Il parere
del teologo e il giudizio del Magistero
nelle questioni
dottrinali
Communiter veritatem quaerere
Un
faticoso ma fruttuoso cammino assieme
Il buon rapporto dei teologi col Magistero e soprattutto col Sommo
Pontefice è una delle più alte ed utili attività che caratterizzano la Chiesa
cattolica, affinchè i fedeli «camminino nella
verità» (cf 3 Gv 3) e sappiano quali e quante sono le verità di fede e sappiano
difendersi dagli errori contrari, così come un organismo vivente ha bisogno di tutti gli organi vitali per poter vivere.
Un Card.Kasper, che dice che non sappiamo quante sono le verità di fede, è come
quel medico che dicesse di non sapere quanti sono gli organi vitali del corpo umano.
Questo certo non vuol dire che lo sappiamo con la stessa precisione
con la quale sappiamo quanti sono i nostri denti, ma solo nel senso che
esistono credenze, circa le quali non è tuttora chiaro se sono o non sono di
fede. E per questo si discute fra teologi, perché si potrebbe, in linea di
principio, giungere ad una duplice conclusione: o che non sono di fede; e
allora possono essere abbandonate, come è successo per la credenza nel limbo.
Oppure che possono essere elevate a dogma, come alcuni auspicherebbero per la dottrina
della corredenzione di Maria.
Senonchè, però, a causa dell’umana fragilità e
anche a volte della malizia, questo rapporto nei secoli tra teologi e Magistero
non è sempre stato facile, e si è avuta anche la rottura con grave danno dei
fedeli scandalizzati, confusi, divisi, sviati e indotti nell’errore e nel peccato.
A volte l’autorità è restata sorda agli appelli dei teologi. A
volte sono stati loro a prendere l’iniziativa senza il permesso dell’autorità. I
teologi faticano a sottomettersi. L’autorità tende ad imporsi. Oppure si dà anche
il caso di una teologia ripetitiva o per pigrizia o perchè troppo bisognosa di
sicurezza o paurosa della ricerca e del progresso. E d’altra parte si può dare
un’autorità troppo permissiva, che si lascia prendere la mano dai teologi
sovversivi.
Il rischio del teologo è duplice: o quello della presunzione di
far da maestro al Papa o di accondiscendere ai difetti del suo governo
pastorale, così da bloccare le riforme e il progresso della teologia e della
Chiesa. Anche il rischio del pastore è duplice: o l’eccessiva severità e durezza
nella condanna degli errori e degli abusi, il che denota mancanza di carità e
misericordia; oppure negligenza, interesse privato, pigrizia, trascuratezza,
reticenza, opportunismo, rispetto umano, ingenuità, mondanità, per cui non
interviene a togliere gli errori e a punire i colpevoli e neanche a riformare i
costumi.
Una S.Caterina da Siena[1]
ci offre preziosi insegnamenti in questo campo: da una parte dà ottimi
suggerimenti circa i doveri del buon pastore e di come egli debba divulgare la
sana dottrina ed estirpare gli errori, nonché debba dedicarsi al progresso ed alla
riforma della Chiesa, anche a rischio della sua stessa vita; mentre d’altra parte
essa ha severi rimproveri per i cattivi pastori, che accusa di tacere per
acquistarsi la nomea di misericordiosi e liberali, ma in realtà perché, coinvolti negli stessi peccati, sono bloccati
dalla loro coscienza o perché sperano di ottenere vantaggi e potere da coloro
che dovrebbero correggere. E a Caterina, come è noto, non manca neppure il coraggio
e la saggezza di richiamare lo stesso Papa Urbano VI ai suoi doveri,
minacciandolo addirittura del castigo divino.
Come sappiamo, il paradigma evangelico del buon pastore è lo
stesso Gesù Cristo, che è ad un tempo la «porta» (Gv 10,7), ossia colui che
tiene aperta la coscienza e lealmente entra nell’ovile «per la porta» (Gv
10,2), ossia entra nella coscienza dei fedeli.
Il «guardiano» (v.3) apre al buon pastore. Il guardiano è il buon
teologo, il quale conosce bene il pastore, cioè il Vescovo, e conosce bene
anche le pecore, sicchè può metterle a contatto col pastore e questi con esse,
che le conduce fuori dell’ovile ad ubertosi pascoli (v.3). Il guardiano ottiene
dunque che le pecore riconoscano la voce del pastore, ossia apprezzino la sua retta
dottrina, sicchè possano seguirlo tranquille e fiduciose (v.4).
I Papi e i buoni Vescovi hanno sempre svolto onorevolmente questo
ufficio, spesso ingrato, eppur necessario, anche se si deve riconoscere – come
tutti sanno – che in passato è esistita su larga scala ed ufficialmente la
pratica di uno zelo e di un metodo repressivo
e rieducativo, anche nei più Santi, di una durezza e sbrigatività, che a volte
sa di arroganza e di volontà, magari inconscia, di affermare il proprio potere.
Questa prassi corrente, salvo l’eccezione di Santi precorritori e
particolarmente illuminati[2],
non dobbiamo addebitarla a una non so quale intolleranza o prepotenza clericale
o mancanza di amore cristiano, secondo il vecchio modulo polemico della massoneria
di ieri e di oggi, ma, come puntualizzò S.Giovanni Paolo II, commemorando nel
2000 il IV centenario della condanna a morte di Giordano Bruno, era motivata da
un livello sì oggi superato, ma autentico e quindi onesto della coscienza
ecclesiale evangelica e giuridica del tempo.
Nel contempo nella storia
avviene continuamente, in questa coscienza collettiva, un approfondimento
graduale, spesso faticoso, contrastato e sofferto, delle esigenze del Vangelo,
con l’assistenza dello Spirito Santo e la successiva, a volte lenta
approvazione del Papa, dopo dubbi, verifiche e resistenze. Scaturisce poi di
volta in volta, un corrispondente progresso dottrinale e morale, un nuovo ordinamento
giuridico e quindi una nuova concezione dei doveri del vescovo e del Papa nei
confronti degli eretici.
Gli antesignani e profeti di questo progresso pastorale, dottrinale
ed evangelico, ossia i riformatori ed innovatori, passano a volte per
sovversivi e scandalosi e possono sembrare ad alcuni conservatori anche eretici.
Questi riformatori possono essere anche teologi, i quali avviano col Magistero
un nuovo rapporto, i cui termini e condizioni, all’inizio, possono sembrare poco
chiari per ambo le parti; ma poi, mediante l’esercizio della carità,
dell’umiltà e della prudenza, unendo chi tira troppo con chi resta indietro,
facendo capo alla fede comune, sotto la guida del Papa, col soccorso dello Spirito Santo, le
cose si chiariscono e sorge così una conseguente riformulazione delle norme giuridiche
e pastorali concernenti il rapporto teologi-vescovi.
