La Settimana
Santa con San Paolo VI
La pietra scartata dai
costruttori è diventata testata d’angolo
Sal 118,22
La
spina nella carne
Ci stiamo
approntando a celebrare la Settimana Santa, che ci ricorda il sacrificio di
Cristo, mite Agnello immolato per scontare al nostro posto la pena dei nostri
peccati invitandoci ad unire, con cuore contrito, le nostre pene alle sue nella
certezza del perdono divino.
Quale cosa
più consigliabile in tale circostanza, che unirci alla passione dei Santi? Ho
scelto l’esempio di un Papa, San Paolo VI. Infatti chi, più di un Papa Santo
Vicario di Cristo, ci insegna in modo più autorevole, chiaro ed efficace come,
perché e per quali motivi partecipare alla Passione del Signore? E per quale
causa un Papa, Maestro di verità, può soffrire, se non a causa della verità? E
questo non è forse compito di ogni cristiano?
Ora la «spina
nella carne» (II Cor 12,7), che certamente ha maggiormente afflitto come in un
sottofondo tutto il pontificato di Paolo VI, è stato il problema del rahnerismo,
come cercherò di mostrare brevemente in questo articolo, riallacciandomi a
numerosi studi storico-critici prodotti in questi ultimi decenni[1],
problema gravissimo, non sempre facilmente riconoscibile, del quale purtroppo
molti a tutt’oggi non si rendono conto, problema denunciato in maniera particolarmente
vigorosa e documentata da Cornelio Fabro sin dal 1974. Il quale, parlando del
dissesto in teologia morale dell’immediato postconcilio, indicò in Rahner «l’artefice principale dello sconquasso»[2].
A tutta
prima, scorrendo la storia di questo grande pontificato, il problema Rahner non
parrebbe emergere in modo rilevante. Ma in realtà, se guardiamo con attenzione
ai fattori profondi che muovono e generano i travagli della Chiesa del postconcilio,
nonché il pensiero e l’azione degli uomini, non potremo non scoprire l’azione e
l’influsso del pensiero rahneriano, sia nel positivo che nel negativo.
Come
mai Rahner, pur meritando censure, è sempre riuscito ad evitarle?
Non sto qui
a ricordare gli errori di Rahner. Si potranno trovare indicazioni in merito
nella bibliografia della nota 1. Parlo qui a lettori che già lo conoscono. Qui
ci poniamo in partenza una grave domanda specifica, che molti da tempo si pongono
ed è come mai Rahner, con tutti suoi errori, non è ma stato condannato.
Al riguardo,
non vale l ‘obiezione di coloro che dicono che se Paolo VI non ha condannato Rahner
il semplice motivo è che non merita di essere condannato ed anzi merita lode e
ammirazione. Ma purtroppo gli ammiratori d Rahner non brillano affatto per fedeltà
alla dottrina della Chiesa e ai dogmi della fede, oppure, se sono integralmente
cattolici, tendono, con una certa ingenuità, a interpretare il pensiero di Rahner
in senso ortodosso, senza accorgersi dell’insidia nascosta nell’apparente ortodossia.
Chi invece conosce
bene criticamente il pensiero di Rahner, non può arrendersi davanti a questa obiezione,
perché chi conosce la storia della teologia sa benissimo che gli autori censurati
dalla Chiesa non sono tutti i censurabili, ma ve ne sono anche altri, che sono censurabili
senza esserlo di fatto. La Chiesa non può arrivare dappertutto come fosse
l’occhio della divina Provvidenza. Per questo esistono teologi, che l’aiutano
nel suo compito di vigilare per distinguere il grano dal loglio.
Dunque
rimane la domanda e più specificamente essa è come mai questo grande Papa, così
sapiente e zelante per la sana dottrina, non sia intervenuto a correggere gli
errori di Rahner. Il pontificato di Paolo VI è costellato infatti di saggi insegnamenti
dottrinali o diretti o indiretti per il tramite della CDF. E non mancano le
condanne di teologi citati per nome. Ma Rahner non compare mai.
E non è che la sua pericolosità non fosse già
nota. Già Pio XII si era accorto dei suoi errori in mariologia e lo aveva
frenato. È vero tuttavia che San Giovanni XXIII, dietro richiesta di Adenauer,
aveva tolto a Rahner la censura che gli aveva inflitto Pio XII e addirittura lo
nominò perito del Concilio. Il fatto però era che Rahner all’inizio della sua
carriera di teologo si era comunque procurato una buona fama e non
immeritatamente.
Ma già nel 1939 aveva pubblicato un libro, Geist im Welt (Spirito nel mondo) e nell’anno successivo Hörer des Wortes (Uditori
della Parola), nei quali dava della gnoseologia e della metafisica di
S.Tommaso un’interpretazione idealistica. Nel 1950 Pio XII pubblicò la famosa
enciclica Humani Generis, nella quale
condannava l’idealismo, ma senza fare il nome di Rahner.
