Infangata la santità di San Tommaso - Totale incomprensione della sapienza dell’Aquinate da parte di uno studioso del suo pensiero

 

Infangata la santità di San Tommaso

Totale incomprensione della sapienza dell’Aquinate

da parte di uno studioso del suo pensiero

 

Un’idea infelice

Il Santo Padre nei mesi passati è venuto più volte a parlare di San Tommaso d’Aquino presentandolo come «Dottore comune della Chiesa» e modello di santità per i teologi, della quale tanto abbiamo bisogno, perché oggi abbiamo sì molti teologi e teologhe, ricchi di parlantina e abili propagandisti, che purtroppo combinano guai e suscitano divisioni, perché non attratti dalla santità ma sedotti dalla gnosi e dall’astrazionismo, maestri di esibizionismo e vittime del narcisismo e del protagonismo.

Amara è stata la mia sorpresa nel leggere ne Il Foglio[1] del 18 settembre scorso un indecente articolo Vita, passioni, tormenti (e pure eresie) di Tommaso, sommo teologo, a firma di Giovanni Ventimiglia, affermato filosofo da decenni conoscitore del pensiero dell’Aquinate, autore, fra l’altro, di uno studio approfondito della metafisica tomista della pluralità[2], che ho letto con gusto e profitto, benché non condividessi la sua tesi secondo la quale per Tommaso «l’orizzonte del principio di non contraddizione non coincide con quello stesso dell’essere»[3], quasi che l’essere possa essere oltre questo principio, quando invece Tommaso dice che il principio di non contraddizione «si fonda sulla ragione di ente e non ente»[4].

C’è da domandarsi come mai sia venuta in mente a Ventimiglia, che pur in passato ci ha aiutato a comprendere il pensiero dell’Aquinate, un’idea così offensiva nei confronti del Santo d‘Aquino. Capisco la volontà di evidenziare taluni aspetti e difetti umani che ce lo rendono vicino e ridimensionare talune pie esagerazioni, che non fanno bene all’agiografia seria, ma Ventimiglia con grande imprudenza e mancanza di oggettività storica, va al di là di ogni limite e decenza, e fa sorgere in noi il sospetto che egli non sia stato mosso da vera devozione per il Santo e ammirazione per quello che egli pur chiama «sommo teologo», ma da una segreta invidia per il suo sommo ingegno e la sua eminente santità, quella che il Maritain chiamava «santità dell’intelligenza».

Sembrerebbe quasi che Ventimiglia si sia lasciato coinvolgere da quei rahneriani, che da tempo premono sul Papa perché presenti Rahner come modello di teologo e che invece hanno ricevuto una bruciante delusione dai recenti discorsi del Pontefice su San Tommaso. Da qui la loro velenosa reazione quasi a sfogare la loro rabbia per esser stati così amaramente delusi dopo tanti sforzi e sviolinate per portare il Papa dalla loro parte. Ma non sarà certo un articolo sul Il Foglio a far cambiare le idee al Papa, anzi il Santo Padre ne resterà certamente irritato e i rahneriani renderanno ancora meno credibile la loro causa.

Dobbiamo pertanto notare con grande dispiacere che l’articolo di Ventimiglia è pieno di falsità e cose tendenziose, irriverenti nei confronti della Chiesa, della santità e dello stesso Tommaso, costellato di battute di cattivo gusto miranti a screditare la saggezza con la quale la Chiesa lo ha proclamato santo.

Egli non si cura per niente di difendere Tommaso dalle false accuse di eresia che gli furono fatte ai suoi tempi. Insinua nell’Aquinate volgari difetti morali in realtà non ben documentati. Si vale del parere di un grafologo per insinuare nello sviluppo e nel procedere del suo pensiero la presenza latente di contorcimenti ed arrovellamenti, dei quali la sua prosa limpida, sicura, serena, chiara, argomentata non dà il benché minimo segno o indizio che giustifichi nell’Aquinate simili supposizioni, mentre la lettura del testo tomista dà da otto secoli al lettore non prevenuto la chiara e  netta impressione che Tommaso descriva semplicemente ciò che vede distintamente e con certezza.