La
riforma conciliare
L’abbandono e il superamento della suddetta concezione del ministero
dottrinale del Vescovo e del Papa, per un migliore lavoro critico, per una
concezione più aperta alla parte di verità delle dottrine ereticali e più attenta
alla dignità umana dell’eretico, e per favorire meglio il ravvedimento
dell’errante, sono avvenuti, come è noto, con la riforma del Dicastero della
S.Sede addetto alla custodia della dottrina della fede, riforma operata da
S.Paolo VI col Motu proprio Integrae
servandae del 7 dicembre 1965. Per evidenziare l’importanza della riforma,
il Papa mutò il nome stesso del Dicastero, che passò da «Sant’Offizio» a
«Congregazione per la dottrina della fede».
L’aspetto fondamentale della riforma consistette nel fatto che
mentre prima l’ufficio accoglieva le denunce di sospetta eresia fatte dal
Vescovo o dal teologo e, considerando con ciò stesso l’accusato come reo di
sospetta eresia, avviava senza indugio un processo canonico, col quale lo convocava
in giudizio a discolparsi, con l’intimazione di ritrattarsi, se voleva evitare
di essere punito, adesso l’ufficio non catalogava più l’informazione ricevuta
sotto il titolo giudiziario della denuncia o dell’accusa, ma della semplice
segnalazione di sospetta eresia, riservandosi di contattare l’autore, che viene
informato di quanto la Congregazione è venuta a sapere; per cui, tenendo conto
della legittima libertà di pensiero e del legittimo pluralismo teologico, la
Congregazione svolge un previo lavoro di indagine e di interpretazione delle
intenzioni e del linguaggio dell’autore. Dopodichè egli viene richiesto non di
discolparsi, ma di spiegare le ragioni o motivi della sua posizione, valendosi
eventualmente del patrocinio di qualche esperto.
Dopo avere esaminato attentamente le posizioni del teologo segnalato,
eventualmente con la consulenza di esperti, ed averlo ascoltato, la Congregazione
si riserva di esprimere un giudizio, che può essere di non luogo a procedere;
oppure, se effettivamente si giustificano fondati sospetti di eresia, il
soggetto passa dallo status di semplice segnalato a quello di reo o accusato, e
perciò viene avviato un regolare processo canonico a suo carico. Queste disposizioni
sono state confermate ed esplicitate nel Regolamento
per l’esame delle dottrine della Congregazione per la Dottrina della fede del
29 giugno 1997.
La riforma di Paolo VI, come ogni riforma dipendente dalla prudenza
umana, benchè assistita dallo Spirito Santo, ha i suoi pregi e i suoi difetti. E
per questo vale il noto detto Ecclesia
semper reformanda. Se una riforma fosse perfetta, non occorrerebbe a un
certo momento sostituirla con un’altra. A queste limitatezze per non dire
difetti non sfuggirono neppure i Santi Pontefici San Pio V o S.Pio X, i quali
indubbiamente furono santi come lo furono S.Giovanni XXIII e S.Paolo VI. Eppure
quale differenza!
Infatti, occorre tener presente che anche i santi riflettono la
coscienza morale e giuridica del proprio tempo ed inoltre la loro azione, per
quanto eroica e poderosa, non può vincere certi ostacoli oggettivi propri di una
data situazione ecclesiale e di un dato clima storico, che magari hanno
ereditato dai Papi precedenti, e dei quali essi non hanno colpa, ma semmai ne
sono vittime.
Inoltre, nessuno ci impedisce di rilevare anche nei santi dei difetti
psicologico-morali oggettivi, dei quali, però, essi, per i loro limiti umani, o
non sono coscienti o non hanno colpa. Per cui ciò non impedisce alla Chiesa di proclamarli
santi. Si iniquitates observaveris, Domine,
Domine, quis sustinebit? Lo stesso Gesù Cristo non ha potuto punire i
farisei, i dottori della legge e i sommi
sacerdoti per la loro incredulità, ma al contrario, ne è stato la vittima.
Il
problema del rahnerismo[3]
Qualcosa di simile è successo a Paolo VI con Rahner e il
rahnerismo. Considerando le cose da un punto di vista puramente oggettivo, a
prescindere dalla situazione storica e dai limiti scusabili di Paolo VI, è
indubitabile che il pensiero di Rahner, per quanto ricco di elementi positivi,
contiene molti errori filosofici ed eresie, errori biblici e contro il
magistero della Chiesa, a volte manifesti, più volte insinuati o adombrati o
mascherati, quasi a volerli diffondere senza dar nell’occhio e sotto colore di
promuovere la riforma conciliare, di far progredire la teologia e di servire la
Chiesa secondo le esigenze del nostro tempo.
Inoltre Rahner, come sanno coloro che reggono alla lettura dei
suoi scritti, procede spesso stilisticamente con lunghissimi periodi pieni di
subordinate, dove queste smorzano la
principale o addirittura la contraddicono, con un fare mellifluo e
apparentemente rispettoso ed ossequiente, del tutto alieno dagli attacchi e
dagli insulti furiosi di un Lutero. Ma esiste anche un rahnerismo divulgativo,
fatto per comuni fedeli, che si esprime in alcuni semplici princìpi, come per
esempio l’idea che tutti si salvano o che il Papa può sbagliarsi o che la fede
non è conoscenza, ma «incontro», o che i concetti e i valori sono relativi, o che
la legge dipende dalla situazione, o che il peccato non esiste o che tutte le
religioni sono uguali o che Lutero aveva ragione.
Eppure, gli errori di Rahner non sono meno pericolosi di quelli di
Lutero ed anzi a volte si scostano dalla verità cattolica ancor più, nella
linea di Hegel e dei modernisti, di quanto non abbia fatto Lutero, come quando Rahner
nega l’immutabilità divina, nega l’esistenza di una verità immutabile e
definitiva, pareggia l’essere, il sapere e la libertà umane a quelle divine, intende
la natura umana come effetto della propria volontà, nega l’esistenza
dell’inferno e il valore espiatorio del sacrificio di Cristo; concepisce la grazia
come vertice dell’umano, l’umano come divenire del divino, relativizza il dogma
cristologico di Calcedonia, intende la Trinità in senso modalistico, nega
l’esistenza degli angeli e del demonio. Neppure Lutero era arrivato a tanto.
