Ateismo e salvezza - Terza Parte (3/10)

 

Ateismo e salvezza

Terza Parte (3/10)

Alcune considerazioni iniziali

I ragionamenti tortuosi allontanano da Dio

Sap 1,1

La distinzione fra atei e teisti non è facile. Ci sono in gioco due cose: che cosa s’intende con la parola Dio e qual è il giusto concetto di Dio. Al riguardo, tenendo conto di ciò, si può dire che ci sono certamente alcuni che sono indubbiamente atei. Ma ci sono anche alcuni che sembrano atei, ma che in realtà non lo sono. Altri sono teisti senz’alcun dubbio. Altri ancora sembrano teisti, ma in realtà sono atei.

 Chi non parla mai di Dio non necessariamente è un ateo, mentre può essere sostanzialmente ateo un religioso o un teologo accademico che hanno sempre il nome di Dio sulla bocca, ma in realtà non ci credono e non obbediscono a Dio. Ma chi parla di Dio, ne ha un giusto concetto? Non è sempre detto. E si può avere un giusto concetto di Dio senza nominarlo?

Teismo e ateismo si oppongono certamente come due visioni opposte su Dio. Tuttavia la sostanza della loro opposizione non sta tanto sul piano teoretico, quanto piuttosto su quello pratico: è teista chi obbedisce a Dio; è ateo chi gli disobbedisce. Tutti infatti sanno che Dio c’è, anche chi ne nega l’esistenza.

L’opposizione decisiva alla salvezza, quindi, non è sul piano teoretico, ma su quello pratico. Non serve a nulla ammettere che Dio esiste, se poi non si fa la sua volontà. Viceversa, non è escluso che uno neghi che Dio esiste, ma che poi, messo alla prova dei fatti, Gli obbedisca. 

Questo fatto si può dimostrare considerando che l’opposizione reciproca fra Cristo e i farisei dipendeva dal fatto che, benchè sia Cristo che i farisei parlassero di Dio, in sostanza Cristo era teista, mentre i farisei erano criptoatei e finti credenti.

La discriminante decisiva, quindi, tra teismo e ateismo può esser certo l’opposizione esplicita e formale che separa Adamo, Abramo, Mosè, Isaia, Geremia, Salomone, Davide, San Giovanni Battista, Cristo, San Paolo, San Giovanni, Sant’Agostino, i Santi Padri e i Dottori della Chiesa, San Bonaventura o San Tommaso da Protagora, Sesto Empirico, Pirrone, Lucrezio, Feuerbach, Helvetius, D’Holbac, La Mettrie, Spencer, Büchner, Moleschott, Marx, Engels, Lenin, Stalin, Comte, Stirner, Strauss, Schopenhauer, Carnap, Freud, Nietzsche, Sartre, Camus, Mao Tse Tung, Vattimo, Margherita Hack, Piero Angela, Odifreddi.

Ma la discriminante essenziale che ci fa fare con certezza la distinzione al di là delle apparenze, è il modo col quale parlano di Dio, è il concetto che hanno di Dio, sono gli attributi che danno a Dio, è vedere chi parla di Dio nel modo giusto e chi lo fa nel modo sbagliato, chi adora un idolo anziché Dio, chi adora la sua idea di Dio anziché il Dio reale, chi rifiuta il vero Dio e chi rifiuta quello falso credendo che sia quello vero.

Molti che parlano di Dio, infatti, come per esempio Scoto Eriugena, Ockham, Marsilio Ficino, Cartesio, Spinoza, Fichte, Schelling o Hegel, ci fanno dubitare, da come ne parlano, se sono veramente teisti o non piuttosto atei o quanto meno se non conducono all’ateismo. Quanto agli agnostici, che asseriscono di non sapere se Dio esiste o non esiste e non si pronunciano, anche loro in realtà devono fare i conti con Dio ed è possibile dallo studio del loro pensiero vedere in quale dio credono.

