Le prove della esistenza di Dio secondo Kant - Prima Parte (1/4)

 Le prove della esistenza di Dio secondo Kant

Prima Parte (1/4)

            Invisibilia Dei per ea quae facta sunt                                                                                                                         intellecta conspiciuntur (Rm 1,20)

È possibile dimostrare che Dio esiste?[1]

Kant ritiene di poter dimostrare razionalmente l’impossibilità della ragione speculativa di dimostrare l’esistenza di Dio. Non dice che Dio non esiste, ma che non possiamo sapere se esiste o non esiste. Crede di poter dimostrare che le prove finora addotte non reggono. Ci siamo basati finora su di una falsa certezza. Si può e si deve ammettere come possibile che Dio esista; è un’ipotesi utile e consigliabile. Ma niente di più.  L’esistenza di Dio è «problematica» o «ipotetica».

Ma Kant non si ferma qui. Egli implicitamente sostiene anche che Dio non esiste realmente in forza del suo stesso concetto di Dio. Infatti secondo lui ciò che noi chiamiamo «Dio» non va concepito come un Ente sommo, supremo, realissimo e creatore del mondo, Ente unico ed assolutamente necessario, un primo Ente realmente esistente fuori di noi e al di sopra di noi; infatti per lui Dio così inteso è un’illusione. Preso in tal senso non è altro che la reificazione o ipostatizzazione o la personalizzazione dell’«ideale della ragione».

Dice Kant:

«L’Ente supremo resta per l’uso semplicemente speculativo della ragione, un semplice ma perfetto ideale, un concetto che chiude e corona la conoscenza umana intera, e la cui realtà oggettiva, è vero, non è dimostrata, ma non può neanche essere contrastata e se ci ha da essere una teologia morale, in grado di supplire a questo difetto, allora la teologia trascendentale» (speculativa), «prima solo problematica, dimostra la sua indispensabilità per la determinazione del suo concetto e per l’incessante censura d’una ragione molto spesso ingannata dal senso e non sempre d’accordo con le sue proprie idee»[2].

Secondo Kant, affermando che Dio esiste realmente al di fuori della nostra ragione come creatore della nostra ragione, noi diamo irragionevolmente e illegittimamente corpo e realtà a una semplice nostra idea, certo sublime ed importantissima, un’idea che fa riferimento alla totalità della realtà (omnitudo realitatis) e all’insieme di tutte le cose, ma che in fin dei conti è un oggetto ideale formato e prodotto dalla nostra ragione nell’interesse e nel bisogno supremi della stessa nostra ragione di unificare, fondare, sistemare ed ordinare tutto il materiale delle nostre conoscenze attorno ad un unico principio e modello di conoscenza, onde dare universalità, stabilità, completezza, perfezione somma e totale a tutto il nostro sapere razionale, appunto quello che Kant chiama «l’ideale della ragione», si potrebbe dire il modello e il criterio sommo del ragionare, l’orizzonte massimo della ragione, la ragione nel vertice delle sue competenze, possibilità ed attitudini, idea che la nostra ragione forma in forza della sua stessa essenza, l’idea suprema, la più alta e la più universale, della quale abbiamo bisogno per dare ordine, fondatezza, certezza, verità, oggettività, sistematicità, completezza ed unità a tutte le nostre idee e conoscenze.

Supponendo che Dio sia un Ente sommo ed infinito, per Kant la ragione speculativa non ha la forza né quindi il dovere di trascendere il mondo dei fenomeni per elevarsi alla conoscenza di questo supposto Ente, che dovrebbe oltrepassare i limiti della comprensione umana. Per Kant la ragione umana non è sovrastata da una realtà – la supposta realtà divina – che essa può scoprire partendo dal mondo dell’esperienza così come si procede dall’effetto alla causa,  causa che inoltre la ragione potrebbe conoscere ancor meglio per una rivelazione verbale fatta di Se stesso da parte di questo Ente trascendente, chiamato «Dio», quasi si trattasse di una persona infinita, dalla quale dovrebbe imparare cose che da sé, a causa dei suoi limiti, non sarebbe in grado di sapere, una persona onnisciente e ultrasapiente, infinitamente più intelligente dell’umana ragione, una persona benevola e misericordiosa,  che comunicasse per mezzo della parola conoscenze salvifiche e beatificanti, che solo a lei appartengono, trattandosi della sua stessa essenza personale sovrarazionale, conoscenze che la ragione umana dovrebbe accogliere con grata fede nell’autorità divina di questa supposta persona. 