Rahner iniziò in modo assai
promettente la sua produzione teologica negli anni 30 del secolo scorso. Ma, già
dalla fine di quegli anni cominciò a dare i primi segni di un accostarsi ad
Hegel scrivendo due libri che pretendavano interpretare S.Tommaso come fosse un
hegeliano[4].
In essi Rahner espose i fondamenti della sua concezione gnoseologico-metafisica
tendenzialmente idealistica, che non avrebbe più abbandonato per tutta la vita,
nonostante le critiche che gli vennero fatte
sin dall’inizio da parte di illustri pastori, teologi e filosofi, fedeli
alla Chiesa e ciò fino ai nostri giorni.
Niente da fare. Anzi, cominciarono gli ammiratori, illusi che
Rahner, come si vantava, avesse trovato lo spirito profondo di S.Tommaso. Pio
XII si limitò a frenare la sua attività teologica relativamente ad uno suo scritto
contro la verginità della Madonna.
Quando S.Giovanni XXIII ebbe l’idea indire il Concilio, dietro
interessamento di Konrad Adenauer, il Papa liberò Rahner dalla censura e lo ammise
tra i periti del Concilio. Ma, finito il Concilio, Rahner cominciò a
manifestare la sua impostazione hegeliana propagandando un’interpretazione modernista
del Concilio e così durò, lasciato libero dall’autorità ecclesiastica, anzi con
crescente successo, fino alla morte, avvenuta nel 1984.
Il
comportamento di S.Paolo VI
La domanda che a questo punto sorge è la seguente: come mai Paolo
VI non prese mai pubblicamente in considerazione quei salutari interventi
critici dei teologi fedeli al Magistero ed alla sana filosofia, che segnalavano
il pericolo rahneriano? Forse che il Papa parteggiava per Rahner? La cosa è
assolutamente impensabile e indimostrabile. E sarebbe calunniosa. Neppure i rahneriani
hanno avuto l’audacia di sostenere una cosa del genere.
Paolo VI non pronunciò mai neppure una parola a favore delle idee
di Rahner, se non fu per riconoscere, come era giusto e doveroso, i suoi meriti
al Concilio. E Rahner, da parte sua, non dette mai il minimo segno di
accogliere, riprendere e sviluppare il magistero di Paolo VI, come si sarebbe
addetto a un buon teologo. Anzi, osò persino accusarlo di errore, quando il
Papa pubblicò la famosa enciclica Humanae
vitae, anziché difenderlo dagli attacchi degli eretici.
Comunque, è vero che Rahner, come del resto è noto, ebbe, come assistente
perito del Concilio del Card.König, una notevole parte nella preparazione dei documenti
del Concilio, soprattutto quelli pastorali, che poi commentò in numerose pubblicazioni
e conferenze, che lo resero famoso e autorevole in tutto il mondo. Rahner, che
già aveva una fama di studioso, dava l’impressione di un teologo serio, affidabile,
equilibrato, profondo e quasi mistico, senza atteggiamenti rivoluzionari e senza conservatorismi preconciliari.
Egli teneva a presentarsi in questo modo perché ciò contribuiva al suo successo e al suo prestigio soprattutto
nell’episcopato. A differenza di Lutero, che odiava cordialmente tutti i
vescovi e non la mandava a dire, Rahner con grande astuzia cercò sempre di accattivarsi
il loro favore, almeno dei più ingenui, vanitosi e meno preparati. Non sono
lontano dal vedere in ciò l’effetto di una trama della massoneria, non molto
distante dalle idee di Rahner e dalle tasche di certi vescovi.
Senonchè, però, bisogna dire per nostra consolazione – e
diversamente non poteva essere – che tutto il magistero di Paolo VI, con la sua
ricca, dotta, limpida ragionata esposizione e difesa della dottrina cattolica,
è un’implicita confutazione degli errori d Rahner. Nessuno, quindi, può trovare
nel magistero di Paolo VI, alcun appiglio per sostenere gli errori di Rahner. Il
Papa, dal canto suo, non amava far nomi, ma è facile riconoscere le idee di Rahner
in alcune sue condanne generiche o lamentele per quello che egli chiamava il
«magistero parallelo», per il quale si ha un’«autodemolizione della Chiesa».
La
situazione di oggi e il rapporto Vescovo-teologo
Con l’enorme circolazione delle idee e dei messaggi oggi
consentita dai moderni mezzi di comunicazione, il cattolico, al quale sta a
cuore la verità della dottrina cattolica, ha oggi a disposizione un’immensa
quantità di pronunciamenti, insegnamenti, dottrine, pareri, opinioni, esperienze,
teorie, sentenze, prese di posizioni, racconti, proclami, provenienti dalle
fonti più disparate e del più svariato valore: dal Sommo Pontefice, da “amici
del Papa”, da Cardinali, Vescovi, parroci, teologi, sinodi, congressi,
giornalisti, filosofi, sociologi, politici, psicologi, storici, letterati,
illetterati, attori, romanzieri, cantanti, poeti, profeti, veggenti, senza
escludere messaggi e avvertimenti di chi ci assicura di averli ricevuti
direttamente dalla Madonna o da Padre Pio o prima di essersi risvegliato da
morte o di averli ricevuti da extraterrestri o dalle anime dei defunti. Io qui
vorrei limitarmi a confrontare brevemente le competenze del teologo e quelle
del magistero della Chiesa per quanto concerne il problema del giudizio da dare
e come darlo riguardo a dottrine che appaiono erronee o sospette di eresia.
Già dei primi secoli appaiono teologi e vescovi eretici, per cui
una delle funzioni essenziali del ministero petrino ha sempre dovuto essere
quella di confutare le eresie e punire gli eretici, secondo quanto S.Paolo
stesso prescrive al Vescovo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che
verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno:
annuncia la Parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna,
ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno
infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di
udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie
voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu
però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di
annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (II Tm 4, 1-5).
E poi abbiamo la Lettera a
Tito: «Il Vescovo, come amministratore di Dio, dev’essere … attaccato alla
dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso, perché sia in grado di
esortare con la sua dottrina e di confutare coloro che contraddicono» (1, 7-9).
L’Apostolo porta ad esempio «molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e
ingannatori della gente. A questi tali bisogna chiudere la bocca, perché
mettono in scompiglio intere famiglie insegnando per amore di un guadagno
disonesto cose che non si devono insegnare» (Tt 1,10-11).