Ma soprattutto ciò che urta moltissimo è la squallida e sconfortante conclusione scettica dell’articolo, dove Ventimiglia vorrebbe presentare Tommaso come un agnostico o un buddista o un minorato mentale, che davanti al problema di Dio è nel buio più assoluto e non ci capisce assolutamente niente, vedendo in ciò in tono di ammirazione un titolo di lode, di merito e di gloria. Che se, per segnalazione costante dei Papi, esiste in tutta la Chiesa, tra i teologi uno che più di tutti ci insegni a pensare e a concepire Dio e a parlare di Dio, questi è proprio San Tommaso, senza che per questo egli neghi il valore del silenzio davanti a Dio e il riconoscimento dei nostri limiti, della nostra fallibilità e della nostra ignoranza.

Riporto le parole di Ventimiglia:

«Affascinato dall’ebraismo dove il nome di Dio è impronunciabile, Tommaso si convinse che “Dio esiste” non è una frase molto sensata, perché “Dio” non è il nome proprio di Dio, come lo sono ad esempio Pietro o Paolo o Sara. Dio infatti non ha nome proprio e non ha nome alcuno: è innominabile. Sicché, a rigore, non può essere il soggetto di alcuna proposizione, nemmeno della proposizione “Dio esiste”. Di lì a poco, dopo una Messa vissuta in lacrime con una intensità tutta speciale, confidò al suo segretario: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia”. E da quel momento non scrisse più nulla, lasciando incompiute diverse opere importanti. Guglielmo da Tocco, manco a dirlo, si premurò di abbellire quella famosa frase con un’aggiunta adatta a un candidato santo, allungandola un poco: “Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quello che mi è stato rivelato”, come se Dio gli avesse parlato per l’ennesima volta. 

A me sembra, invece, che la frase anche senza la precisazione soprannaturalistica, anzi proprio senza di essa, sia da sola bellissima: cosa c’è di più drammatico ma anche di più grande, di più umano, di più autenticamente religioso, di veramente mistico, che comprendere, dopo anni passati a scrivere milioni di parole su Dio, che Dio non si può scrivere, non si può dire, non si può comprendere? Anzi, non solo Dio ma proprio tutto: omnia. Tutto è alla fin fine indicibile e incomprensibile. Un grande, immenso, mistero. So di non sapere nulla di nulla. Qui il mistico e l’agnostico si incontrano. E qui san Tommaso d’Aquino, come ognuno di noi, trova finalmente pace. Tutto è paglia».

Un fraintendimento inaccettabile

Ventimiglia commette qui l’errore gravissimo di confondere la mistica, elevatissima e pregiatissima conoscenza di Dio, effetto non solo del sapere, ma anche dell’amore, nell’umile consapevolezza di non poterne comprendere esaustivamente l’essenza, con l’abominevole agnosticismo, che è l’atteggiamento sornione,falsamente umile, di chi, per proprio comodo e col pretesto della difficoltà di conoscere Dio, crede di avere il diritto e pretende di non pronunciarsi sulla questione ineludibile e decisiva del suo destino eterno, onde aver libertà nel campo morale di condursi a suo genio.

Così Ventimiglia dimostra di non sapere assolutamente che cosa è la mistica, mostrando una grave lacuna nel suo essere teologo, giacchè il sapere mistico, proprio dei santi, è il vertice della conoscenza di Dio possibile su questa terra, sapere basato sui concetti di fede analizzati dal teologo, ma infiammati dal fuoco della carità di un ardentissimo desiderio ed amore di Dio. E se il mistico tace e non parla di Dio, non è perché non ci capisce nulla, ma perché il suo sapere è tanto alto, che non trova parole per esprimere quanto ha sperimentato.

Ventimiglia invece resta sul piano dei semplici concetti speculativi e, dando prova di non conoscere il potere cognitivo dell’amore e della santità, s’immagina la mistica come un’evasione dall’intelligenza e dai dogmi della fede per dissolvere la totalità del pensiero uscendo con le seguenti parole ispirate a un socratismo d’accatto: «tutto è alla fin fine indicibile e incomprensibile. Un grande, immenso, mistero. So di non sapere nulla di nulla».