D’altra parte chi si ritiene ateo senza esserlo, si salva. Chi è veramente ateo si danna, perché è impossibile che faccia la volontà di Dio. Chi è teista, se fa la volontà di Dio, si salva. Chi sa chi è Dio ma non mette in pratica i suoi comandamenti, è come se fosse ateo e non si salva. Tutti sanno che Dio esiste. L’alternativa tra teismo e ateismo in rapporto alla salvezza è data solo tra coloro che fanno la volontà di Dio e quelli che non la fanno, fossero anche teologi di un’Università pontificia e conoscessero a memoria la Somma Teologica di San Tommaso d’Aquino.

Circa la questione dell’essenza dell’ateismo, oltre al fatto di negare esplicitamente l’esistenza di Dio, ci sono altre due possibilità: o chiamare Dio ciò che non è Dio, oppure avere un falso concetto di Dio o quanto meno insufficiente per avere un giusto rapporto con Dio e ottenere la salvezza. Il concetto di Dio, infatti, potrà essere difettoso e non per questo è inutile per salvarsi. Deve però avere dei requisiti minimi, al di sotto dei quali, a causa della sua falsità, è inutilizzabile ai fini della salvezza.

Il problema dell’ateismo è connesso col concetto che ci facciamo di Dio e con l’uso della parola Dio. Quale significato diamo alla parola? Che cosa vuol dire? Qui la cosa non è difficile: basta consultare un vocabolario sotto la parola Dio e tutti ci troviamo d’accordo. Altrimenti a che cosa servirebbero i vocabolari? In questo senso tutti sanno chi è Dio.

Tuttavia la questione non è così semplice. Infatti, anche ammesso che uno accetti la definizione del vocabolario, non per questo è un credente in Dio, non per questo è un teista, ma può essere anche un ateo. Infatti può dirci: accetto che la parola Dio voglia dire ente supremo o causa prima; ma appunto, io non ammetto affatto un ente supremo o una causa prima. Non esistono gradi di essere, ma solo enti diversi allo stesso livello, anche se più o meno importanti.  E nelle cause si può retrocedere all’infinito. O se vogliamo, per me l’ente supremo o la causa prima non è Dio, ma l’uomo o la natura o la coscienza.

Altri dicono: perché porci problemi del genere? Problemi così astratti? A che pro? Che ne sappiamo? Non vedete i continui contrasti su ciò da millenni tra i filosofi?  Badiamo piuttosto alle nostre necessità quotidiane: esse ci pongono dei problemi reali, risolvibili ed utili al nostro vivere normale.

Eppure dobbiamo dire a ragion veduta con la Sacra Scrittura (Sal 14,1 e 53,2) che negare l’esistenza di Dio non è saggezza ma stoltezza, la quale consiste nel cattivo uso della ragione, che, posta davanti all’effetto, s’interroga sulla causa, la cerca e non è sazia finchè non la trova, ammesso che sia trovabile. Ma Dio si lascia trovare da chi lo cerca con cuore sincero (cf Dt 4,29; Sap 1,2; Ger 29,14). Questa è saggezza.

Infatti, come afferma il libro della Sapienza, «dalla bellezza e dalla grandezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (13,5). Il segreto insegnatoci dalla Bibbia, sin dal primo versetto della Scrittura, per scoprire l’esistenza di Dio è la riflessione sul nostro operare artistico.

Ci accorgiamo infatti che le cose non possono essersi fatte da sè, ma sono fatte da qualcuno dotato similmente a noi di intelligenza e volontà, qualcuno infinitamente più potente di noi, perché mentre noi produciamo un’opera servendoci di qualcosa di preesistente a noi non fatto da noi, chi ha prodotto le cose, deve averle prodotte nella loro totalità quindi nel loro stesso essere o nella loro esistenza. Ossia deve averle create dal nulla.

Arenarsi, come è successo a Kant, sul problema dell’esistenza di Dio limitandosi ad ammettere soltanto l’idea di Dio, o addirittura arrivare a dire come lui che è impossibile dimostrarne razionalmente l’esistenza, non è segno di saggezza, non è segno di grandezza filosofica, ma di ristrettezza mentale, che Kant ha ereditato da Hume, senza per questo negare a Kant per altri versi nobiltà di pensieri e di intenti morali e speculativi.