Un esempio di come il teologo deve lavorare di concerto e in sottomissione
al Magistero, come aiuto, sostegno, strumento e difesa del magistero, in una giusta
autonomia e in una legittima libertà di ricerca, è indubbiamente S.Tommaso. Egli ha viva e chiara la coscienza del campo
nel quale gli è consentito esprimere le sue opinioni o proporre soluzioni nuove
o critiche degli avversari e dell’ambito riservato al magistero della Chiesa,
che costituisce per l’Aquinate un’autorità indiscussa, dalla quale trae gli argomenti
e le fonti per l’edificazione della sua teologia e per la confutazione degli
eretici.
Egli sa anche proporre al magistero con modestia e spirito di collaborazione
dottrine teologiche che saranno addirittura dogmatizzate, come per esempio la
dottrina dell’anima umana forma del corpo o della persona divina come relazione
sussistente o della visione beatifica, anticipando a volte di secoli il magistero,
come è stato della sua tesi della presenza della distinzione dei sessi nella futura
resurrezione, dottrina che è stata approvata e fatta sua da S.Giovanni Paolo
II.
S.Tommaso non si mette mai a discutere né fa mai rilievi al Papa
circa le sue opinioni private o la sua linea politica o il suo modo di
governare la Chiesa o la sua pastorale o la sua condotta morale. Si può dire
che tutto ciò esula effettivamente dallo stretto compito del teologo. Era lo stile
dei grandi scolastici del Medioevo, i quali peraltro vissero in un periodo felice
del Papato. Solo nel sec.XI un S.Pier Damiani nel sec.XII un S.Bernardo
richiamarono il Papa al suo dvere. I critici del potere papale, che
sconfinavano nella ribellione, erano soprattutto gli eretici, a cominciare dai
catari e dai valdesi e nel ‘300 da Guglielmo di Ockham. La critica al papato rs
accentò con lo scisma di Occidente, entro l’ortodossia in S.Caterina da Siena,
di tendenza ereticale successivamente in Wycliff ed Hus.
Ma il teologo che per primo si impegnò a fondo, con vigore e non senza
ragione nel denunciare gli abusi del potere
papale contro i Tedeschi fu certamente Lutero, che si ispirò al modo
agostiniano pastorale di far teologia, ma che, però, come è noto, passò ogni limite
ragionevole precipitando nell’eresia.
Tuttavia, l’esempio di Lutero, purificato dai suoi eccessi intollerabili, ha lasciato una traccia nel rapporto fra il
teologo e il Papa, uno stile che inizia soprattutto con i teologi gesuiti, con Francesco
Suarez o S.Roberto Bellarmino, passa nell’’800 dal Beato Antonio Rosmini e
giunge ai nostri giorni: una’alta dottrina teologica che si accompagna con una forte preoccupazione pastorale e una sincera
passione per il bene della del proprio tempo. In tal modo anche tomisti moderni,
come per esempio il Congar e il Maritain[5],
soprattutto dopo il Concilio, hanno assunto questa apertura pastorale e
kerygmatica della teologia, non solo offrendo il proprio contributo, ma anche
non risparmiando critiche all’autorità, quando esse sono legittime ed utili.
Due
esempi da non seguire
Invece, due esempi da non seguire sono quelli di Lutero e di
Rahner. Entrambi possono a tutta prima dare l’impressione di esser mossi da un’ansia
di riforma e di rinnovamento, di maggior libertà spirituale e semplicità evangelica,
di voler estrarre come il nucleo, il succo, la sostanza, l’essenziale della
vita cristiana, liberandoli dalle esteriorità, dalle vanità e dalle schiavitù
del mondo, in una ardimentosa confidenza in Dio, una forte dedizione alla loro
professione di servi della Parola di Dio, in lotta contro le forze dell’«uomo
vecchio», nell’ascolto dello Spirito
Santo, nella dedizione al bene ed alla riforma della Chiesa, alla promozione di
una vita cristiana migliore, ed alla salvezza delle anime, che li spinge ad
un’attività intensissima e prodigiosa.
Tuttavia, considerando la vita e le opere di questi due famosi
teologi, vediamo una grande differenza da S.Tommaso. Occorre infatti dire con
franchezza che essi, per motivi diversi, non possono costituire un buon esempio
di come il teologo deve rapportarsi col Vescovo o col Papa, per cui il loro
teologare non rispetta le norme che ho esposto riguardanti il rapporto tra il
parere del teologo e il giudizio del Magistero in materia di dottrina.
Per quanto riguarda Lutero,
occorre dire infatti che il suo famoso gesto di protesta nella questione delle
indulgenze poteva esprimere la preoccupazione del teologo in comunione col
Vescovo; ma nell’intimo di Lutero da qualche anno stava agitandosi un segreto
rancore contro la tradizionale dottrina della necessità delle opere per
ottenere la salvezza, predicata dal Magistero pontificio.
Infatti, già nel 1515 era avvenuta la famosa «esperienza della
torre» (Turmerlebins), circa la quale
Lutero afferma che «gli si erano aperte le porte del paradiso», perché si era
convinto che Cristo gli aveva promesso di salvarlo a prescindere da qualunque
opera avesse fatto di sua volontà.
Ora, già nelle 95 tesi comincia a trapelare questo rancore, pronto
a sfogarsi come un leone dormiente, destinato ad aumentare, per distruggere un
po’ per volta, nel corso degli anni seguenti, quasi tutti gli insegnamenti del Magistero
pontificio, lasciando intatti solo i dogmi fondamentali della fede.
Il motivo di fondo di questo rancore sembra rivelarsi con totale chiarezza
a Lutero nella condanna da parte della Bolla Exsurge, Domine della seguente sua convinzione, che per lui era il fondamento
della sua consolazione: «Se crediamo e confidiamo che noi conseguiremo la
grazia, questa sola fede ci rende puri e degni» (n.15).
A questo punto il Papa gli
appare come nemico della sua salvezza, come uno che, invece di aprirgli, gli
chiude le porte del paradiso. Da qui l’odio di Lutero contro il Papa. È chiaro
che in queste condizioni la collaborazione del teologo col Magistero si spezza.
Il teologo non valuta più le dottrine sottoponendole al giudizio del Magistero,
ma il Magistero stesso diventa oggetto di disprezzo e di condanna. Se prima il
teologo in comunione col Magistero è in ascolto di quello stesso Spirito Santo,
che assiste il Magistero, adesso Lutero crede di possedere lui solo lo Spirito
Santo contro il Papato «fondato dal diavolo».