La pura ragione, pertanto, per Kant, senza il soccorso dei sensi, conosce già da sè in base all’io penso e ai suoi princìpi a priori l’incondizionato, il necessario, l’assoluto, l’eterno e l’infinito, senza che occorra che glielo riveli un supposto Ente sovrarazionale e misterioso detto «Dio».

Se vogliamo parlare di un Dio, dice Kant, questo è il nome simbolico o la metafora o l’immagine che si possono usare per designare l’ideale supremo della ragione, una ragione per un verso finita e fallibile (l’«illusione trascendentale») come ragione speculativa per il suo aggancio all’esperienza sensibile e le inclinazioni pratiche sensibili, ma una ragione autonoma, autofondata e intrascendibile come ragion pratica depositaria ed istitutrice della legge morale, la ragione che prescrive a se stessa l’imperativo categorico. Essa postula l’esistenza di Dio non intendendo che Dio esista realmente, ma sempre inteso come principio assoluto dell’agire morale che la ragione pratica stabilisce a se stessa e da se stessa.

Secondo Kant l’affermazione che Dio esiste non è contradditoria, ma non è né certa né dimostrabile nè apodittica, ma solo ipotetica. È possibile che Dio esista, ma non ne siamo certi. Non ne abbiamo le prove sufficienti, perché la nostra ragione per essere certa dell’esistenza di una cosa della quale non ha immediata coscienza, ha bisogno di un appiglio nella sensibilità. Ma quando usciamo dall’orizzonte dell’esperienza sensibile ed entriamo nel campo del puro pensato o del puro pensare, ci viene meno la possibilità di provare che ciò che affermiamo così senza l’appoggio del senso sia effettivamente esistente. Non possiamo dimostrare niente.

Lasciando indecisa la questione se Dio esiste o non esiste, Kant crede di confutare non solo quello che egli chiama il «dogmatismo», dove mescola in un’unica condanna l’argomento ontologico che dà l’esistenza di Dio come immediatamente evidente e l’argomento per causalità, che dà l’esistenza di Dio come mediatamente evidente, ma pensa di confutare anche l’ateismo, che crede di poter dimostrare che Dio non esiste.

Invece, secondo Kant, non si può dimostrare né l’una né l’altra cosa. Kant crede così di dare un esempio di imparzialità e non s’accorge di cadere nella doppiezza. Infatti su di una questione come quella dell’esistenza di Dio, che dà alla nostra vita due sensi completamente opposti a seconda della decisione presa, il non prender posizione è impossibile[3]; non è segno di saggezza, ma di ipocrisia, che alla fine favorisce l’ateismo.

Le cose che lasciamo un sospeso o circa le quali non abbiamo elementi sufficienti per prender posizione non toccano i nostri interessi fondamentali, perché se su questo si dovesse rimanere indecisi, ciò non sarebbe segno di saggezza, ma di stoltezza. E in ogni caso ognuno deve fare la sua scelta o per Dio o contro Dio e non può non farla. Non si può restare neutrali in questa questione.  Così non si può restare perplessi tra il respirare e il non respirare o il mangiare o non mangiare. La mente che afferma Dio, vive; quella che lo nega muore.

Tutto quello che la mente può fare è oscillare volontariamente per un certo tempo, nella vita presente, tra il sì e il no; ma sospendere il giudizio, il dire «non m’interessa» è impossibile e non può che essere un peccato contro la verità, perché in ogni caso, lo accetti o non lo accetti, gli piaccia o non gli piaccia, ogni uomo ragionevole sa, implicitamente o esplicitamente, che Dio esiste, come sa che esiste il mondo ed egli stesso.

In fondo, tutto il problema del senso della vita si riduce ad una scelta o per Dio o contro Dio[4]. Per questo non ci sono scuse che giustifichino un’ignoranza invincibile circa l’esistenza di Dio. Possiamo essere ignoranti su di un’infinità di cose, ma questa la sanno tutti. Non possiamo sfuggire a Dio. Non si tratta di una scelta facoltativa, senza conseguenze. Ne va del nostro destino eterno.

Anche chi dice di non credere in Dio e di essere ateo, in realtà sa che Dio esiste, magari indirettamente o inconsciamente. Anche Kant, che ci vorrebbe convincere per il Dio-ipotetico, in realtà sapeva bene che Dio è giudice dei vivi e dei morti. Anche Marx e Lenin sapevano che Dio esiste. Quindi i tortuosi, complicati e faticosi ragionamenti di Kant, che vorrebbero convincerci della validità della sua tesi. menano il can per l’aia.