Ora, caro Ventimiglia, il mistero non è la soppressione o l’oscuramento del sapere, ma è la sorgente luminosa inesauribile del sapere indefinitamente progressivo. E poi non ti accorgi della tremenda contraddizione in cui cadi nel momento in cui fai queste affermazioni come se tu fossi in possesso della verità assoluta Ma, come abbiamo visto dalla tua tesi in Differenza e contraddizione[5], probabilmente ti senti dispensato dal rispettare il principio di contraddizione perché sei convinto di parlare da un piano dell’essere che trascende quel principio. Ma sei sicuro che esista qualcosa al di fuori dell’essere? L’epèkeina tes usias, l’«al di là dell’essenza», del quale parla Platone, come spiega San Tommaso, non ha alcun significato speculativo, ma significa semplicemente il prevalere del bonum sul verum nel campo dell’amore.

Così si spiega come Ventimiglia neghi che Tommaso, alla famosa sua frase riferita ai suoi scritti «mi sembrano come paglia» precedano le essenziali altrettanto famose parole «dopo quello che ho visto», che invece danno una luce decisiva a quelle che seguono.

Tommaso non vuol dire che di Dio non ha capito nulla, ma che ha capito tanto, che a confronto di quello che ha visto, ciò che sveva scritto gli pareva un nulla. Il ragionamento a forziori, sensato, da fare, allora a questo punto, è: se quanto ha scritto Tommaso è tanto prezioso da esser raccomandato come eccellente fra quello di tutti i teologi da 85 Papi da otto secoli a questa parte, chissà che cosa avrà mai visto per sembrargli paglia quanto aveva scritto.

La vera concezione tomistica dell’esperienza mistica

Che cosa ha visto Tommaso? L’Essenza divina? No certamente, perchè Tommaso spiega bene che la visione immediata, intuitiva e diretta dell’Essenza divina è riservata al paradiso, mentre quaggiù Dio può essere conosciuto solo mediante i concetti o di ragione o di fede.

Solo che nell’esperienza mistica, frutto dei doni dello Spirito Santo[6], il concetto dogmatico si scalda e si illumina nel fuoco della carità, un po’ come un pezzo di ferro, che di per sé è freddo e oscuro, messo nel fuoco, diventa incandescente e luminoso. La scienza chimica forma il concetto del ferro; ma come descrivere l’esperienza personale della luce e del calore che emanano dal ferro incandescente?

 Bisogna farne l’esperienza per saperlo: non si può dire a parole. Similmente il mistico, che fa l’esperienza del dogma caldo e luminoso perché riscaldato dalla sua carità, non è in grado di dire a parole quello che prova. La fede, osserva San Tommaso, che di per sé non è una visione, ma un sapere mediato, quando è così luminosa e calda per il calore della carità, diventa simile a una visione o ad un’esperienza. È quello che è successo a Tommaso quando ha detto: «quello che ho visto».

Il mistico è detto così perché fa l’esperienza del mistero divino rivelato soprannaturale. Che cosa è nel cristianesimo il mistero di fede? Il termine è stato introdotto da San Paolo, preso dai misteri pagani e adattati a significare il mistero cristiano, soprattutto il mistero di Cristo e della Chiesa, i sacramenti, la sapienza soprannaturale infusa, appunto la sapienza mistica. In Paolo il mistero corrisponde all’ebraico raz o sod, che significa «segreto», ciò che per la sua preziosità è nascosto e che si deve tener nascosto o si può o si deve rivelare a coloro che ne sono degni. Il mistero cristiano per eccellenza è Dio stesso, la verità cristiana e le istituzioni divine,

Tommaso insegna che il mistero divino è intellegibile, ma per noi non è pienamente comprensibile a causa della sua infinità, perché la nostra capacità di comprensione è finita, anche se siamo fatti per l’Infinito. Tommaso non sostiene affatto, come vorrebbe farci credere Ventimiglia, che tutto è mistero. Alcune cose le comprendiamo perfettamente ed esaustivamente, le più basse, soprattutto realtà fisiche, logiche e matematiche, ma è vero che le verità più alte sono misteri.

In base a ciò non dobbiamo dire che Dio è incomprensibile, se non precisando che non è da noi infinitamente comprensibile. Egli ci è finitamente comprensibile. Infatti i beati sono tradizionalmente chiamati comprhensores. Così similmente non mi sembra bene dire che Dio ci è ignoto o sconosciuto, perché poi si è comunque obbligati a dire che lo conosciamo, sia pur imperfettamente[7].