Quanto al metodo teologico di Rahner, esso sembra a tutta prima
assai diverso da quello di Lutero. In Rahner non troviamo nulla
dell’aggressione furiosa contro il Papato. Ma ciò non vuol dire che egli non
sappia istillare il veleno e demolire la verità cattolica per mezzo di astuti
sofismi, fingendo di porsi al servizio della Chiesa della riforma conciliare.
Mentre Lutero taglia netto col Papato, Rahner per tutta la vita, fingendo
di onorarlo, gli è stato sempre accanto, lo ha seguito passo passo, ma
corrodendolo e svuotandolo dal di dentro come un tarlo, che sembra lasciare
intatto il tavolo che ha consumato, ma poi basta toccarlo, che esso si
sbriciola.
Il capolavoro di questo approccio al Papato, secondo me, è il modo
col quale Rahner intende l’infallibilità pontificia, fingendo di opporsi a
Küng, ma in realtà confermando la sua eresia mediante una subdola perversione
del concetto stesso della verità. Rahner infatti distingue tra un «essere nella
verità», e il «possedere delle proposizioni vere»[6].
L’essere nella verità sarebbe «quella suprema e libera decisione e situazione
fondamentale, nella quale è nella verità». Si tratta della sua famosa
«esperienza trascendentale atematica e preconcettuale», che caratterizza,
secondo Rahner, lo spirito umano autotrascendente verso Dio.
Ebbene, secondo Rahner, è possibile che l’uomo, nonostante questo
essere fondamentalmente nella verità, «accetti molte proposizioni errate e non si
renda conto della contraddizione con quella suprema e libera decisione»
ineffabile e trascendentale. Ma non importa. L’uomo è comunque nella verità in
quella forma preconscia, esperienziale e non concettuale, che Rahner chiama
«trascendentale». Applicando questa distinzione, si capisce dove Rahner vuole
arrivare: a dire che il Papa è infallibile in senso trascendentale, ma non in
senso categoriale e tematico.
Ora il guaio è che, come ho dimostrato più volte nelle mie
pubblicazioni[7],
quella cosiddetta «esperienza trascendentale della verità» non esiste, ma è
un’invenzione dell’hegelismo heideggeriano di Rahner. Ora Rahner vorrebbe
arrivare a dire che Paolo VI è infallibile in senso trascendentale, ma non in
senso categoriale. Ma non è questo un modo raffinato per farsi beffe
dell’infallibilità pontificia? A questo punto sono più franchi e schietti
Lutero e Küng, i quali dicono: il Papa può sbagliare e basta.
Sbaglia quindi Rahner nel distinguere un Magistero irreformabile
da un Magistero reformabile. Tutti e tre i gradi di autorità del Magistero sono
irreformabili, nel senso che a tutti e tre la Chiesa insegna la verità, non si
sbaglia, anche se al secondo grado non intende definire e al terzo non
intende dichiarare in modo definitivo o per sempre.
Altra differenza. Mentre il metodo di Lutero è quello della
distruzione barbarica, il metodo untuoso di Rahner è quello dell’astuta falsificazione
sotto l’apparenza di un’alta sapienza e di un’esperienza mistica ed ineffabile
del mistero cristiano. Lo stile è quasi
sempre ampolloso, pesante, complicato, anche se non mancano le frasi efficaci,
le espressioni profonde e geniali, a differenza dello stile tagliente, colorito,
popolare, paradossale, emotivo, plastico e potente di Lutero. Rahner, a
differenza di Lutero, mantiene per lo più il linguaggio cattolico ed anche
scientifico, ma lo usa per rivestirlo di contenuti esistenzialistici, immanentistici
e storicistici, dove lo gnosticismo si alterna all’agnosticismo, si è vicini ad
Hegel e non lontani da Lutero.
Altra differenza. Tanto Lutero che Rahner si atteggiano a
propugnatori e riformatori della teologia. Lo fanno, apparentemente in mondo molto
diverso, ma il senso che essi danno a questa riforma è sostanziante lo stesso: sostituire il magistero pontificio con la loro
teologia. Lutero lo fa in modo aperto, violento e bellicoso, travolgente come un
uragano, pieno di insulti e calunnie contro gli avversari e il Sommo Pontefice.
Rahner invece agisce con
estrema astuzia, calcolo, circospezione e doppiezza, ma non meno
pericolosamente, perché alla fine fa un lavoro ancor più distruttivo di quanto
non abbia fatto Lutero, giacchè in questi rimane la certezza della verità della
Parola di Dio e resta salvo l’impianto di fondo realistico e concettuale del
cristianesimo, mentre in Rahner l’esperienza atematica della verità, priva di
formulazione dogmatica o concettuale, che è per lui relativa, mutevole e
soggettiva, appare come un’indistinta foschia autunnale, dove, col pretesto del
«Mistero ineffabile e senza nome», c’è di tutto e il contrario di tutto, quel
famoso Assoluto di Schelling, che è «una notte dove tutte le vacche sono nere».
I
compiti del teologo e del Vescovo
Uno dei compiti del teologo è il contribuire, per quanto sta in
lui e con i mezzi a sua disposizione, a
far avanzare la conoscenza e l’approfondimento della Parola di Dio, sia in
campo dogmatico che in campo morale. Egli è chiamato a mostrarci nuovi ed
insospettati aspetti del mistero divino, per cui migliora la nostra
contemplazione degli attributi divini e del mistero Trinitario. Ed è chiamato
altresì a mostrarci nuovi e migliori modi per adempiere ai divini comandamenti
e fare più perfettamente e più santamente la volontà di Dio.
Tuttavia, la proposta o la nuova tesi teoretica o morale del
teologo può apparire a tutta prima irragionevole e scandalosa, addirittura
falsa ed eretica, in contrasto con la Sacra Scrittura, il dogma, la Tradizione
e il Magistero della Chiesa. Che fare, allora?
È bene che altri teologi esperti e competenti facciano un’attenta
verifica per dare una valutazione, mentre è bene, in linea di massima, che il Magistero
conceda una ragionevole libertà di confronto e di discussione, affinchè emerga
la verità e si possa capire se si tratta di una sana novità o di una deviazione
dalla verità.
Occorre vedere da quali premesse il teologo è partito o su quali
basi si è fondato per giungere alle conclusioni apparentemente anomale o dirompenti
alle quali è giunto. Occorre verificare se queste premesse o basi sono valide o
no. E se sono valide, bisogna vedere se la deduzione è stata corretta. Occorre
capire che cos’è che intende dire il teologo sospetto, perché potrebbe
esprimere male delle cose giuste.
E chi deve fare, soprattutto a norma di diritto, questa verifica?