Anzi, peggio: Kant finisce per concludere, sia pur implicitamente, all’ateismo, anche se egli non se ne rende conto. Infatti, che cosa vuol dire che Dio non è reale, esterno ed oltre la ragione umana, ma è un’idea della ragione, immanente alla ragione, che Dio è «pensiero dell’uomo», se non che Dio non esiste, ma è un semplice prodotto della mente umana? Che differenza c’è allora da un Feuerbach, che un secolo dopo dirà che Dio non è altro che un ente immaginario inventato dalla stoltezza umana? Ma c’è dell’altro. Se Dio è il vertice della ragione, come non dovremo concludere che Kant conduce alla deificazione della ragione[5] ed apre la strada al panteismo?

Dio esiste come ideale della ragione

Per quanto riguarda la certezza del sapere, Kant sostiene che mentre sul piano della ragione mista, unita al senso (aposteriori) non possiamo evitare di essere ingannati dalle apparenze («dialettica trascendentale») o bloccati dalle semplici ipotesi, sul piano della ragion pura (apriori), indipendente dai sensi, la scienza, che è la scienza o autocoscienza della ragione, la vera metafisica, è certa ed assolutamente fondata. Qui Kant rifiuta nettamente lo scetticismo humiano.

Dunque circa l’esistenza del mondo ideale fondato sull’io penso cartesiano, abbiamo secondo Kant una certezza originaria, apriorica ed assoluta ed anzi il fondamento di ogni certezza e di ogni scienza. Qui non abbiamo bisogno di prove sperimentali, perché abbiamo le condizioni razionali apriori di possibilità di ogni dimostrazione razionale o scientifica.

Per Kant, quindi, ci sono due livelli di certezza; la certezza originaria dell’io penso o dell’autocoscienza cartesiana e la certezza sensibile, base per la dimostrazione razionale e scientifica. Ora la natura divina per definizione non è un fenomeno, ma si sottrae alla possibilità di essere sensibilmente verificata o ricondotta ad un dato del senso. Ora è partendo dal senso che noi pretendiamo di dimostrare, sia pur con concetti metafisici, l’esistenza di un ente sommo sovrasensibile ed extramondano, creatore del mondo, come una persona trascendente realmente esistente.

Senonchè, osserva Kant, per un’impresa del genere noi non abbiamo i mezzi sufficienti, perché non possiamo, partendo dai sensi, astrarre del tutto dalla materia e dal sensibile, e così elevarci al mondo del puro sovrasensibile e del puro spirito, quale dovrebbe essere l’essenza di Dio. Per questo non abbiamo la possibilità di dimostrare che esista realmente fuori di noi un Dio inteso come sostanza o persona assoluta.

Anche partendo, come fa Sant’Agostino, dalla coscienza della nostra anima, spirito creato e mutevole, non è possibile, per Kant, dimostrare che Dio esiste come Spirito assoluto ed immutabile, perché Kant crede che l’anima sia semplicemente un dato del senso interno. E non s’accorge che quello «spirito» umano, del quale parla tante volte come soggetto dell’intelletto, della ragione, dell’autocoscienza e della volontà non è altro che l’anima spirituale!

Per Kant, comunque, a prescindere dalle apparenze soggettive della sensibilità, resta la certezza ideale, la quale riguarda il mondo interiore della nostra ragione, del nostro spirito, della nostra mente, della nostra coscienza, del dovere morale, della logica, della matematica, degli enti di ragione, dei nostri concetti e delle nostre idee. Nell’ambito di questo mondo interiore possiamo parlare di Dio, non però come ente extramentale, trascendente ed oggettivo come fosse un fenomeno della natura, una cosa tra le altre, per quanto somma e potente.

Dio, afferma Kant, non è un oggetto esterno, ma un pensiero del soggetto. Possiamo sì immaginarlo, come un ente sostanziale personale creatore provvidente, per facilitare il nostro pensiero, bisognoso di immaginare, tenendo presente però che si tratta solo di immaginazione, perché, se dessimo corpo a tale immaginazione reificheremmo, materializzeremmo ed ipostatizzeremmo ciò che e in realtà è solo un’idea e cioè l’ideale supremo della nostra ragione. Solo questo, per Kant, è Dio. Altrimenti, egli avverte, con quella ipostatizzazione e personificazione indebita, grossolana ed antropomorfica noi togliamo a Dio la sua spiritualità, perché per Kant lo spirituale coincide con l’ideale. Ciò che è fuori dell’idea, il reale esterno è per lui solo materiale.

