Luigino riprende in mano l’antica cetra

Luigino riprende in mano l’antica cetra

A te ricorriamo noi esuli figli di Eva.

E mostraci dopo questo esilio Gesù.

 

Se ti dimentico, Gerusalemme

 

Procede positivamente su Avvenire la risalita di Luigino Bruni dopo la squallida conclusione, nell’agosto scorso, con la «farfalla di un giorno» e la miope ed arida apologia del lavoro quotidiano, un processo di dissoluzione dei valori cristiani in una serie di articoli quasi settimanali su Avvenire della domenica, dei quali mi ero accorto sin dal marzo scorso.

Ma ormai dal mese scorso Luigino ha iniziato una bella e promettente rimonta, ha spiccato il volo non della farfalla, ma dell’aquila verso quel cielo, che aveva malinconicamente accantonato, in seguito al tradimento del «primo patto della fanciullezza».

Ma Luigino non si é arreso all’apparente sconfitta, allo scetticismo ed all’ateismo; con una forte e poderosa riscossa di coscienza, ha recuperato la fede perduta e ormai da più di un mese, la sta riscoprendo più bella di prima, perché ha pagato o ricomprato con la sofferenza e la penitenza ciò che aveva abbandonato. Uno di questi valori è il senso cristiano della vita presente, che Luigino rappresenta adesso sotto la tradizionale metafora dell’esilio, e a tal fine commenta il Salmo 137.

Luigino intitola il suo articolo E il canto ricominciò la vita, commento a una breve composizione nella quale il Salmista, che è un esule a Babilonia, esprime con una forza e una convinzione straordinarie, vorremmo dire a denti stretti, gridando, il suo invincibile ricordo e il suo struggente affetto per Gerusalemme. Non esprime la speranza di potervi un giorno tornare.

Tuttavia l’invocazione che rivolge a Dio affinchè castighi coloro che lo hanno costretto all’esilio – «i figli di Edom» (v.7) e la «figlia di Babilonia devastatrice» (v.8) - lasciano intendere nel Salmista desolato la speranza di poter tornare confidando in Dio che farà giustizia degli oppressori.

È trasparente la storia dell’esilio babilonese come simbolo, tradizionale nel cristianesimo, della vita presente come «esilio» dalla patria, secondo le parole di Fil 3,20: «la nostra patria è nei cieli». Il cristiano si sente un esiliato su questa terra e in questo mondo. È stato cacciato da Dio dal paradiso terrestre a causa del peccato originale e strappato da esso con la forza dal demonio, al quale Adamo si era sottomesso col peccato.

Anche l’esilio babilonese fu un castigo per i peccati del popolo denunciati dai profeti. Come però non tutti gli Ebrei avvertirono Babilonia come terra d’esilio, ma alcuni, quando si offrì la possibilità di tornare, preferirono restare a Babilonia, così similmente non tutti sentono la vita presente come un esilio, ma alcuni si dimenticano della loro vera patria e si accomodano e si invischiano nei piaceri, negli intrallazzi e nelle illusioni di questo mondo, pensando, viceversa, che sia illusione l’attrattiva e l’esistenza stessa di una futura vita celeste. È l’inganno dal quale si era lasciato confondere Luigino stesso, e dal quale adesso si è liberato.

Luigino descrive con molta vivezza il dolore dell’esilio e la forte tentazione che molti Ebrei sentirono di abbandonare il Dio d’Israele, affascinati e sedotti dalla raffinata bellezza degli dèi babilonesi. Nel contempo gli esiliati non si sentivano più capaci di cantare: «ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre» (v.2).

Essi infatti si sentivano umiliati per i sarcasmi e le derisioni dei quali furono oggetto da parte dei babilonesi, che chiedevano loro di cantare i canti di Sion: «Cantateci i canti di Sion!». Ma l’amara risposta degli esiliati era: «Come cantare i canti di Sion in terra straniera?». Eppure – nota Luigino – i più coraggiosi e fedeli proprio col canto riuscirono a resistere alla prova e ad alimentare comunque la speranza.