Le persone in linea di principio più qualificate e competenti, sono i colleghi
teologi, soprattutto se insegnanti nella medesima disciplina, e l’autorità
ecclesiastica competente, a cominciare dal Superiore religioso del teologo, se
si tratta di un religioso, oppure dall’Ordinario del luogo dove risiede il teologo,
oppure dal Rettore della Facoltà dove insegna il teologo.
Oggi esiste un clima ecclesiale e teologico anormale, di
sbandierata «misericordia» e di proclamato «dialogo», ma in realtà di
ipocrisia, di pregiudizi, di faziosità, di delazione e di intimidazione, pari
all’incompetenza di chi pretende di giudicare e condannare, per il quale clima
avvelenato capita spesso che sospetti da
parte di certe autorità o di certi teologi di disobbedienza, mancata comunione
ecclesiale o addirittura di falsità o diffamazione o indegnità morale, cadano proprio
su alcuni pochi teologi o fedeli laici eventualmente tradizionalisti, i quali hanno
il coraggio di denunciare, anche motivatamente,
gli errori, gli scandali o le eresie di certi colleghi modernisti, mentre
viceversa contro costoro, sostenuti dai potenti e forti di un largo successo
intraecclesiale, non si prende alcun provvedimenti. Si tratta di vere e proprie
ingiustizie, che devono essere riparate.
Alcuni sostengono che un teologo non può dichiarare eretica la
proposizione o la dottrina di un altro teologo, prima che l’autorità
ecclesiastica locale o romana si sia ufficialmente pronunciata. Ma poi, guarda
caso, costoro sono proprio quelli che sostengono le medesime eresie di coloro,
le cui dottrine vengono notate di eresia dai teologi che essi vorrebbero far
tacere ed accusare di presunzione. Cicero
pro domo sua.
Ma ciò non corrisponde affatto alla legittima facoltà e
responsabilità del teologo, al quale, se certamente non va il diritto, il
dovere e la facoltà di esprimere o formulare un giudizio ufficiale e definitivo
in materia di eresia o in una causa di eresia, spettante al giudice diocesano o
romano al termine di un regolare processo, tuttavia, in base alla sua competenza
di teologo, nessuno gli impedisce di formulare, dopo attento esame, anche come
consulente dell’accusa o dell’accusato al processo[8],
un giudizio o parere, certo o probabile, concernente l’essere o non essere eretica
la data proposizione di un suo collega teologo, vivo o defunto, abbia o non abbia
dato il suo parere in merito l’autorità ecclesiastica.
Il teologo certamente non ha l’obbligo né il carisma sacramentale di
vigilanza e discernimento esclusivamente proprio del Vescovo. Egli però deve sentirsi
un aiuto e collaboratore del Vescovo nel vigilare contro le insidie e le
seduzioni dell’errore, soprattutto se in diocesi ha incarichi ufficiali in
merito, perché il Vescovo non può saper tutto e ha bisogno di essere informato.
E la persona più qualificata ad informarlo è il teologo, anche se, quando
l’eresia è evidente e notoria, e non occorre particolare acribia nel riconoscerla,
questo compito può essere svolto da qualunque fedele.
Oppure si danno di quei paladini del «rispetto dell’altro» e del
«pluralismo teologico», che si atteggiano ad umili incompetenti nel giudicare,
ma che sono in realtà degli ambiziosi e dei falsi modesti, i quali, strumentalizzando
la fede ai loro interessi, bramosi di emergere e di avere un posto al sole
nella Chiesa, si piegano alle idee, anche se ereticali, di quei potenti, dai
quali sperano di ottenere grazie e favori, e magari una docenza alla Facoltà teologica.
La prima cosa che il teologo deve fare, quando trova una sospetta
eresia, è quella di considerare la proposizione sospetta da un punto di vista
esclusivamente teoretico o speculativo. Appurare cioè solamente se si tratta di
proposizione vera o falsa, astenendosi da qualunque giudizio sulla colpevolezza
o meno di questa eresia. È vero che l’eresia è peccato mortale; ma se il
soggetto è caduto in essa senza superbia ed ostinazione, ma solo per ignoranza
e perchè ingannato in buona fede, egli davanti a Dio è innocente, anche se la
proposizione eretica può arrecare grave danno alla Chiesa.
In un secondo momento, se l’eretico si rivela ipocrita, ambizioso,
imbonitore, sleale, astuto, empio, invidioso, arrogante, attaccato al successo,
prepotente e crudele, il teologo, ricordando il dovere della carità e di
operare per la salvezza delle anime, può tentare di toccare la coscienza
dell’eretico per indurlo al pentimento. Questo però è ancor più compito del
Superiore o del Vescovo dell’eretico. È a questo punto che il Vescovo, provvedendo
al bene del gregge, può pensare a misure coercitive o punitrici previste dal
diritto.
Tanto per il teologo, discepolo della fede, quanto e ancor più per
il Vescovo, maestro della fede, è importante, anzi necessario, per restare sul
sentiero della verità, saper discernere e distinguere, nella visione cattolica della realtà di Dio, del
mondo, dell’uomo e della Chiesa in ogni tempo, ciò che è assolutamente vero, Parola di Dio, che non può mutare, perché
immutabile, ma solo essere approfondito, rafforzato, meglio conosciuto e
migliorato, da ciò che è apparentemente immutabile
in un dato periodo storico anche di secoli e millenni, e che però può tuttavia,
allo sguardo profetico di chi sa discernere, essere superato, corretto e abbandonato
da una tappa più avanzata della riflessione teologica e ancor più dell’insegnamento
magisteriale, perché non necessariamente connesso con la verità di fede o col diritto
divino, e perché espressione tutto sommato contingente e passeggera del precedente
costume ecclesiale, il cui ordinamento dipende dal potere giurisdizionale del
Papa[9].
Così per secoli e millenni è invalsa nella Chiesa un’opinione sulla
donna, che appariva nel suo complesso immutabile, ma che era in realtà un
amalgama di elementi immutabili ed altri caduchi; ma a nessuno era venuto mai
in mente di far un vaglio serio e di conservare
i primi e gettar via i secondi.
Il magistero della Chiesa non pensò mai di prender di petto la questione
e lasciò che restasse per lunghi secoli di comune dominio, anche fra i teologi,
la vecchia concezione oggi superata, dell’inferiorità e fragilità fascinatrice
e tentatrice della donna. C’è voluta una grande filosofa, teologa, monaca,
santa e profetessa come Edith Stein, figlia di Israele, per aprirci gli occhi,
preparando, già negli anni 30 del secolo scorso, quello che sarebbe stato il luminoso
magistero che da Pio XII giunge a Papa Francesco.