Infatti la stoltezza come vizio della volontà oltre che dell’intelletto, è espressione in una ragione miope, ristretta, carnale, capziosa e sofistica, doppia e insincera, la quale, mossa dalla cattiva volontà o da superbia, si adagia nelle cose di questa terra e rifiuta di ammettere l’esistenza di Dio pur avendone le prove. E perché si rifiuta? Siamo sinceri: non per ragioni scientifiche o teoretiche che non esistono, ma perché la ricerca di Dio pesa troppo e dà fastidio, perché Dio comanda cose che invece l’ateo non vuol fare.

Allora, per sentirsi autorizzato a farle, l’ateo dice che Dio non esiste, con la pretesa magari di dimostrare che non esiste o che è impossibile dimostrare che esiste, mentre sa benissimo che esiste. Siamo portati a negare l’esistenza di una verità che ci dà fastidio. Tutti noi, infatti, un giorno dovremo presentarci davanti a Dio per render conto delle nostre opere, atei compresi.

Occorre però tener presente che ateo non è solo colui che esplicitamente nega l’esistenza di Dio, magari con tono spavaldo e tracotante, ma ateo può essere anche un finto o falso teista, che tergiversa e quando si profila la conclusione del ragionamento, si ferma tirando fuori vani pretesti per non essere obbligato a riconoscere la verità. Ed è chiaro che se non si corregge, non si salva.

D’altra parte capita che chi sembra ateo nel parlare, o tacendo sempre di Dio o disinteressandosi di religione o mostrando pregiudizi contro i credenti, in realtà possa essere teista e quindi salvarsi, perchè al lato pratico fa eventualmente la volontà di Dio sentita come dovere di coscienza, volontà di un Dio per lui nascosto sotto la dignità del prossimo, che egli ama. E così pure un teista può essere in realtà ateo e quindi dannarsi, anche se esplicitamente afferma l’esistenza di Dio, ma regola la sua volontà non secondo la volontà di Dio, ma secondo la propria.

Insomma,  per poter arrivare al vero teismo, ed evitare l’ateismo esplicito o implicito, occorre essere realisti, aderenti alla realtà esterna, e pertanto riconoscere la veracità, benché non infallibile, del senso e dell’intelletto, svolgendo l’attività conoscitiva col passare dall’iniziale esperienza sensibile all’intuizione intellettuale e dalla conoscenza delle cose materiali a quella delle realtà spirituali, nonché dall’effetto alla causa, giacchè Dio è la suprema realtà spirituale, causa creatrice delle cose visibili e  quelle invisibili.

Chi invece crede che la verità non esista, ma per me è vero ciò che per te è falso, chi crede che oggi è vero ciò che ieri era falso, chi crede che il sì e il no stanno assieme, chi crede che l’essere sia identico al  non-essere, chi crede che due che si contraddicono hanno ragione entrambi,  chi crede che l’uomo sia la regola e la misura delle cose e che non siano le cose a regolare il sapere umano, chi crede che il sapere si fermi al sapere sperimentale e non esista un sapere metafisico, che l’oggetto del sapere siano le sue idee o i suoi concetti, i prodotti della sua immaginazione  o ciò che egli fa, il verum ipsum factum di Gianbattista Vico, o ciò che gli sembra - verum est quod videtur - o ciò che decide lui esser vero – il pensare confuso col volere come in Fichte e in Nietzsche, costui resta bloccato sulla via che conduce a Dio. Ciò non dipende da fattori esterni al suo volere, per cui egli non è senza colpa. Non vede perché non vuol vedere.

Ad ogni modo, per salvarsi è sufficiente una nozione di Dio, che può essere difettosa, piuttosto vaga, grossolana o carente, ma sincera e convinta e contenente l’essenziale magari in pochissimi concetti spontanei; si potrebbe dire in modo fanciullesco, concetti non raffinati ed elaborati, come per esempio Dio come Verità o Giustizia, Dio come ragione della fratellanza umana, come Signore giusto e misericordioso, che premia e castiga, come Architetto dell’Universo, come Mistero assoluto ed amabile e cose del genere.

Parlare di Dio? Come?