Gli Ebrei, abituati al contatto con Dio attraverso il Tempio, privati di questa presenza tangibile e confortante, furono a Babilonia soggetti alla dura prova di doversi mantenere in contatto con Dio in una forma puramente destrutturata, spirituale ed invisibile, alimentando la memoria, senza l’apporto del luogo sacro, di mezzi sensibili, di raffigurazioni, di simboli, come il rituale del Tempio, i sacrifici, le offerte, le adunanze sacre, le preghiere. Ma fu anche una purificazione, perché il contatto con Dio avviene essenzialmente nello spirito e nell’interiorità.

«Avendo dimenticato il linguaggio dei luoghi – dice Luigino - non capiamo cosa sia nella Bibbia l’esilio. Per capirne qualche dimensione dovremmo paragonarlo a una nostra esperienza estrema: il lutto. Perché sia nell’esilio babilonese, sia nel lutto c’è la crisi della presenza. E come nei grandi lutti si ha l’esperienza dello sradicamento, ci si svuota di certezze e valori e rischiamo di passare anche noi con chi è passato, di morire con chi è morto, in quell’esilio babilonese la grande sfida fu quella di riuscire a non morire insieme alla patria, al tempio distrutto, alla terra promessa, al loro Dio sconfitto. Non stupisce allora che Ezechiele chiami con lo stesso nome – la «luce dei miei occhi» - la moglie morta e Gerusalemme distrutta».

«Quegli esuli – continua Luigino -  erano terrorizzati dalla possibilità di dimenticare Gerusalemme e il loro Dio. Lo erano perché sentivano il fascino degli dèi di quei fiumi di Babilonia, provavano nella carne la tentazione di prestare le loro cetre a canti diversi da quelli imparati a Sion. E quindi si legarono con una promessa, fatta a Dio e insieme alla loro anima. Le promesse sono anche la corda che lega ciò che siamo oggi a ciò che siamo stati ieri per salvare dal precipizio quel che possiamo diventare domani. Ogni promessa è preghiera che chiede al futuro di non tradire la sua origine. Quando la vita ci conduce in esilio, all’inizio vogliamo solo appendere le cetre, buttare via la penna, tacere, piangere e fare lutto. La Bibbia ci dice che questi digiuni sono buoni, che anche questi mutismi sono parole di vita. Siamo spaesati, sradicati, estraniati con dentro e in mezzo a noi una infinita “nostalgia di Sion” e di quel tempio meraviglioso, soprattutto una nostalgia infinita del Dio che non c’è più, perché è stato distrutto dagli altri, da noi, da Dio stesso».

Similmente, l’anima cristiana si sente spaesata in questo mondo, ricorda i canti dell’Eden e prova disgusto per i canti mondani. Privata dei doni preternaturali, è morta in lei una parte di sé stessa e le pare di vivere qui nelle ombre della morte, in una valle di lacrime. Ma nel contempo, la tendenza a peccare e l’attrattiva del peccato sorte a seguito del peccato originale, la rende cedevole agli allettamenti ed agli affanni del mondo, inclinata a tradire il suo amore per Dio e ad assoggettarsi agli dèi del mondo.

Il ricordo della terribile esperienza babilonese, delle violenze e delle umiliazioni subìte rimase per lungo tempo nel subconscio collettivo del popolo ebraico, tanto che è possibile trovare traccia di questo ricordo traumatico persino nell’Apocalisse di San Giovanni, quattro secoli dopo, dove l’Apostolo ha la visione terrorizzante e ripugnante della

«grande prostituta che siede presso le grandi acque. Con lei si sono prostituiti i re della terra e gli abitanti della terra si sono inebriati del vino della sua prostituzione. L’angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle; teneva in mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione.

Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: “Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra”. E vidi che quella donna era ebbra del sangue dei santi e dei martiri di Gesù. … Le sette teste sono i sette colli sui quali è seduta la donna, e sono anche sette re. I primi cinque sono caduti, ne resta uno ancora in vita, l’altro non è ancora venuto e quando sarà venuto, dovrà rimanere per poco. Quanto alla bestia che era e non è più, è ad un tempo l’ottavo re e uno dei sette, ma va in perdizione» (Ap 17,1-11).

Nel c.18 segue poi la descrizione particolareggiata ed impressionante del terribile castigo divino che piomba su Babilonia. Sembra evidente che Giovanni allude alla potenza di Roma, nuova Babilonia, che dominava in Palestina. E l’accenno a Roma pare chiaro nella Prima Lettera di San Pietro: «Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia» (I Pt 5,13).