Il teologo, insomma, come
chiarisce molto bene Mons.Antonio Livi[10],
può indubbiamente giungere a conclusioni certe,
ma deve sempre distinguere bene le proprie fallibili opinioni dai
contenuti certi ed immutabili del Magistero della Chiesa, non importa che siano
di primo grado, nuovi dogmi definiti da credersi con fede divina, o di secondo
grado, verità o fatti naturali connessi al dogma, da credersi con fede
ecclesiastica o di terzo grado, dottrina autentica in materia di fede e di
morale, da accogliersi con religioso ossequio dell’intelletto e della volontà.
A tutti e tre questi gradi la Chiesa insegna sempre una verità certa, indiscutibile
ed irreformabile, cioè non sbaglia mai.
Grande sciagura per il teologo, invece, e per chi lo ascolta,
assolutizzare presuntuosamente le proprie idee, come fa Rahner, e relativizzare
gli insegnamenti del Magistero, come se fossero l’effetto di ignoranza o di una
particolare teologia, magari superata, incapace di comprendere le alte ragioni
del teologo.
Il teologo, inoltre, può anticipare profeticamente la dottrina del
Magistero, ma deve sottomettersi alle decisioni del Magistero del proprio
tempo, anche se sono contrarie alle sue vedute. Un esempio in questo senso ci viene
dal Servo di Dio Padre Joseph Lagrange[11],
il quale, benché avesse anticipato la moderna esegesi biblica cattolica storico-critica,
accettò serenamente l’umiliazione di
rinunciarvi per intervento dei Superori, salvo poi a vederne alla fine della sua
vita gli inizi del suo trionfo, che fu un’ascesa continua, prima con Benedetto XV
e poi con Pio XII, fino a giungere in pienezza col Documento della Pontificia
Commissione Biblica «L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa» del 15 aprile
1993. Vir oboediens loquetur victorias.
Il teologo deve inoltre collaborare col Papa innanzitutto nelle materie
concernenti la fede e la morale; ma non gli
è proibito, in quanto membro della Chiesa, che vive nel tempo e tra gli affari umani,
esprimere opinioni o critiche al Papa circa la sua condotta morale, la sua pastorale,
il suo modo di governare la Chiesa e il suo rapporto col mondo della politica.
Lutero si avvalse di questa facoltà e, prendendo spunto dallo scandalo delle
indulgenze, protestò contro l’esosità e l’oppressione della Curia Romana per
mezzo dei Vescovi-prìncipi nei confronti del popolo tedesco. Anche oggi il
teologo mantiene questa facoltà verso il Papa attuale, anche se naturalmente le
ragioni della critica sono ben diverse.
Il teologo inoltre dev’essere cosciente della propria fallibilità.
Non gli è proibito fare ogni tanto un check-up del proprio sapere, per
verificare se è in piena consonanza col Magistero. In queste verifiche, magari
sollecitato da colleghi teologi, egli può scoprire che stava sbagliando. Così
pure, quando gli viene voglia di criticare un altro teologo, deve domandarsi che
se per caso non è egli stesso a sbagliare.
Se Lutero agli inizi delle sue critiche al Papa avesse avuto
l’umiltà di ascoltare i consigli, i richiami e le critiche di Superiori,
Vescovi e colleghi teologi, non sarebbe caduto nelle eresie nelle quali cadde
per il suo orgoglio e la sua cocciutaggine. Ma anche Rahner dimostrò una simile
superbia, accecato dal successo, favorito da Superiori compiacenti o ingenui, e
troppo fiducioso nelle sue indubbie qualità intellettuali.
Egli, tuttavia, a differenza da Lutero, che se ne andò sbattendo
la porta, procedendo con passi felpati, ebbe la astuzia di guastare la Chiesa
dall’interno, - il «fumo di Satana» - restando religioso e sacerdote, ed anzi
passando per uomo pio e mistico, senza quindi che molti se ne accorgessero, ed
oggi che vediamo i disastrosi frutti del rahnerismo in campo morale, ancora
molti non si rendono conto di quali sono le origini del male e, come il Don
Ferrante di manzoniana memoria, le cercano nel «clericalismo» o nelle sperequazioni
sociali o nei governi di destra e cose del genere.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 29 maggio 2019
[1] Cf il
Dialogo della divina Provvidenza, cc.119,
121, 125,129.
[2] Come furono S.Domenico, S.Francesco o un S.Francesco di Sales.
[3] Cf il mio libro Karl Rahner. Il Concilio tradito,
Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.
[4] Cf Spirito nel mondo, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1989; Uditori della parola, Edizioni Borla,
Roma 1977.
[5]
Vedi le sue opere pubblicate
dalla Morcelliana di Brescia: Per una
politica più umana del 1968; Strutture
politiche e libertà del 1968 e Il
filosofo nella società del 1976.
[7] Per es. IL PROBLEMA DEL
“PRECONSCIO” IN MARITAIN, Divus Thomas, 7, 1994, pp.71-107.
[8] Cf Congregazione per la Dottrina
della Fede, Regolamento per l’esame delle
dottrine, del 29 giugno 1997, aa.10,12 e 18.
[9] Cf Congregazione per la Dottrina
della Fede, Istruzione sulla
vocazione ecclesiale del teologo del 24maggio 1990, n.24.
[10] Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica «scienza della
fede» da un’equivoca «filosofia religiosa», Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2012.
[11] Cf Bernard Montagnes, Marie-Joseph Lagrange. Un biblista al
servizio della Chiesa, Edizioni ESD, Bologna 2007.
Caro Padre Cavalcoli,
RispondiEliminarileggendo questo suo articolo ho riflettuto sul rapporto e sulla distinzione tra dogmi, dottrine della Chiesa e semplici opinioni teologiche.
A questo proposito, nutro alcuni dubbi sulla qualificazione o nota teologica di alcuni temi che solitamente si insegnano negli ambienti cattolici. Credo di aver letto in alcuni suoi articoli che i seguenti argomenti costituiscono solo opinioni teologiche, ma ho seri dubbi, e tendo a pensare che siano dogmi o almeno dottrina della Chiesa. Li elenco:
1) La Vergine Maria è Corredentrice. (Ci sono Papi che l'hanno già detto)
2) Cristo ha conosciuto tutto come Dio e come uomo ha avuto la conoscenza più perfetta che è esistita ed esisterà, conoscendo tutto ciò che può essere conosciuto come uomo. Perciò non si può dire che ci siano cose che lui non sapeva. (Lo spiega il Dottore Angelico nel trattato sul Verbo Incarnato)
3) Ci sono più condannati che salvati. ("Molti sono chiamati ma pochi eletti"; ci sono visioni dell'inferno che lo confermano; lo stato di diffusa apostasia porta a pensare che innumerevoli anime muoiono sicuramente in peccato mortale)
4) Gli angeli furono sottoposti in principio ad una prova di fedeltà ed ecco perché Luzbel cadde, "non serviam" (questa è una verità insegnata dalla Tradizione).