Kant a tutta prima dà effettivamente l’impressione di mostrarci un’immagine elevata di Dio, non come un oggetto tra gli oggetti di questo mondo, non una specie di persona umana ingrandita, come il gigante Gulliver per i lillipuziani; sembra voler purificare l’idea di Dio da ogni materialità: che cosa di più bello e di più grande possiamo immaginare della suprema fra tutte le idee che possiamo pensare?

Eppure sta proprio qui l’insidia: che si tratta di una semplice idea della nostra ragione esistente solo in essa, un ens rationis – Kant lo dice espressamente -, formata dalla nostra ragione, che presiede alla costituzione dell’essenza della nostra ragione. Quindi non un’idea sussistente indipendentemente e al di sopra della nostra ragione, come era l’Idea platonica, no.  Questo è proprio quello che Kant esclude e che considera operazione illegittima ed illusoria: dare realtà a una semplice idea.

Ma io vorrei domandare a Kant: ma Dio non è appunto un’Idea sussistente? Non è l’ipsum Esse? Colui Che È? Non è identità di essenza ed essere? Non è identità di Pensiero ed Essere? Manca l’elemento dell’Essere! E allora che Dio è quello che è solo un’idea senza possedere l’attributo dell’essere? Kant deontologizza Dio privandolo di ciò che Egli ha di più proprio e prezioso, di ciò che Egli, unico tra tutti gli enti, possiede per essenza: l’essere, l’actus essendi. Infatti, come dice bene San Tommaso, Dio è Atto puro di Essere.

Dunque, sta proprio qui un errore metafisico di Kant: il togliere sostanzialità, entità e personalità allo spirito per ridurlo ad una semplice idea può sembrare a tutta prima un’operazione sublime e una esaltazione della dignità dello spirito, ma in realtà è il suo svuotamento ontologico, che, come mostrerà la storia successiva del pensiero, dopo l’ubriacatura panteistica hegeliana, porta al materialismo, all’ateismo e al nichilismo.

Per Kant, se possiamo parlare di Dio, possiamo farlo solo per come si parla di un ideale, perchè Dio non è altro che un ideale, sommo e supremo ideale, ma sempre e solo un ideale, un pensiero interno al soggetto e prodotto dal soggetto e non una realtà esterna, indipendente dal soggetto.

Kant dunque vuole avvertirci che non possiamo rendere attuale o reale ciò che è meramente ideale o possibile. E chi tenta di fare una simile dimostrazione, Kant ne è convinto, si fonda sempre, magari inconsciamente o surrettiziamente, sul voler rendere attuale e reale ciò che è solo possibile, dar per certo solo ciò che è ipotetico, come fece Sant’Anselmo. Dio, dirà Kant, è pensabile, ma non conoscibile. Questo è l’argomento fondamentale che Kant usa per dichiarare impossibile la dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio inteso come ente reale.

Senonchè, se badiamo bene, al di là dello sbandierato spiritualismo, che cosa si nasconde dietro a questa teoria di Kant? Quali ne sono le conseguenze? Se Dio è un pensiero dell’uomo, allora Dio non si ridurrà ad essere un prodotto mentale dell’uomo? Non s’invertono forse le parti? Non sarà che Dio diventa un idolo «opera delle mani dell’uomo» (Sal 115,4)? Inoltre, nel sec. XIX, per opera della cristologia di Hegel, col pretesto dell’Incarnazione, si passerà dalla somma astrazione kantiana, alla concretizzazione, storicizzazione, temporalizzazione e materializzazione di Dio, che si autonega o si «aliena», si finitizza, diviene, soffre, si svuota (la «kenosi»), muore e risorge.

E da qui, nel secolo scorso sarebbe venuta fuori la cristologia del Cristo «cosmico»  di Teilhard de Chardin o quella «narrativa di Bruno Forte. Ma Kant in questo modo non si rendeva conto del fatto che questa sua teologia razionalista-idealista veniva a far dipendere non più l’uomo da Dio, ma Dio dall’uomo, dal pensare umano. Ciò sarebbe apparso in piena chiarezza con la teologia di Hegel, per il quale la ragione è per sua essenza divina ed assoluta.

Per Hegel, erede di Kant, la ragione umana non è una ragione finita e creata dalla Ragione divina, non è – come insegna San Tommaso – una partecipazione della Ragione divina, ma è la stessa Ragione divina nell’uomo. Quando dunque l’uomo ragiona è Dio stesso che ragiona nell’uomo. Hegel mantiene ancora la distinzione fra Dio e l’uomo, ma si tratta di una semplice distinzione di ragione come tra due aspetti intellegibili dell’Assoluto: l’Assoluto come Assoluto è Dio; l’Assoluto come uomo è l’uomo. Arriverà Feuerbach, il quale taglia corto e dice: L’uomo è Dio. Non esiste un Dio trascendente ultramondano. Il Dio trascendente è un ente immaginario, invenzione dei preti, nel quale sono idealmente raccolte le proprietà dell’uomo, delle quali l’uomo è alienato.