Come sappiamo, il secondo Comandamento ci ordina di non nominare il nome di Dio invano. Occorre essere molto attenti nel parlare di Dio, occorre farlo con molta prudenza, perché è facile peccare in questo campo e che assegniamo a Dio un attributo che non gli conviene o Gli neghiamo o fraintendiamo una proprietà essenziale.

Dunque Dio si può nominare; il problema è quello di parlarne come conviene. Tuttavia, come la stessa Bibbia ci avverte, può capitare che la nostra esperienza dell’incontro con Dio sia talmente sublime ed intensa, che ci manchino le parole per esprimere quanto abbiamo provato[1].

È questa, allora, l’esperienza mistica, che ci impone di tacere. Non che ci venga meno il concetto di Dio, tutt’altro: esso è talmente luminoso ed entusiasmante che ciò che vediamo è talmente alto, che, come disse San Tommaso, le nostre parole ci sembrano «paglia».

A parlare peraltro di Dio s’impara, s’impara dalla Bibbia, s’impara dai buoni filosofi e dai buoni teologi, s’impara dai Santi, dai profeti e dal Magistero della Chiesa. S’impara soprattutto da Gesù Cristo. Impariamo anche da soli, dai nostri educatori e maestri, per mezzo della meditazione e della riflessione, ricavando conseguenze da quanto è stato detto da altri, ascoltando e chiedendo luce allo Spirito Santo.

Bisogna che ci rendiamo conto della limitatezza e povertà del nostro linguaggio. Capita che non riusciamo ad esprimere con parole adatte quello che concepiamo, intuiamo, vediamo, intravediamo sentiamo, sperimentiamo. È meglio tacere. Purtroppo ciò che di meglio gustiamo di Dio e che vorremmo comunicare agli è proprio ciò che noni riusciamo ad esprimere a parole.

Senza nozioni e termini presi dalla metafisica è impossibile esprimersi nel linguaggio religioso e teologico[2].. Chi disprezza la metafisica o non ci capisce nulla è quell’uomo carnale o animale, del quale parla San Paolo, che non capisce le cose dello spirito (I Cor 2,14). Gesù Cristo usa nozioni metafisiche, come ho ampiamente dimostrato in un mio apposito studio[3], naturalmente le nozioni spontanee della ragione naturale, non quelle elaborate in senso scientifico.

Quanto alla predicazione, il parlare di Dio in essa richiede opportuni espedienti riguardanti l’arte oratoria, come per esempio il saper dar senso e calore a quello che si dice, il saper regolare il volume della voce, le pause, il gesto e lo sguardo, ricordando che il predicare si esplica in lezioni di scuola, conferenze, omelie della Messa, recita dell’ufficio divino corale, guida spirituale.

In particolare quando preghiamo dobbiamo esprimerci con le stesse cadenze o modalità che useremmo come se fossimo davanti ad un’altra persona umana. Ci si rivolge a Dio in modo simile a quello col quale ci rivolgiamo al nostro prossimo. È così che la nostra parola acquista in persuasività, vivacità, incisività ed attrattiva per chi ci ascolta. Invece i toni scialbi, spenti, monotoni e melensi e le cantilene annoiano e danno l’impressione in chi ci ascolta che noi non crediamo a quello che diciamo, ma che lo diciamo solo perché dobbiamo dirlo ed è suonata la campanella del coro.

Forse a volte possono servire la danza o lo sguardo o la posizione del corpo o il gesto o la musica o il canto o le lacrime. Se la teologia non è adatta, può servire la poesia, come osserva Heidegger, una cosa che aveva già detto il Boccaccio. In effetti la Scrittura ci parla mediante i Salmi, che sono componimenti poetici. Vediamo, ma non riusciamo a spiegare che cosa vediamo e come vediamo.

Riguardo al parlare di Dio esistono vari casi. Alcuni non nominano Dio perché per loro è una parola che non ha senso. Altri non parlano di Dio perché credono che non esista. In realtà sanno che esiste, ma respingono una falsa immagine di Dio. Altri non parlano di Dio perché non vogliono pararne, perché sono inquieti o in contrasto con Lui.