Certo, non voglio infastidirli con tante domande, ma almeno, se possibile, confermari se queste quattro affermazioni sono opinioni teologiche o meno, e se sì, indica almeno una direzione di pensiero, o poche linee di suggerimenti.
Vi sarei grato, almeno se mi indicase qualche fonte bibliografica dove posso consultare sinteticamente questi temi.
Grazie per il vostro servizio permanente e inestimabile alla diffusione della Verità Cattolica.
Caro Ross,
Eliminaesprimo il mio giudizio riguardo la qualificazione teologica delle proposizioni che lei mi presenta.
1) Corredentrice è un titolo tradizionale, che ha origine nel XV secolo, per cui non appartiene alla Sacra Tradizione. Tuttavia essendo stato accolto da alcuni Papi si può considerare come prossimo alla dottrina della Chiesa. Ovviamente bisogna intenderlo nel senso giusto, così come a suo tempo l’ho spiegato in questo blog.
2) Cristo ha conosciuto tutto ciò che un uomo può conoscere. Questa dottrina è insegnata da Pio XII nell’Enciclica Haurietis Aquas del 1956. Si può considerare come dottrina della Chiesa e quindi certamente infallibile.
3) Su questo punto esiste libertà di opinione tra i teologi. Le parole di Gesù si possono interpretare più come avvertimento, che come enunciazione di un dato di fatto. Sant’Agostino ritiene che i dannati siano la maggioranza. Su questo punto la Chiesa non si è mai pronunciata, quindi qui siamo nel campo delle opinioni teologiche. Ciò che è stato definito, soprattutto dal Concilio di Trento e che quindi è di fede, è che esistono dei dannati, ma noi non sappiamo chi sono e quanti sono.
4) Questa dottrina è propria dei Santi Padri, i quali certamente concorrono alla costituzione della Sacra Tradizione. Tuttavia per stabilire se una loro dottrina appartiene effettivamente alla Tradizione occorre un consenso da parte della Chiesa. Nella fattispecie, non avendo ricevuto questo riconosciemnto, qui si tratta di una semplice opinione teologica, per quanto autorevole, in quanto espressa da alcuni Padri.
Per quanto riguarda la fonte bibliografica, lei può consultare un buon trattato di teologia, in più volumi, alle voci corrispondenti.
Grazie mille, padre Cavalcoli!
RispondiEliminaHo trovato dov'era il testo, di cui avevo vaghi ricordi: è l'articolo "I precisi confini della infallibilità: il Sommo Pontefice come dottore privato", su L'Isola di Patmos, del 25 novembre 2014 ( https://isoladipatmos.com/i-precisi-confini-della-infallibilita-il-sommo-pontefice-come-dottore-privato/ ).
Nel paragrafo a cui mi riferisco dici: "Esistono infatti dottrine notoriamente teologiche e non magisteriali, dottrine che, se troviamo sulla bocca o negli scritti del Papa, sarà evidente che esprimono il suo pensiero semplicemente come dottore privato. Mettiamo per esempio che il Papa desse a Maria il titolo di corredentrice o che sostenesse con Sant’ Agostino che i dannati sono più numerosi dei beati o che la Sindone è veramente l’impronta del corpo di Cristo o che la Madonna appare veramente a Medjugorje o che Giuda è all’inferno o che alla resurrezione esisteranno gli animali o che gli angeli siano stati sottoposti da Dio all’inizio del mondo ad una prova di fedeltà o che il passaggio degli Ebrei dal Mar Rosso sia stato semplicemente un fenomeno miracoloso di marea favorevole o che Adamo ed Eva cacciati dal paradiso terrestre avevano un aspetto scimmiesco o che anche gli embrioni sono battezzati da Cristo o che ci sono state delle cose che Cristo non sapeva o che l’Anticristo è una singola persona o che i due'testimoni' dei quali parla l’Apocalisse sono i Santi Pietro e Paolo e così via. Tutte queste ipotesi sono indubbiamente compatibili con i dati di fede. Si tratta certo di dottrine rispettabili e probabili, ma che tuttavia non corrispondono in se stesse a delle vere e proprie verità di fede, in quanto non è possibile trovarle direttamente nè nella Scrittura nè nella Tradizione. Le fonti della Rivelazione potrebbero avallarle ma anche non avallarle. Al momento non è possibile saperlo con certezza e per questo il Magistero pontificio come tale non si pronuncia".
Ho ancora dei dubbi sulla sua espressione del 2014: "...o che ci sono state delle cose che Cristo non sapeva...".
Ma confido di cavarmela da solo, consultando qualche trattato di cristologia.
Grazie comunque, padre.
Caro Ross,
EliminaPio XII, nell’Enciclica che ho citato, parla della scienza infusa di Cristo. A questo livello Cristo conosceva tutto quello che un uomo può conoscere, grazie alle idee che erano infuse nella sua mente umana da parte del Verbo.
Invece noi, nel Vangelo, incontriamo alcuni episodi nei quali Gesù desidera essere informato, per esempio come quando chiede agli astanti dove era stato posto il corpo di Lazzaro oppure quando, dopo aver guarito una donna, che l’aveva toccato, chiede ai circostanti chi l’aveva toccato. Questo livello di coscienza è il più basso e corrisponde al nostro.
Tutto ciò significa che Gesù, a seconda delle circostanze, sceglieva il livello di coscienza che riteneva utile in quella circostanza, per cui a volte mostra di avere una coscienza superiore a quella ordinaria, capace di conoscere cose che noi normalmente non conosciamo, come per esempio quando si accorge di ciò che astanti pensavano, senza che l’avessero espresso in parole.
Questa consapevolezza dei limiti umani di Gesù nel campo della conoscenza è il risultato di una cristologia più attenta a come il Figlio di Dio ha voluto umiliarsi per abbassarsi al nostro livello, al fine di elevarci alla sua vita divina.
Se vuole chiarire questa questione, la consiglio di guardare nella Somma Teologica di San Tommaso, la Terza Parte, dove tratta della cristologia e in particolare della scienza di Cristo.
Inoltre ( https://www.vatican.va/archive/ccc/index_it.htm ) può consultare il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 472-474 .