Alcune
riflessioni sul senso cristiano del castigo
Chi non accoglie le mie parole, ha già chi lo condanna
Gv
12,48
La
tesi di Centofanti
Sergio
Centofanti nel sito Vatican News ha pubblicato
il 25 febbraio scorso un articolo dal titolo “Il male nel mondo, colpe,
castighi e salvezza di Dio”, dove riporta delle parole del Papa e commenta alcuni
passi della Scrittura, cose alle quali ritengo si debbano fare alcune
osservazioni.
L’articolista
riassume il suo assunto in queste parole: «Il Vangelo ci ricorda che Gesù rifiuta la
concezione di un Dio che punisce le colpe attraverso i mali e le tragedie che
accadono nel mondo. Gesù è venuto per salvare e non per condannare. Ma le
vicende negative devono sempre richiamarci all’urgenza della conversione».
Ma
in realtà le cose non stanno così
Osservo dicendo che in realtà Gesù ci fa
presente che il peccato merita il castigo
conformemente, del resto, a quel senso naturale di giustizia, che è proprio
di ogni uomo onesto, che non vuol fare il furbo sottraendosi alle proprie
responsabilità.
Per quanto
riguarda nella fattispecie le sventure e le calamità della vita presente, Gesù
ha un duplice atteggiamento: in certe circostanze Egli non le attribuisce a
castighi per peccati commessi e sono gli esempi riportati da Centofanti della
torre di Siloe e l’episodio del cieco nato. Invece in altri casi presenta le
calamità come castighi per i peccati, come quando cita Sodoma e Gomorra.
Per quanto riguarda
l’intento di Gesù non di condannare ma di salvare il mondo, non si discute. Ma
Centofanti ha trascurato di citare quello che Gesù aggiunge dopo e cioè
l’avvertimento che fa seguire alle dette parole: «Chi mi respinge e non
accoglie le mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo
condannerà nell’ultimo giorno» (Gv 12, 48).
Anche per
quanto riguarda l’episodio della torre di Siloe, Centofanti omette le parole di
Gesù che danno il suo senso completo a tutto l’episodio. Indubbiamente le vittime
del crollo non sono state punite per peccati personali: sono vittime innocenti.
Ma Gesù avverte che se non ci convertiamo, ci attendono disgrazie del genere.
Dunque Dio può punire i nostri peccati con sventure che Egli manda già da
questa vita.
Centofanti
ha ragione dunque nel dire che «le vicende negative devono sempre richiamarci
all’urgenza della conversione». Ma in che modo lo fanno? Appunto ricordandoci per
mezzo delle sventure che dobbiamo fare penitenza dei nostri peccati. Come
facciamo a sapere che queste sventure sono un castigo per i nostri peccati? Non
ci vuole molto ad indovinarlo: certamente non sono premio per le nostre buone
azioni. D’altra parte sappiamo che il peccato merita un castigo. Da qui ad
interpretare le sventure come castigo inflitto dalla divinità offesa dai nostri
peccati non ci vuole molto. E tutte le religioni dell’umanità questo lo hanno
capito. Da qui i riti e i sacrifici per placare la divinità e renderla
propizia.
Ma ecco aggiungersi
al sacrificio cultuale espiatorio la pratica penitenziale consistente nell’assumere
la pena del peccato come mezzo di espiazione e di liberazione dal peccato. Dunque convertirsi vuol dire vedere nelle sventure
l’occasione propizia per fare penitenza dei nostri peccati. E se non ci convertiamo che cosa succede? Che
siamo puniti come coloro che non si convertono.
E dunque la sventura è punizione del peccato.
Non
si può separare il peccato dal suo castigo
Ma il guaio
dell’odierno buonismo e misericordismo sta nel fatto di intendere il peccato in
una maniera sbagliata, come di un atto essenzialmente perdonato senza
penitenza, senza sacrifici e senza riparazione, ma solo con la fiducia che è
stato perdonato, anche se rimane. È un’idea nata da Lutero. Ma ciò suppone,
come ho detto, un modo sbagliato di concepire il peccato, giacché esso potrebbe
essere definito precisamente come atto
meritevole di castigo.
Scindere allora
il peccato dalla sua punizione è annullare
l’essenza del peccato e trasformarlo in una buona azione, giacché è questa
e solo questa che non merita castigo. Che poi il castigo possa essere tolto
grazie alla misericordia divina, è verissimo, ma ciò avviene appunto in quanto
Dio annulla la colpa del peccato, sicché quello che era castigo diventa
espiazione e quello che era l’effetto della giustizia diventa grazia di
redenzione e di misericordia.
Dice poi
Centofanti: «Di fronte a eventi luttuosi, catastrofi, malattie e cose simili,
la tentazione ricorrente, per i credenti, è quella di scaricare la
responsabilità sulle vittime o, addirittura, su Dio stesso».
Osservo che
ci possono esser vittime innocenti e vittime colpevoli. I peccatori sui quali si
abbattono i flagelli descritti nell’Apocalisse ai cc.9-10 e 16 non sono affatto
innocenti, ma sono empi e bestemmiatori giustamente castigati. Lo stesso dicasi
per gli abitanti di Sodoma e Gomorra. Questi peccatori sono dunque responsabili
di quanto piomba loro addosso.
Occorre
ricordare altresì che esistono, sia da parte di Dio che dell’autorità umana,
castighi correttivi e castighi afflittivi, i primi si propongono di correggere
il peccatore o il delinquente. I secondi, invece, escludono definitivamente da
Dio o dalla comunità in caso di incorreggibilità del reo. Esempio biblico di castigo
correttivo, è quello della conversione degli abitanti di Ninive alla
predicazione di Giona. Castigo afflittivo è la punizione di Sodoma e Gomorra o
dell’esercito del faraone alla caccia del popolo ebraico in fuga.