È vero che con la parola Dio si possono intendere o ci si può riferire a cose diverse, ed è ben vero che questa parola può avere diversi significati. Tutti sanno che cosa s’intende con la parola Dio. Basta aprire un vocabolario. Con la parola Dio tutti intendono un ente assoluto, perfettissimo, primo, sommo e supremo, causa, fine e governatore del mondo. Tutti hanno il concetto di Dio. Come mai questo? Perché tutti capiscono che un effetto ha una causa e un agente ha un fine. Chiamiamo Dio la causa prima dell’effetto e il fine ultimo dell’agente.

Per alcuni non esiste una causa prima, ma si retrocede all’infinito. Esistono solo cause causate. Effettivamente ciò sembrerebbe vero, stando alla nostra esperienza dei fenomeni della natura. Senonchè la causa, per essere causa vera e sufficiente, deve spiegare esaurientemente, totalmente e sufficientemente l’effetto. Una causa che sia effetto non è causa nel senso pieno e compiuto della parola e del concetto.

Importanza del concetto di causa

La nostra ragione, vedendo un effetto, concepisce spontaneamente una causa che sia solo causa. Il problema semmai è quello di sapere come è fatta questa causa, qual è questa causa, quali attributi darle. Ad ogni modo, affinchè esista tale spiegazione o fondazione dell’effetto, bisogna che la causa non sia causata, ma solo soltanto causa. Lo stesso dicasi del fine.

La nostra ragione concepisce spontaneamente la causa efficiente o producente, quindi la causa creatrice, constatando l’effetto mosso, fatto e prodotto. Effetto vuol dire fatto. Se c’è un prodotto, c’è un produttore.  Occorre dunque porre una causa motrice, produttrice, creatrice: motrice del movimento o del divenire, produttrice dell’essenza, creatrice dell’essere.

La causa, per spiegare sufficientemente l’effetto, deve produrlo tutto; non solo nel suo divenire (causa motrice), non solo in quanto fatto (causa efficiente o produttiva) nella sua forma o essenza (causa formale o ideale), non solo nel suo agire (causa finale), ma anche nella sua esistenza o nel suo essere (causa creatrice).

La causa materiale è il fondamento o sostrato o soggetto dell’ente materiale, per cui non occorre porre una causa materiale prima, precedente all’ente materiale ma la causa materiale sufficientemente esplicativa della materia dell’ente corporeo è la sua materia. Siccome però la materia è poter-essere, anch’essa necessita della causa del suo essere e quindi anche l’esistenza della materia postula l’esistenza della sua causa creatrice.

La causa creatrice dell’essere non può essere materiale, ma è puro spirito, pura forma, e quindi sostanza personale intelligente, in quanto Idea del mondo e volente in quanto liberamente lo crea. Non può essere materiale, perché la materia, essendo poter-essere, non può essere incausata, cioè non può essere causa dell’essere, perché tale causa dev’essere essere perfettissimo, ossia atto puro di essere. Inoltre la materia è nello spazio-tempo, che sono accidenti della sostanza, quindi causati, mentre solo lo spirito, nella sua immaterialità, è al di sopra dello spazio-tempo e quindi solo lo spirito può essere creatore e dello spirito e della materia.

Nell’interrogarci sull’origine del mondo e delle cose non possiamo fermarci sul piano dell’essenza, del concetto, della causa formale o ideale, ma occorre porre anche e soprattutto il problema della causa efficiente, che riguarda l’essere extramentale e la realtà esterna indipendente da noi e dalle nostre idee, causa che produce l’essere dal nulla, altrimenti finiamo nell’idealismo e nel  panteismo, come è successo a Spinoza, col confondere Dio con l’idea di Dio o nell’ateismo, come è successo a Marx, col confondere Dio con la materia e con l’uomo.

La causa prima non può essere, come credeva Kant, un’Idea senza essere Realtà, ma dev’essere coincidenza di pensare ed essere. Per essere quello che deve essere, dev’essere il suo stesso pensare e deve pensare il suo stesso essere, che è pensiero: «Pensiero del Pensiero», come dice Aristotele.

La causa ideale, efficiente, motrice e finale sta ontologicamente sopra l’effetto (cielo, spirito); la causa materiale sta sotto (terra, carne); la causa formale è immanente all’effetto (essenza).