Resiste chi riesce a cantare

Ulteriore considerazione interessante di Luigino che favorisce la possibilità di vedere nella condizione dell’Ebreo esiliato a Babilonia una metafora della vita presente del cristiano, è la commovente annotazione che gli Ebrei fedeli a Jahvè e all’Alleanza riuscirono, in mezzo ad altri che cedettero, a resistere alla prova intonando sulla cetra i canti di Sion e così poterono tornare in patria quando Ciro dette loro il permesso:

«Non tutti gli esuli ebrei tornarono da Babilonia dopo l’editto di Ciro. Una parte non superò mai quel grande lutto e si lasciò morire. Alcuni si integrarono con i babilonesi e non tornarono più. Tornarono, dopo settant’anni, soltanto i figli e i nipoti di quei pochi che riuscirono a riprendere le cetre dai salici lungo i fiumi per cantare i canti di Sion in terra straniera. Tornò chi imparò a suonare in esilio. Ogni lutto finisce davvero quando riusciamo ancora a cantare. I Salmi più belli di Israele furono composti quando qualcuno di quei cantori esiliati trovò le energie spirituali per riprendere le cetre. Le spiccarono dagli alberi, ricominciarono il loro canto. Dagli esili torna chi impara a cantare gli antichi canti in una terra sconosciuta. Quando una nuova anima suona l’antica cetra e nascono altri canti».

Anche Luigino, dopo il deserto di questi ultimi mesi da marzo ad agosto, ha ripreso in mano la cetra del «primo patto» ed ha ricominciato a cantare.

Il presente esilio ha però degli aspetti positivi

Una cosa da notare, però, nella storia dell’esilio babilonese, e alla quale Luigino non accenna, è che, se da una parte i pii Ebrei si sentono a disagio a Babilonia, dall’altra sono incoraggiati dal profeta Geremia ad apprezzare i lati buoni dell’ambiente babilonese e ad inserirsi costruttivamente nel contesto sociale e politico, e collaborando lealmente, in quel che è lecito e possibile, al bene comune.

Geremia infatti scrive agli esuli una lettera su questo tono:

«Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia: “Costruite case e abitatele, piantate orti e mangiatene i frutti, prendete moglie e mettete al modo figli e figlie; scegliete mogli per i figli e maritate le figlie. Moltiplicatevi lì e non diminuite. Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere”» (Ger 29, 4-7).

Questo aspetto dell’esilio babilonese può rappresentare quel lato della vita presente che attenua l’amarezza dell’esilio, perché la terra dove viviamo adesso ha conservato qualche somiglianza con la terra edenica e, dovutamente coltivata, governata e curata dal cristiano, è un’incoazione e una primizia della futura terra della resurrezione.  Attualmente la natura è ribelle ed ostile all’uomo, mentre questi ha perduto la forza che egli aveva nell’Eden di dominarla a volontà. La natura tornerà ad essere pienamente soggetta all’uomo alla resurrezione

Del resto, questa terra, come la terra dell’Eden e quella dei risorti, è sempre la stessa terra creata da Dio in tre condizioni storicamente successive della sua esistenza: la terra che ha ospitato la coppia primitiva, la terra che ospita l’umanità attuale e la terra che ospiterà i risorti. Il paradiso terrestre quindi era su questa terra e questa stessa terra, trasfigurata, sarà la terra dei risorti.

Il fatto che adesso ci troviamo in esilio su questa terra non toglie affatto che essa continui ad essere la nostra casa, che, nelle sue svariatissime bellezze ed infinite risorse, maternamente ci nutre e ci sostiene, come dice splendidamente San Francesco nel suo Cantico delle creature, «con fructi, fiori et erba». Ma nel contempo la natura, offesa dal peccato originale, è strumento dei divini castighi e in tal senso vale l’espressione antitetica, ma anch’essa vera, di «valle di lacrime».

Il fatto che questa terra non sia la nostra patria definitiva, ma un transeunte luogo di passaggio, non toglie il nostro dovere di custodirla, averne cura e governarla saggiamente, soprattutto facendo in modo di non danneggiarla o rovinarla, ma di utilizzarla con moderazione e laboriosità a vantaggio di tutti e stimolando un continuo progresso umano nella conoscenza e nel domino della natura. La disciplina morale che regola in questo campo il nostro agire è l’ecologia.