Il
concetto biblico del castigo divino
Il castigo
divino del peccato, al di là delle espressioni metaforiche della Bibbia, non è
come la sanzione penale che l’autorità umana irroga al delinquente per
reinserirlo forzatamente nell’ordine sociale o escluderlo dall’ordine sociale,
che ha compromesso col suo delitto, ma è il male che lo stesso peccatore si
tira addosso col suo peccato. Qui Centofanti dice bene citando le parole di
Benedetto XVI e l’insegnamento del Catechismo:
«È per il rifiuto della grazia nella vita presente che ognuno si giudica da sé
stesso, riceve secondo le sue opere e può anche condannarsi per l’eternità» (n.679).
In ogni caso
è vero, come hanno notato alcuni, che sia il castigo divino temporale od eterno
che la sanzione penale umana provocano nel peccatore o nel delinquente una
menomazione più o meno grave a seconda dell’entità del peccato o del delitto da
punire. Ciò sembrerebbe dare al castigo divino un carattere distruttivo. Ma
occorre ricordare che è il peccatore a recar danno a sé stesso. Dio lascia
libero l’uomo di scegliere il proprio destino. Per questo, se qualcuno vuol far
del danno a sé stesso, solitamente Dio non lo impedisce, benché di per sé
potrebbe farlo. Quanto alla pena inflitta dall’autorità umana civile o
ecclesiastica, essa priva certo il colpevole di qualcosa. Tale atto
dell’autorità, però, non va inteso come un distruggere, ma un correggere il reo
o come il difendersi dal reo operato dalla comunità.
Notiamo,
inoltre, che di fatto, quando Dio vuol predestinare qualcuno alla salvezza, ossia
vuol fargli misericordia, gli impedisce di peccare, senza per questo coartarlo,
perché, donandogli la grazia, causa lo stesso atto buono del suo libero arbitrio.
Anche al ribelle Dio offre la sua misericordia e la sua grazia; ma questi per
propria colpa la rifiuta. Il castigo col quale viene castigato non è altro allora
che la conseguenza logica di questo rifiuto, ossia il danno della privazione
della visione beatifica in cielo.
Dio, inoltre,
si riserva a volte di non castigare subito, ma può procrastinare il castigo, dando
tempo e modo al peccatore di pentirsi. Ma se ciò non avviene, prima o poi il castigo
giunge immancabilmente nella vita presente o in quella futura. La giustizia divina, inoltre, rimedia ai difetti
della giustizia umana, per cui punisce i malfattori che ad essa sono sfuggiti e
ricompensa coloro che sono stati ingiustamente condannati. Invece lascia degli
innocenti a patire sventure immeritate o ingiustizie da parte degli uomini, per
renderli partecipi delle sofferenze redentrici di Cristo a vantaggio di coloro
stessi che li fanno soffrire. Alcuni santi, soprattutto monaci e religiosi, si
infliggono di propria iniziativa penitenze a volte anche aspre per la salvezza
dei peccatori.
Nel caso della
sanzione umana, il castigo non emerge dall’atto del delinquente, ma è imposto
per convenzione dall’ordinamento giudiziario, benché, se nel delitto c’è una violazione
della legge naturale, anche Dio si riservi di punire.
Colpa
della natura?
Quanto allo scaricare
la responsabilità su Dio stesso, è chiaro che si tratta di una bestemmia. Ma qualche
responsabilità da qualche parte ci dovrà pur essere. E dove trovarla? È la natura
stessa ad essere cattiva? Centofanti
riporta le parole del Papa: “Dio perdona sempre, noi uomini perdoniamo a volte,
la natura non perdona mai” (Discorso all’IFAD, 14 febbraio 2019).
Con
l’espressione «la natura non perdona mai» il Papa intende riferirsi al fatto che
la natura, benché per tanti aspetti ci si mostri madre provvida, per altri
spesso ci mostra un volto crudele e un fare distruttivo. E tuttavia è evidente
che l’espressione usata dal Papa è una semplice metafora, giacché la natura non
è una persona che possa perdonare o non perdonare, ma, almeno la natura fisica della
quale adesso parliamo, è un insieme ordinato di enti viventi e non viventi
infraumani, quindi privi di libero arbitrio, ma agenti in modo deterministico
secondo leggi fisse stabilite dallo stesso Creatore della natura. Allora la
colpa è di Dio? Siamo daccapo con la bestemmia.
Il Papa
risponde: «Dio perdona sempre», sempre, s’intende, se l’uomo è pentito e sconta
i suoi peccati con la penitenza, accettando con questo spirito le pene e le
sventure della vita. Ma non tutti si pentono e tornano a Dio. Costoro sono
coloro che sono castigati con la pena eterna, come insegna chiaramente Cristo[1].
Occorre
trovare una risposta al perché dell’ostilità della natura. E la risposta viene
dalla fede: l’ostilità della natura è conseguenza del peccato originale, come è
detto chiaramente in Gen 3, 17-19. Con tutto ciò la natura mantiene anche un volto
materno, sorgente per noi di immensi benefìci e rispondente al piano originario
della creazione.
Centofanti
riferisce inoltre che secondo Papa Francesco «Dio non permette le tragedie per
punire le colpe” (Angelus, 28 febbraio 2016), affermazione
senz’altro giusta, se riferita alle persone innocenti; ma abbiamo visto come
Cristo minaccia la sventura come
punizione dei colpevoli.
L’attuale emergenza
dell’epidemia, congiuntamente al periodo quaresimale, è una buona occasione per
ricordare queste verità salutari della nostra fede, che sono di luce, conforto,
consolazione e guida nel nostro cammino di conversione e di salvezza.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato,
27 febbraio 2020
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiElimina