentale di vigilanza e discernimento esclusivamente proprio del Vescovo. Egli però deve sentirsi un aiuto e collaboratore del Vescovo nel vigilare contro le insidie e le seduzioni dell’errore, soprattutto se in diocesi ha incarichi ufficiali in merito, perché il Vescovo non può saper tutto e ha bisogno di essere informato. E la persona più qualificata ad informarlo è il teologo, anche se, quando l’eresia è evidente e notoria, e non occorre particolare acribia nel riconoscerla, questo compito può essere svolto da qualunque fedele.

Oppure si danno di quei paladini del «rispetto dell’altro» e del «pluralismo teologico», che si atteggiano ad umili incompetenti nel giudicare, ma che sono in realtà degli ambiziosi e dei falsi modesti, i quali, strumentalizzando la fede ai loro interessi, bramosi di emergere e di avere un posto al sole nella Chiesa, si piegano alle idee, anche se ereticali, di quei potenti, dai quali sperano di ottenere grazie e favori, e magari una docenza alla Facoltà teologica.  

La prima cosa che il teologo deve fare, quando trova una sospetta eresia, è quella di considerare la proposizione sospetta da un punto di vista esclusivamente teoretico o speculativo. Appurare cioè solamente se si tratta di proposizione vera o falsa, astenendosi da qualunque giudizio sulla colpevolezza o meno di questa eresia. È vero che l’eresia è peccato mortale; ma se il soggetto è caduto in essa senza superbia ed ostinazione, ma solo per ignoranza e perchè ingannato in buona fede, egli davanti a Dio è innocente, anche se la proposizione eretica può arrecare grave danno alla Chiesa.

In un secondo momento, se l’eretico si rivela ipocrita, ambizioso, imbonitore, sleale, astuto, empio, invidioso, arrogante, attaccato al successo, prepotente e crudele, il teologo, ricordando il dovere della carità e di operare per la salvezza delle anime, può tentare di toccare la coscienza dell’eretico per indurlo al pentimento. Questo però è ancor più compito del Superiore o del Vescovo dell’eretico. È a questo punto che il Vescovo, provvedendo al bene del gregge, può pensare a misure coercitive o punitrici previste dal diritto.

Tanto per il teologo, discepolo della fede, quanto e ancor più per il Vescovo, maestro della fede, è importante, anzi necessario, per restare sul sentiero della verità, saper discernere e distinguere, nella  visione cattolica della realtà di Dio, del mondo, dell’uomo e della Chiesa in ogni tempo, ciò che è assolutamente vero, Parola di Dio, che non può mutare, perché immutabile, ma solo essere approfondito, rafforzato, meglio conosciuto e migliorato, da ciò che è apparentemente immutabile in un dato periodo storico anche di secoli e millenni, e che però può tuttavia, allo sguardo profetico di chi sa discernere, essere superato, corretto e abbandonato da una tappa più avanzata della riflessione teologica e ancor più dell’insegnamento magisteriale, perché non necessariamente connesso con la verità di fede o col diritto divino, e perché espressione tutto sommato contingente e passeggera del precedente costume ecclesiale, il cui ordinamento dipende dal potere giurisdizionale del Papa[9].

Così per secoli e millenni è invalsa nella Chiesa un’opinione sulla donna, che appariva nel suo complesso immutabile, ma che era in realtà un amalgama di elementi immutabili ed altri caduchi; ma a nessuno era venuto mai in mente di far un vaglio serio e di  conservare i primi e gettar via i secondi.

Il magistero della Chiesa non pensò mai di prender di petto la questione e lasciò che restasse per lunghi secoli di comune dominio, anche fra i teologi, la vecchia concezione oggi superata, dell’inferiorità e fragilità fascinatrice e tentatrice della donna. C’è voluta una grande filosofa, teologa, monaca, santa e profetessa come Edith Stein, figlia di Israele, per aprirci gli occhi, preparando, già negli anni 30 del secolo scorso, quello che sarebbe stato il luminoso magistero che da Pio XII giunge a Papa Francesco.

 Il teologo, insomma, come chiarisce molto bene Mons.Antonio Livi[10], può indubbiamente giungere a conclusioni certe,  ma deve sempre distinguere bene le proprie fallibili opinioni dai contenuti certi ed immutabili del Magistero della Chiesa, non importa che siano di primo grado, nuovi dogmi definiti da credersi con fede divina, o di secondo grado, verità o fatti naturali connessi al dogma, da credersi con fede ecclesiastica o di terzo grado, dottrina autentica in materia di fede e di morale, da accogliersi con religioso ossequio dell’intelletto e della volontà. A tutti e tre questi gradi la Chiesa insegna sempre una verità certa, indiscutibile ed irreformabile, cioè non sbaglia mai.

Grande sciagura per il teologo, invece, e per chi lo ascolta, assolutizzare presuntuosamente le proprie idee, come fa Rahner, e relativizzare gli insegnamenti del Magistero, come se fossero l’effetto di ignoranza o di una particolare teologia, magari superata, incapace di comprendere le alte ragioni del teologo.

Il teologo, inoltre, può anticipare profeticamente la dottrina del Magistero, ma deve sottomettersi alle decisioni del Magistero del proprio tempo, anche se sono contrarie alle sue vedute. Un esempio in questo senso ci viene dal Servo di Dio Padre Joseph Lagrange[11], il quale, benché avesse anticipato la moderna esegesi biblica cattolica storico-critica, accettò serenamente  l’umiliazione di rinunciarvi per intervento dei Superori, salvo poi a vederne alla fine della sua vita gli inizi del suo trionfo, che fu un’ascesa continua, prima con Benedetto XV e poi con Pio XII, fino a giungere in pienezza col Documento della Pontificia Commissione Biblica «L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa» del 15 aprile 1993. Vir oboediens loquetur victorias.

Il teologo deve inoltre collaborare col Papa innanzitutto nelle materie concernenti  la fede e la morale; ma non gli è proibito, in quanto membro della Chiesa, che vive nel tempo e tra gli affari umani, esprimere opinioni o critiche al Papa circa la sua condotta morale, la sua pastorale, il suo modo di governare la Chiesa e il suo rapporto col mondo della politica. Lutero si avvalse di questa facoltà e, prendendo spunto dallo scandalo delle indulgenze, protestò contro l’esosità e l’oppressione della Curia Romana per mezzo dei Vescovi-prìncipi nei confronti del popolo tedesco. Anche oggi il teologo mantiene questa facoltà verso il Papa attuale, anche se naturalmente le ragioni della critica sono ben diverse.

Il teologo inoltre dev’essere cosciente della propria fallibilità. Non gli è proibito fare ogni tanto un check-up del proprio sapere, per verificare se è in piena consonanza col Magistero. In queste verifiche, magari sollecitato da colleghi teologi, egli può scoprire che stava sbagliando. Così pure, quando gli viene voglia di criticare un altro teologo, deve domandarsi che se per caso non è egli stesso a sbagliare.

Se Lutero agli inizi delle sue critiche al Papa avesse avuto l’umiltà di ascoltare i consigli, i richiami e le critiche di Superiori, Vescovi e colleghi teologi, non sarebbe caduto nelle eresie nelle quali cadde per il suo orgoglio e la sua cocciutaggine. Ma anche Rahner dimostrò una simile superbia, accecato dal successo, favorito da Superiori compiacenti o ingenui, e troppo fiducioso nelle sue indubbie qualità intellettuali.

Egli, tuttavia, a differenza da Lutero, che se ne andò sbattendo la porta, procedendo con passi felpati, ebbe la astuzia di guastare la Chiesa dall’interno, - il «fumo di Satana» - restando religioso e sacerdote, ed anzi passando per uomo pio e mistico, senza quindi che molti se ne accorgessero, ed oggi che vediamo i disastrosi frutti del rahnerismo in campo morale, ancora molti non si rendono conto di quali sono le origini del male e, come il Don Ferrante di manzoniana memoria, le cercano nel «clericalismo» o nelle sperequazioni sociali o nei governi di destra e cose del genere.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 29 maggio 2019