Discorso simile vale per il mondo, creato da Dio, ma attualmente sotto il dominio di Satana, in punizione del peccato originale. Occorre dire peraltro che il mondo è distinto dalla natura. Per «mondo» s’intende l’umanità sulla terra; mentre la natura è l’insieme delle creature umane ed infraumane, compreso il cosmo siderale.

Nella vita presente il mondo, come la natura, presenta aspetti opposti: per un verso è aperto a Dio e salvabile, mentre per un altro è chiuso alla salvezza e condannabile. La sua durata temporale è limitata: un giorno, non sappiamo quando, il mondo finirà. Col Ritorno di Cristo, il Giudizio universale e la resurrezione dei morti si avranno «cieli nuovi e terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (II Pt 3,13).

C’è inoltre un’altra differenza fra l’immagine dell’esilio babilonese e l’esilio del cristiano in questo mondo, che gli Ebrei aspiravano a tornare là da dove erano partiti, ossia a Gerusalemme, mentre la prospettiva del cristiano non è quella di tornare nell’Eden, ma, come Abramo, quella di raggiungere una patria migliore e sconosciuta, promessa da Dio. La Palestina è solo una prefigurazione della patria celeste, della casa del Padre, dove Gesù va a preparare un posto per i suoi discepoli (cf Gv 14,2).

Il fatto molto importante da tenere presente è che per il cristiano la vita presente per un certo aspetto è migliore della vita edenica per il fatto che adesso noi, grazie al dono della divina figliolanza, frutto dell’opera di Cristo, possiamo fruire di una vita divina – la vita della grazia cristiana - come partecipazione del Mistero Trinitario, sconosciuta allo stesso Adamo nel paradiso terrestre, dove viveva sì in una certa amicizia con Dio, senza però ancora conoscerlo come Dio trinitario.

Viceversa, per l’umanità peccatrice, punita e miserabile su questa terra a seguito del peccato originale Dio Padre ha concepito un piano di salvezza nel suo Figlio e nello Spirito Santo, per il quale ha voluto inviare su questa terra sventurata e dominata da Satana, il suo Verbo incarnato, il quale, grazie alla sua croce e resurrezione, non soltanto ci ha liberati dal peccato, dalla morte e dalla sofferenza, ma ci ha donato lo stato di figli di Dio, ad immagine del Figlio, mossi dallo Spirito Santo.

Cristo quindi ci ha fatto il dono di una nuova, più alta, più intima e più felice fratellanza come figli del Padre, oggetto, questa, non di semplice constatazione di fatto come la naturale fratellanza e figliolanza naturale biologica, ma oggetto di libera scelta nella luce della fede e sotto la mozione dello Spirito Santo, uniti da quel soprannaturale vincolo d’amore che è la carità, la quale non è il semplice vincolo morale col quale ci sentiamo obbligati ad amare il prossimo come noi stessi, ma ad amarlo per amore del Dio Trinitario, ad amarlo come Cristo lo ama, ossia dando come Cristo la nostra vita per lui, ad amarlo vedendo nel prossimo, soprattutto nel povero e nel sofferente, la presenza di Cristo, ricordando che Cristo considera come fatto a Lui quel bene che uno fa sinceramente e disinteressatamente al prossimo, anche se lo fa senza sapere esplicitamente di servire Cristo.

La morte, dunque, per il cristiano, è un lasciare questo mondo per andare, non per «tornare» - come alcuni male si esprimono – alla casa del Padre, dato che alla casa del Padre non ci sono mai stati. È solo il Figlio che proviene dal Padre, viene nel mondo e torna al Padre (Gv 16,28). Noi proveniamo dal nulla, in quanto siamo creati da Dio dal nulla e solo diventando figli di Dio, abbiamo la possibilità, in Cristo, di andare ad abitare presso il Padre.

 

Per comprendere appieno il significato della vita presente

non basta la metafora dell’esilio

 

La vita presente, inoltre, aggiunge alla metafora dell’esilio altri elementi.  Essa è passaggio dalle tenebre alla luce (Mt 4,16), secondo le indicazioni dell’Apostolo:

 «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13,12).