È vero che Tommaso dice che quaggiù di Dio sappiamo che esiste, ma non il quid sit, Tommaso si riferisce qui all’essenza propria, intima di Dio, visibile solo in cielo. Altrimenti, quando nella Somma Teologica parlargli attributi di Dio, di che cosa parla?

Il mistero del perchè Tommaso ha smesso di scrivere

Nel mistero c’è qualcosa da comprendere e qualcosa – il più - che ci sfugge: accontentiamoci di ciò che capiamo ed evitiamo le due tentazioni opposte: o quella presuntuosa e gnostica di capire tutto come Hegel o quella pusillanime ed agnostica di chiudere gli occhi per non capirci niente come Rahner. Ventimiglia sembra stare da questa parte, che non è certo quella di Tommaso, il quale è ardito nell’approfondire il mistero ed umile nel rispettare la sua oscurità.

Certamente l’improvvisa e non programmata istantanea interruzione dello scrivere, in particolare la Somma Teologica, un testo che s’interrompe nel corso tranquillo della sua redazione, un’esposizione come sempre lucida ed argomentata, senza che nulla possa facesse presagire una possibile l’interruzione, è cosa stupefacente. ed è umanante inspiegabile. Si potrebbe penare ad un improvviso tracollo psichico. Sappiamo come certe forti esperienze mistiche possono provocare effetti traumatizzanti o patologici nella struttura psichica del soggetto[8].

Aggiungo inoltre che chiunque, per verificare quanto dico, può prendere in mano il testo della Summa, andare alla q.90 della III parte e constata come il testo s’interrompe bruscamente. Non si capisce perché, come se a Tommaso avessero tirato un colpo di pistola o gli fosse venuto un infarto. E pensare che questo lavoro lo stava facendo con gusto, passione e soddisfazione, grande impegno e serietà, conscio di mettere le sue straordinarie qualità intellettuali e di scrittore, nel compimento diligente dell’ufficio di teologo, a servizio della formazione dei confratelli, circondato e incoraggiato dalla loro stima e dall’attesa di leggere quanto stava scrivendo.

Fa problema e stupisce alquanto questa improvvisa e drastica interruzione dell’esposizione. Difficile, se non impossibile capire che cosa possa essere successo. I confratelli ne restarono esterrefatti e delusi, e lo scongiurarono di riprendere il lavoro. Niente da fare. Tommaso fu irremovibile, come se si sentisse vincolato ad un dovere assoluto. Era passato da una facile disinvoltura nello scrivere a una sensazione di impotenza. A nulla valsero le esortazioni dei Superiori. Tommaso fu irremovibile. Si limitò a rispondere. «non posso più». E a giustificare questa impotenza fece seguire le parole che ho riportato.  

Tommaso tuttavia più tardi riprese a parlare di Dio, ma solo per commentare, all’approssimarsi della morte, il Cantico dei Cantici e al momento di prendere il viatico pronunciò parole dolcissime di affetto per Cristo e di ringraziamento a Dio per quanto gli aveva concesso di dire e fare nella sua vita di domenicano e di teologo.

Tommaso probabilmente, mentre stava portando a termine la Somma Teologica  andò soggetto ad un’improvvisa esperienza mistica intensissima quello che egli chiama raptus, conclusione prevedibile del suo cammino di santità e di straordinario amore per Cristo, che gli era apparso lodandolo per come aveva scritto bene di Lui, ma un’esperienza mistica non come l’intende Ventimiglia, ossia come uno stato psichico annebbiato ed apofatico, secondo i moduli del nirvana buddistico, che peraltro non è privo d’interesse dal punto di vista della mistica. Al contrario, Tommaso ricevette in quel momento tanta luce, che quella luce che fino ad allora aveva fatto con le sue forze sulla Parola di Dio, gli sembrò un nulla rispetto alla  luce divina dalla quale fu improvvisamente illuminato e travolto, luce indescrivibile con parole umane.

 Quanto a Maimonide, Tommaso apprezza il rispetto che egli aveva per il nome di Dio, ma gli rimprovera l’eccessivo apofatismo col quale Maimonide poneva il Tetragramma al di sopra del Colui Che È[9] ed inoltre gli rimprovera proprio il fatto di non saper usare l’analogia dell’essere nel parlare di Dio e di non vedere che la causalità si può applicare analogicamente anche a Dio, come è suggerito dal dogma della creazione.