[1]   Cf il Dialogo della divina Provvidenza, cc.119, 121, 125,129.
[2] Come furono S.Domenico,  S.Francesco o un S.Francesco di Sales.
[3] Cf il mio libro Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona  2009.
[4] Cf Spirito nel mondo, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1989; Uditori della parola, Edizioni Borla, Roma 1977.
[5] Vedi le sue opere pubblicate dalla Morcelliana di Brescia: Per una politica più umana del 1968; Strutture politiche e libertà del 1968 e Il filosofo nella società del 1976.
[6] Rahner Lehmann Löhrer rispondono all’«Infallibile?» di Küng, Edizioni Paoline, Roma 1971, p.35.
[7] Per es. IL PROBLEMA DEL “PRECONSCIO” IN MARITAIN, Divus Thomas, 7, 1994, pp.71-107.
[8] Cf Congregazione per la Dottrina della Fede, Regolamento per l’esame delle dottrine, del 29 giugno 1997, aa.10,12 e 18.
[9] Cf Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo del 24maggio 1990, n.24.
[10] Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica «scienza della fede» da un’equivoca «filosofia religiosa», Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
[11] Cf Bernard Montagnes, Marie-Joseph Lagrange. Un biblista al servizio della Chiesa, Edizioni ESD, Bologna 2007.

4 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    rileggendo questo suo articolo ho riflettuto sul rapporto e sulla distinzione tra dogmi, dottrine della Chiesa e semplici opinioni teologiche.
    A questo proposito, nutro alcuni dubbi sulla qualificazione o nota teologica di alcuni temi che solitamente si insegnano negli ambienti cattolici. Credo di aver letto in alcuni suoi articoli che i seguenti argomenti costituiscono solo opinioni teologiche, ma ho seri dubbi, e tendo a pensare che siano dogmi o almeno dottrina della Chiesa. Li elenco:
    1) La Vergine Maria è Corredentrice. (Ci sono Papi che l'hanno già detto)
    2) Cristo ha conosciuto tutto come Dio e come uomo ha avuto la conoscenza più perfetta che è esistita ed esisterà, conoscendo tutto ciò che può essere conosciuto come uomo. Perciò non si può dire che ci siano cose che lui non sapeva. (Lo spiega il Dottore Angelico nel trattato sul Verbo Incarnato)
    3) Ci sono più condannati che salvati. ("Molti sono chiamati ma pochi eletti"; ci sono visioni dell'inferno che lo confermano; lo stato di diffusa apostasia porta a pensare che innumerevoli anime muoiono sicuramente in peccato mortale)
    4) Gli angeli furono sottoposti in principio ad una prova di fedeltà ed ecco perché Luzbel cadde, "non serviam" (questa è una verità insegnata dalla Tradizione).
    Certo, non voglio infastidirli con tante domande, ma almeno, se possibile, confermari se queste quattro affermazioni sono opinioni teologiche o meno, e se sì, indica almeno una direzione di pensiero, o poche linee di suggerimenti.
    Vi sarei grato, almeno se mi indicase qualche fonte bibliografica dove posso consultare sinteticamente questi temi.
    Grazie per il vostro servizio permanente e inestimabile alla diffusione della Verità Cattolica.

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    1. Caro Ross,
      esprimo il mio giudizio riguardo la qualificazione teologica delle proposizioni che lei mi presenta.
      1) Corredentrice è un titolo tradizionale, che ha origine nel XV secolo, per cui non appartiene alla Sacra Tradizione. Tuttavia essendo stato accolto da alcuni Papi si può considerare come prossimo alla dottrina della Chiesa. Ovviamente bisogna intenderlo nel senso giusto, così come a suo tempo l’ho spiegato in questo blog.
      2) Cristo ha conosciuto tutto ciò che un uomo può conoscere. Questa dottrina è insegnata da Pio XII nell’Enciclica Haurietis Aquas del 1956. Si può considerare come dottrina della Chiesa e quindi certamente infallibile.
      3) Su questo punto esiste libertà di opinione tra i teologi. Le parole di Gesù si possono interpretare più come avvertimento, che come enunciazione di un dato di fatto. Sant’Agostino ritiene che i dannati siano la maggioranza. Su questo punto la Chiesa non si è mai pronunciata, quindi qui siamo nel campo delle opinioni teologiche. Ciò che è stato definito, soprattutto dal Concilio di Trento e che quindi è di fede, è che esistono dei dannati, ma noi non sappiamo chi sono e quanti sono.
      4) Questa dottrina è propria dei Santi Padri, i quali certamente concorrono alla costituzione della Sacra Tradizione. Tuttavia per stabilire se una loro dottrina appartiene effettivamente alla Tradizione occorre un consenso da parte della Chiesa. Nella fattispecie, non avendo ricevuto questo riconosciemnto, qui si tratta di una semplice opinione teologica, per quanto autorevole, in quanto espressa da alcuni Padri.
      Per quanto riguarda la fonte bibliografica, lei può consultare un buon trattato di teologia, in più volumi, alle voci corrispondenti.