Per San Paolo è passaggio dalla morte del peccato alla vita di grazia mediante il battesimo (Rm 6,4). È graduale mortificazione dell’uomo vecchio e sviluppo dell’uomo nuovo (Rm 6,6). È passaggio dall’uomo carnale all’uomo spirituale (I Cor 2,14). È passaggio dall’uomo terrestre all’uomo celeste (I Cor 15,49). Più precisamente, Paolo si esprime in questo modo:

«Se c’è un corpo animale (psychikòn), vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo Adamo divenne un’anima vivente (psychèn zosan), ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita (pneuma zoopoiùn). Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste» (I Cor 15, 44-49).

Facciamo attenzione ad intendere bene che cosa dice San Paolo. Potrebbe infatti esserci il rischio che qualcuno interpreti questo passare dall’animalità alla spiritualità, che poi caratterizza la vita presente del cristiano, come se in cielo dovesse venir meno la definizione dell’uomo come animal rationale per diventare puro spirito o la «ragion pura» di Kant o l’«io puro» di Fichte o la «pura coscienza» di Husserl. Non vi sarebbe peggiore equivoco! Dove infatti andrebbe a finire la resurrezione del corpo, della quale Paolo è chiarissimo e fermissimo banditore?

E così pure occorre interpretare bene che cosa è questo passaggio dal terreno al celeste: «Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo». San Paolo si riferisce al passaggio dalla condizione di Adamo nel paradiso terrestre alla condizione del cristiano, figlio di Dio, mosso dallo Spirito Santo (Rm 8,14). Costui è l’«uomo che viene dal cielo», il «corpo spirituale», che Paolo chiama «spirito datore di vita». È l’«uomo spirituale» di I Cor 2,15.

Qui San Paolo distingue terra e cielo così come distingue corporeità-animalità e spirito. Egli non nega che il corpo dell’uomo risorto sia terreno-animale, perché altrimenti negherebbe l’animal rationale come essenza dell’uomo, ma intende dire che è animato dallo Spirito Santo in quanto figlio di Dio, così come dovrebbe esser chiaro che Paolo, dicendo che Adamo, «tratto dalla terra, è di terra», non intende negare che anche Adamo fosse animato da un’anima spirituale. Ci mancherebbe! Ma intende solo riferirsi al fatto che mentre la coppia genesiaca doveva riprodurre la specie umana, la coppia della resurrezione esprime solo l’amore reciproco nella grazia dello Spirito Santo.

Quanto a Gesù Cristo, Egli, nel trattare del passaggio dalla vita presente a quella futura non usa questi concetti e queste metafore, non si ferma, come Paolo, a parlare del mutamento o passaggio dallo stato edenico a quello attuale ed a quello della resurrezione. Probabilmente Paolo ricava questi concetti dal platonismo, sebbene anche Gesù utilizzi la metafora della «terra» e del «cielo» per indicare la differenza tra le cose materiali e quelle spirituali e divine.

Invece Gesù preferisce riprendere il linguaggio veterotestamentario parlando dell’ingresso nel regno dei cieli e di come entrarvi, magnificando la bellezza del regno di Dio, come una nuova terra promessa, avvertendo altresì circa il futuro  giudizio di Dio, parlando della necessità della penitenza, delle buone opere e della conversione, esortandoci a confidare nella misericordia del Padre, ammonendo di non abbandonarci agli allettamenti ed alle illusioni della vita presente, ma raccomandando di accumulare meriti per il cielo, trafficando i talenti ricevuti, tenendoci pronti all’arrivo dello «sposo» o vigilando perché il ladro arriva improvvisamente di notte, nel ricordo della precarietà di questa vita, della tignola che sfonda e del ladro che ruba, esortando a farsi un «tesoro» nei cieli (Lc 12,33).

Riguardo alla vita presente, Gesù dichiara

«beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli; beati gli afflitti, perché saranno consolati; beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima d voi» (Mt 5, 3-12).

C’è da notare che qui Gesù parla di persone che sono beate già da adesso. Figuriamoci poi quanta non sarà la loro beatitudine in cielo. Qui noi vediamo come l’immagine dell’esilio, senza perdere il suo valore, debba essere accompagnata da queste parole di Cristo e solo allora avremo un’idea precisa ed evangelica di quale sia il significato e il valore della vita presente. Essa resta sempre una valle di lacrime, le quali però sono asciugate da Dio in forza della nostra consapevolezza e della nostra volontà di unire la nostra sofferenza a quella di Cristo, dalla consapevolezza di patire a causa di Cristo e per Cristo, e dalla volontà di piangere per i nostri peccati.