Certamente l’esperienza mistica comporta il tacere, ma non perché annulli la teologia catafatica; al contrario, si sa come Tommaso vedesse la teologia negativa o apofatica al di sopra di quella positiva o catafatica, ma precisando a chiare lettere che comunque è impossibile quella se non sulla base e sul presupposto di questa, così come non si può negare qualcosa se prima non si chiarisce ciò che dev’essere negato e se non si afferma ciò che dev’essere sostenuto, che non viene assolutamente negato, ma confermato. Se dico che Dio è infinito, nego che sia finito; ma come faccio a fare questa negazione se non ammetto l’esistenza del finito e non suppongo che Dio esista? 

Tommaso ci fa comprendere più di ogni altro teologo l’importanza vitale e salvifica del rapporto fra santità e teologia. Un Papa lo definì argutamente come «il più santo di tutti i dotti e il più dotto di tutti i santi». Lacerati e divisi tra tormentose contraddizioni, insanabili ed ostinati conflitti di idee e comportamenti, ci interroghiamo continuamente con angoscia, salvo che siamo degli incoscienti, su quale dev’essere il rapporto fra unità e diversità, fra verità e carità, fra sapere e volere, fra sapere e amare, fra teoria e prassi, fra pensiero e azione, fra pastorale e dottrina. Ebbene, ecco in Tommaso un eccelso esempio teorico e concreto di come operare queste sintesi essenziali, senza false contrapposizioni ed esiziali confusioni, della vita morale e dello spirito, della persona, della società e della Chiesa.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 22 settembre 2023

 

  

Tommaso ci fa comprendere più di ogni altro teologo l’importanza vitale e salvifica del rapporto fra santità e teologia. 

Un Papa lo definì argutamente come «il più santo di tutti i dotti e il più dotto di tutti i santi».

 

 

 

 

Lacerati e divisi tra tormentose contraddizioni, insanabili ed ostinati conflitti di idee e comportamenti, ci interroghiamo continuamente con angoscia, salvo che siamo degli incoscienti, su quale dev’essere il rapporto fra unità e diversità, fra verità e carità, fra sapere e volere, fra sapere e amare, fra teoria e prassi, fra pensiero e azione, fra pastorale e dottrina. 

Ebbene, ecco in Tommaso un eccelso esempio teorico e concreto di come operare queste sintesi essenziali, senza false contrapposizioni ed esiziali confusioni, della vita morale e dello spirito, della persona, della società e della Chiesa.

Foto, Monastero di Roccasecca


[2] Differenza e contraddizione. Il problema dell’essere un Tommaso d’Aquino: esse, diversum, contradictio, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1997

[3] Ibid., p350.

[4] Sum.Theol., I-II, q,94, a.2.

[5] Vita e pensiero Milano 1996.

[6] Sulla concezione tomista dell’esperienza mistica, vedi il mio libro Il silenzio della parola. La mistica e le mistiche, Edizioni ESD, Bologna 2002.

[7] Per questo il titolo del libro del Padre Jean-Hervé Nicolas, Dieu connu comme inconnu, Desclée de Brouwer, Paris 1966, è piuttosto urtante. S.Tommaso non si esprimerebbe certo in questo modo, anche se poi, leggendo il libro, ci accorgiamo del perfetto tomismo dell’Autore.

[8] A S.Teresa pareva di morire, Caterina aveva l’impressione di restare come intontita (come «troglo»), la Beata Angela da Foligno, dopo una visione della SS.Trinità si dette a schiamazzi che scandalizzarono gli astanti e così via. Il dotto domenicano tomista, mio maestro di teologia morale, il Padre Giordano Ghini, formulò l’ipotesi che Tommaso, affaticato dal superlavoro, sia andato soggetto ad un esaurimento nervoso. Ma l’ipotesi non regge, perché l’esaurimento nervoso ha una sua genesi e uno suo sviluppo nel tempo, mentre qui ci troviamo davanti a un crollo improvviso, senza segni premonitori. Si può pensare ad un effetto psicoemotivo della straordinaria esperienza mistica.

[9] Jean-Pierre Torrell, Tommaso d’Aquino maestro spirituale, Città Nuova, Roma 1998, pp.58-61.

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