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  2. Grazie mille, padre Cavalcoli!
    Ho trovato dov'era il testo, di cui avevo vaghi ricordi: è l'articolo "I precisi confini della infallibilità: il Sommo Pontefice come dottore privato", su L'Isola di Patmos, del 25 novembre 2014 ( https://isoladipatmos.com/i-precisi-confini-della-infallibilita-il-sommo-pontefice-come-dottore-privato/ ).
    Nel paragrafo a cui mi riferisco dici: "Esistono infatti dottrine notoriamente teologiche e non magisteriali, dottrine che, se troviamo sulla bocca o negli scritti del Papa, sarà evidente che esprimono il suo pensiero semplicemente come dottore privato. Mettiamo per esempio che il Papa desse a Maria il titolo di corredentrice o che sostenesse con Sant’ Agostino che i dannati sono più numerosi dei beati o che la Sindone è veramente l’impronta del corpo di Cristo o che la Madonna appare veramente a Medjugorje o che Giuda è all’inferno o che alla resurrezione esisteranno gli animali o che gli angeli siano stati sottoposti da Dio all’inizio del mondo ad una prova di fedeltà o che il passaggio degli Ebrei dal Mar Rosso sia stato semplicemente un fenomeno miracoloso di marea favorevole o che Adamo ed Eva cacciati dal paradiso terrestre avevano un aspetto scimmiesco o che anche gli embrioni sono battezzati da Cristo o che ci sono state delle cose che Cristo non sapeva o che l’Anticristo è una singola persona o che i due'testimoni' dei quali parla l’Apocalisse sono i Santi Pietro e Paolo e così via. Tutte queste ipotesi sono indubbiamente compatibili con i dati di fede. Si tratta certo di dottrine rispettabili e probabili, ma che tuttavia non corrispondono in se stesse a delle vere e proprie verità di fede, in quanto non è possibile trovarle direttamente nè nella Scrittura nè nella Tradizione. Le fonti della Rivelazione potrebbero avallarle ma anche non avallarle. Al momento non è possibile saperlo con certezza e per questo il Magistero pontificio come tale non si pronuncia".
    Ho ancora dei dubbi sulla sua espressione del 2014: "...o che ci sono state delle cose che Cristo non sapeva...".
    Ma confido di cavarmela da solo, consultando qualche trattato di cristologia.
    Grazie comunque, padre.

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    1. Caro Ross,
      Pio XII, nell’Enciclica che ho citato, parla della scienza infusa di Cristo. A questo livello Cristo conosceva tutto quello che un uomo può conoscere, grazie alle idee che erano infuse nella sua mente umana da parte del Verbo.
      Invece noi, nel Vangelo, incontriamo alcuni episodi nei quali Gesù desidera essere informato, per esempio come quando chiede agli astanti dove era stato posto il corpo di Lazzaro oppure quando, dopo aver guarito una donna, che l’aveva toccato, chiede ai circostanti chi l’aveva toccato. Questo livello di coscienza è il più basso e corrisponde al nostro.
      Tutto ciò significa che Gesù, a seconda delle circostanze, sceglieva il livello di coscienza che riteneva utile in quella circostanza, per cui a volte mostra di avere una coscienza superiore a quella ordinaria, capace di conoscere cose che noi normalmente non conosciamo, come per esempio quando si accorge di ciò che astanti pensavano, senza che l’avessero espresso in parole.
      Questa consapevolezza dei limiti umani di Gesù nel campo della conoscenza è il risultato di una cristologia più attenta a come il Figlio di Dio ha voluto umiliarsi per abbassarsi al nostro livello, al fine di elevarci alla sua vita divina.
      Se vuole chiarire questa questione, la consiglio di guardare nella Somma Teologica di San Tommaso, la Terza Parte, dove tratta della cristologia e in particolare della scienza di Cristo.
      Inoltre ( https://www.vatican.va/archive/ccc/index_it.htm ) può consultare il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 472-474 .

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