In tal modo la vita di quaggiù diventa sin da adesso la pregustazione delle «primizie dello Spirito» (Rm 8,23). Ma la diventa anche per il fatto che, grazie all’esercizio della carità e di tutte le virtù, noi iniziamo sin da adesso, pur sempre nelle condizioni della natura decaduta, a sperimentare i frutti della grazia, i germi della gloria futura e gli albori della resurrezione.

Mentre per Paolo la vita presente dev’essere passaggio dall’infantilismo alla maturità di giudizio (I Cor 4,20), Gesù in certo modo capovolge il discorso di Paolo, presentando invece il cammino dalla vita presente come passaggio dall’adulto malizioso, doppio e superbo al bambino innocente, semplice e umile (Mt 18,3).

Occorre anche l’immagine di Gerusalemme

Altra immagine del cammino della vita presente verso la patria celeste è la metafora del pellegrinaggio a Gerusalemme. La Bibbia presenta la vita presente anche come un pellegrinaggio (Eb 11,13; I Pt 2,11). Ora, nella Sacra Scrittura Gerusalemme è la capitale del regno d’Israele, sede del re Davide e della sua discendenza fino a Gesù Cristo, figlio di Davide. Ma noi cristiani, come vedremo tra poco nell’Apocalisse, dobbiamo unirci ai nostri fratelli Ebrei nel pellegrinaggio alla Gerusalemme celeste.  Cristo, infatti, che non è stato re della Gerusalemme terrena, regna tuttavia nella Gerusalemme celeste, la «nuova Gerusalemme», che San Giovanni nell’Apocalisse, vede «scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2).

Prosegue Giovanni:

«Udii allora una voce potente che usciva dal trono» (del Padre e del Figlio): «“Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà con loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” e soggiunse: “scrivi, perché queste parole sono certe e veraci: Ecco, sono compiute! Io Sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita. Chi sarà vittorioso erediterà questi beni: io sarò il suo Dio ed egli sarà il mio Figlio”» (Ap 21, 3-7).

Continua Giovanni:

«Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno di luce di sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte, e porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello».

(L’angelo) «mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come il cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni. E non vi sarà più maledizione. Il trono di Dio e dell’Agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi l’adoreranno; vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 21, 22-27; 22, 1-5).

La glorificazione celeste di Gerusalemme è evidentemente la glorificazione escatologica di Israele, popolo eletto, del quale Gerusalemme è la capitale. Ma è evidente che nel contempo la Gerusalemme celeste è anche la Chiesa trionfante del paradiso sotto il regno del Padre e del Figlio, quindi la città dei beati, ebrei e non ebrei.

Da notare altresì che Gerusalemme è l’unica città espressamente nominata dalla Bibbia come città messianica ed escatologica, simbolo della beatitudine celeste, la «casa del Padre», destinata quindi a durare fino alla fine del mondo. L’empia e pagana Babilonia è sparita e non restano che poche rovine.  L’esilio è cessato e adesso ci si profila la patria. Neppure la Roma papale ha avuto dalla Bibbia l’onore che ha avuto Gerusalemme. Ed è ben giusto, perché Pietro è andato in missione a Roma e, terminata alla fine del mondo la missione, tornerà a Gerusalemme trasfigurata dalla gloria.

In base a quanto ho detto si comprende bene che la presenza in questo mondo di Gerusalemme, la Città Santa, Città della Pace destinata dalla stessa Parola di Dio ad una gloria eterna nella terra dei risorti, è per i credenti e tutti gli uomini di buona volontà motivo di grande consolazione e di speranza. L’esilio terreno è addolcito dalla presenza tra noi di Gerusalemme.

Conclusione

Questa volta Luigino ha brillato e spero che continui così. Sta ricostruendo ciò che aveva distrutto. Le mie congratulazioni per lui ed anche per il Direttore Tarquinio, che immagino abbia messo in questa delicata vicenda i suoi buoni uffici, con sicura soddisfazione per i nostri Vescovi e i lettori, nonché grande vantaggio per il buon nome di Avvenire, che così si conferma nel suo prezioso servizio di Quotidiano di ispirazione cattolica.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 ottobre 2020

 


Gerusalemme Celeste, Arazzo dell'Apocalisse, Castello di Angers, Francia

Gerusalemme Celeste, Rupnik 

(immagini da internet) 



 


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