L’oggetto iniziale del nostro intelletto nel processo e sviluppo temporale del nostro conoscere, che parte dall’esperienza dei sensi, non è l’essere assoluto, infinito ed eterno, l’essere la cui essenza è quella di essere, l’essere assolutamente necessario, insomma non è Dio, ma sono i suoi effetti creati, sono le cose sensibili e materiali esterne, tutte incluse e comprese implicitamente nel concetto più ampio di tutti, l’ente comune, in generale o universale, l’ente trascendentale analogico, inteso come ciò che in qualunque modo  esiste o può esistere.

Noi quindi non partiamo dalla coscienza di noi stessi e dall’idea di Dio, come credeva Cartesio e neppure dall’idea dell’essere, come credeva Rosmini, ma da quella delle cose. Solo successivamente, interrogandoci sulle cause delle cose, giungiamo a scoprire l’esistenza di Dio e a farci un’idea di Dio. 

Solo interrogandoci su qual è la loro causa prima veniamo veramente a conoscenza dell’esistenza di Dio, appunto come causa prima creatrice delle cose. Il che non vuol dire che volendo dimostrare a qualcuno che Dio esiste, non siamo obbligati ad accordarci con lui su che cosa intendiamo con la parola Dio secondo il vocabolario. Quindi in questo senso è vero che per sapere l’an sit, se Dio esiste occorre preliminarmente conoscere il quid sit, il che cosa o chi è Dio, in certo modo confusamente e indeterminatamente l’essenza di Dio.

Per sapere che Dio esiste bisogna tenersi sul piano dei fatti e della realtà, perché non si tratta di spiegare un’idea ma il fondamento e la causa del reale, del mondo, dell’uomo e delle cose sensibili e spirituali, non solo del pensare ma anche e, ancor prima, dell’essere. Allora scopriremo un Dio-Realtà, trascendente e creatore e non daremo corpo a una nostra idea, un’idea bellissima, sublime ed eccelsa, ma costruita a tavolino.

Concepire Dio come ente perfettissimo o come id quo nihil maius cogitari potest, o come ente che esiste per essenza va benissimo, come fece Sant’Anselmo, è segno di un’alta intelligenza metafisica e capacità astrattiva o speculativa, ma campata per aria, senza supporto o giustificazione nella realtà che noi sperimentiamo.

Infatti da dove viene quel concetto di Dio? Esso non è costruito per chiarire l’essenza della causa prima scoperta partendo dall’esperienza delle cose sensibili, ma per un puro processo mentale astrattivo di chiarimento del concetto dell’essere in rapporto all’essenza. Anselmo si è accorto della possibilità di concepire un ente la cui essenza fosse quella di essere o di esistere, ed ha creduto che questo semplice modo di concepire Dio lo autorizzasse ad affermare che Dio esiste realmente.

Da qui ha dedotto che questo ente sommo da lui immaginato, esiste, non perchè ne avesse le prove attraverso le creature, ma perché la sua mente acuta, riflettendo su ciò che l’essere poteva essere, era stata capace di concepirlo. Non si accorse che l’esistenza di questo ente era semplicemente da lui pensata, era un suo semplice concetto, e non era autorizzato a dichiararla reale, perchè non ne aveva le prove empiriche attraverso le creature, per ea quae facta sunt, per dirla con San Paolo.

Una volta che abbiamo dimostrato che Dio esiste come causa prima partendo dagli effetti creati, per capire quali devono essere le proprietà di questa causa, potremo fondatamente asserire che in essa l’essenza deve coincidere con l’essere, ma qui diremo chi è Dio perché abbiamo dimostrato che esiste. Ma non possiamo dimostrare che esiste solo perché ne abbiamo il concetto, per quanto vero e sublime.

Nel porci il problema dell’esistenza di Dio non possiamo accantonare il concetto metafisico ed analogico di causa produttiva e fermarci solo alla nozione dell’essere, come vorrebbe Bontadini, salvo poi a trovar difficoltà a capire l’identità del divenire, quasi fosse contradditorio, oltre a non capire che cosa è la creazione, risolta in una determinazione o finitizzazione dell’unico ed univoco essere divino, alla maniera di Parmenide. In tal modo il mondo non è più esterno a Dio, ma solo una parte dell’essenza divina, unica realtà esistente.