A questo punto sopraggiungerà Marx, il quale rovescia la visione di Feuerbach ed esplicita totalmente l’ateismo latente: Dio non esiste, Dio è un’invenzione dei padroni per tener buoni gli operai, perché è l’uomo, l’operaio, che possiede gli attributi divini, dei quali è stato espropriato dai padroni.

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 febbraio 2022

Kant a tutta prima dà l’impressione di mostrarci un’immagine elevata di Dio, non come un oggetto tra gli oggetti di questo mondo, non una specie di persona umana ingrandita, come il gigante Gulliver per i lillipuziani; sembra voler purificare l’idea di Dio da ogni materialità.

Eppure sta proprio qui l’insidia: che si tratta di una semplice idea della nostra ragione, esistente solo in essa, un ens rationis – Kant lo dice espressamente.

Ma io vorrei domandare a Kant: ma Dio non è appunto un’Idea sussistente? Non è l’ipsum Esse? Colui Che È? Non è identità di essenza ed essere? Non è identità di Pensiero ed Essere? Manca l’elemento dell’Essere!

Kant deontologizza Dio privandolo di ciò che Egli ha di più proprio e prezioso, di ciò che Egli, unico tra tutti gli enti, possiede per essenza: l’essere, l’actus essendi. Infatti, come dice bene San Tommaso, Dio è Atto puro di Essere.

Dunque, sta proprio qui un errore metafisico di Kant: il togliere sostanzialità, entità e personalità allo spirito per ridurlo ad una semplice idea può sembrare a tutta prima un’operazione sublime e una esaltazione della dignità dello spirito, ma in realtà è il suo svuotamento ontologico, che, come mostrerà la storia successiva del pensiero, dopo l’ubriacatura panteistica hegeliana, porta al materialismo, all’ateismo e al nichilismo.

Immagini da Internet:
- Raffaello - Roveto ardente (1511) - Stanza di Eliodoro - Stanze di Raffaello - Musei Vaticani 
- Vincent Van Gogh - L'uomo con la testa tra le mani

 ____________________________________________

[1] L’opera di Küng Dio esiste? (Mondadori, Milano 1979) offre una vasta informazione sulla questione. Conclude però in senso kantiano negando la possibilità di una «rigorosa dimostrazione logica» (p.640). L’esistenza di Dio, secondo Küng, dovrebbe essere oggetto di «fiducia». Ma fiducia su quale base? Inoltre la fiducia è atto del volere, non dell’intendere.

[2] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, pp.510-511.

[3] Corrisponde sul piano della ragione a quanto Cristo dice in riferimento a Se stesso: «chi non è con Me, è contro di me».

[4] Vedi il famoso scritto di Kierkegaard: «Aut-aut».

[5] Il famoso episodio della Rivoluzione francese della ballerina che danzò sacrilegamente sull’altare della cattedrale parigina di Nôtre-Dame impersonando la «Dea Ragione» è poi così lontano dal rappresentare coreograficamente il concetto kantiano della ragione?


2 commenti:

  1. Viene da chiedersi che cosa abbia capito Kant di Nostro Signore Gesù Cristo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Alessandro,
      Kant chiama Gesù Cristo “il Maestro del Vangelo” e ne apprezza l’etica, per quanto riguarda i doveri naturali. Invece purtroppo fallisce nel riconoscerne la divinità, a causa del suo concetto di Dio non come persona infinita e trascendente, ma come supremo ideale della ragione.
      Tutt’al più riconosce in Gesù Cristo quell’uomo che più di tutti gli altri manifesta la presenza in lui di questo ideale supremo che lo porta ad essere un grande benefattore dell’umanità, ma purtroppo Kant riflette quel razionalismo caratteristico dell’illuminismo, il quale vede nella religione soltanto una morale e non sa apprezzare il carattere peculiare della religione, che consiste nell’offerta sacerdotale del sacrificio cultuale espiatorio per la liberazione dalle colpe.
      E questo sempre a causa della carenza del concetto di Dio. Infatti, se Dio è una semplice idea, è evidente che non ha senso ed è pura superstizione interloquire con un’idea, pregare un’idea od offrire sacrifici ad una idea, come se fosse una persona reale, al di fuori del soggetto.

      Elimina

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.