Ogni uomo sa implicitamente o esplicitamente, applicando il principio di causalità (Rm 1,20), che Dio esiste e che deve rendergli conto del suo operato, Non esiste un’ignoranza invincibile circa l’esistenza di Dio, in quanto dubbio se Dio esiste o non esiste, l’gnosticismo non esiste.

Chi ama sinceramente il prossimo, ama Dio anche se non lo sa (Mt 25), perché il prossimo è creato ad immagine e somiglianza di Dio, è opera di Dio. Per questo, amare l’immagine del Creatore e l’opera del Creatore vuol dire amare il Creatore.

Noi giungiamo a sapere che Dio esiste non riflettendo sulla nostra coscienza o autocoscienza, ma partendo dall’esperienza delle cose esterne. Non esiste, come credeva Cartesio, un’idea innata di Dio perché non esistono idee innate ossia giacenti originariamente nella nostra coscienza perché tutte le nostre idee, anche quelle delle realtà spirituali, le formiamo a partire dall’esperienza delle cose sensibili.

Una questione è quella di sapere se esiste un solo Dio o esistono più Dei. Ma, riflettendo sul fatto che il problema se esiste Dio è il problema se esiste una causa di tutte le cose, è chiaro che il vero Dio non può essere che uno solo.

Fine Terza Parte (3/10)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 3 novembre 2023


Per poter arrivare al vero teismo, ed evitare l’ateismo esplicito o implicito, occorre essere realisti, aderenti alla realtà esterna, e pertanto riconoscere la veracità, benché non infallibile, del senso e dell’intelletto.

La materia è nello spazio-tempo, che sono accidenti della sostanza, quindi causati, mentre solo lo spirito, nella sua immaterialità, è al di sopra dello spazio-tempo e quindi solo lo spirito può essere creatore e dello spirito e della materia.

Nell’interrogarci sull’origine del mondo e delle cose non possiamo fermarci sul piano dell’essenza, del concetto, della causa formale o ideale, ma occorre porre anche e soprattutto il problema della causa efficiente, che riguarda l’essere extramentale e la realtà esterna indipendente da noi e dalle nostre idee, causa che produce l’essere dal nulla, altrimenti finiamo nell’idealismo e nel  panteismo, come è successo a Spinoza, col confondere Dio con l’idea di Dio, o nell’ateismo, come è successo a Marx, col confondere Dio con la materia e con l’uomo.

La causa prima non può essere, come credeva Kant, un’Idea senza essere Realtà, ma dev’essere coincidenza di pensare ed essere. Per essere quello che deve essere, dev’essere il suo stesso pensare e deve pensare il suo stesso essere, che è pensiero: «Pensiero del Pensiero», come dice Aristotele. 

Immagine da Internet: Ritratto da giovane di Karl Marx


[1] Cf Il linguaggio della mistica, Atti del convegno di studi filosofici di Cortona, 6-7 ottobre 2001, Accademia Etrusca, Cortona 2002.

[2] Dario Antiseri nel suo libro Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso (Queriniana, Brescia 1969) mostra come la gnoseologia empirista inglese che si esprime nella cosiddetta «filosofia analitica» del secolo scorso, a causa della sua ignoranza e disprezzo per la metafisica, non è in grado di costruire una teologia razionale fino al punto che la parola stessa «Dio» diventa priva di senso e di Dio non si può dire nulla. Secondo loro, la parola «Dio» non servirebbe per esprimere ciò che s’intende dire. Osserviamo che di per sé non è proibito chiamare Dio con un nome diverso dalla parola Dio. Ma ciò non arreca alcun vantaggio, dato che tutti sanno cosa significa quella parola: basta aprire un vocabolario. Gli analisti inglesi dicano piuttosto che ciò che intendono dire non ha nulla a che vedere con Dio.

[3] Gesù Cristo fondamento del mondo, inizio, centro e fine del nostro umanesimo integrale, Edizioni L’Isola di Patmos, Roma 2019.

 

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