Questi, dal canto suo, come perito del
Concilio, si guardò bene dal proporre al Concilio il suo idealismo, ma utilizzò
la sua preparazione, il suo senso pastorale e la sua fertilità teologiche
indubbiamente notevoli, per dare, soprattutto in collaborazione con Joseph
Ratinzger e come perito del Card. Döpfner, un valido contributo alla
elaborazione dei documenti del Concilio, in particolare alla Costituzione
dogmatica Dei Verbum.
Una volta terminato il Concilio, alcuni studiosi,
storici e teologi, vollero opportunamente indagare, cercar di capire e far conoscere
le forze che avevano agito al Concilio, quali furono le loro posizioni e il
loro modo di procedere. Come tutti sanno, il Concilio vide per tutta la sua durata
un confronto-scontro tra le due correnti dei conservatori e dei progressisti.
Pregi e difetti erano in ambo i partiti: difesa dei valori assoluti e perenni
nei primi, accanto a cose superate; novità lodevoli accanto a nostalgie
moderniste nei secondi[3].
Alcuni storici filomodernisti, come Giuseppe
Alberigo[4]
e Alberto Melloni[5], hanno
voluto vedere nei lavori del Concilio l’azione di un progressismo che essi
intendono come modernismo, mentre altri, di orientamento antimodernista, come
Roberto De Mattei[6], vi
hanno visto le mene dei criptomodernisti, che purtroppo De Mattei identifica con
i progressisti, che avrebbero impresso un carattere modernista al Concilio; il che
è falso, perché sarebbe come accusare, nel solco di Mons. Marcel Lefebvre, le
dottrine conciliari di eresia. È vero, tuttavia, che al Concilio c’è stato il tentativo
dei criptomodernisti rahneriani di orientare il Concilio in senso modernista, tentativo
però che non poteva non fallire, data l’assistenza dello Spirito Santo, della quale
gode ogni Concilio.
Il Concilio, nella mente di San Giovanni
XXIII, doveva procedere ad un sano ammodernamento, ad uno svecchiamento, ad un
rinnovamento, ad una riforma, ad un progresso. Per questo, era giusto e
comprensibile che esso dovesse esser fatto o condotto, come in effetto fu,
soprattutto dai progressisti. Per questo è vero e giusto dire che Rahner è
stato uno dei principali artefici del Concilio. Dietro di sé e con sé aveva una
schiera di mandatari prelati, collaboratori e seguaci progressisti teologi,
soprattutto tedeschi e Gesuiti, nei quali si mescolava il grano col loglio.
È successo così che sin dall’immediato
postconcilio sia il grano, ad opera dei Pontefici, che il loglio, ad opera dei
modernisti capeggiati da Rahner, cominciarono a spargersi nella Chiesa. Rahner,
che, come abbiamo visto, fin dalla fine degli anni ’30 era rimasto avvelenato
dall’idealismo, celato sotto le apparenze del tomismo, durante i lavori del Concilio
non lasciò trapelare questo veleno, ma lo tenne nascosto, svelandosi
riservatamente solo a quei partecipanti al Concilio che erano nascostamente
modernisti.
Così Rahner, dopo essersi procurato la stima
e la fiducia dei Padri Conciliari, con interventi di indubbio valore, una volta
finito il Concilio, uscì audacemente allo scoperto e si lanciò, invitato da
ogni parte, in una frenetica attività di diffusione internazionale della sua
interpretazione modernista del Concilio, infischiandosi dell’interpretazione
ufficiale di Paolo VI, sentendosi ormai al sicuro e garantito da ogni impunità,
gettando la maschera tomista, svelando apertamente l’impostazione hegeliana
delle opere del 1939 e dichiarandosi più tardi apertamente discepolo di Heidegger
e di Bultmann.
Altro importante modernista, che si affiancò
a Rahner fu il Domenicano olandese Edward Schillebeeckx, ispiratore del famoso Catechismo Olandese, pubblicato nel 1966
con l’approvazione dei Vescovi olandesi. Le idee di Schillebeeckx sono molto
vicine a quelle di Rahner: risentono tutte del luteranesimo liberale di Rudolf
Bultmann. Per quanto riguarda la base filosofica, le idee di Schillebeeckx
risentono dell’empirismo inglese, mentre quelle di Rahner dell’idealismo
tedesco.
La velocità sorprendente con la quale, appena
l’anno dopo la fine del Concilio, apparve il Catechismo olandese, lascia capire l’efficacia impressionante del rinato
modernismo, certamente frutto qui di una coalizione di rahneriani e scillebexiani,
già operante ai tempi dei lavori del Concilio.
Il tutto fu certamente organizzato con
straordinario tempismo all’insaputa del Papa, il quale, colto di sorpresa ed
informato sulla preoccupante iniziativa, non potè far altro che incaricare una
commissione di Cardinali di esaminarlo, i quali, pur lodando la bontà del Catechismo,
dovettero denunciarvi la presenza di parecchie eresie, tutte riconducibili al
rahnerismo e allo scillebexismo.
Che cosa poteva fare di più il Papa, visto che
il Catechismo aveva l’approvazione della
Conferenza episcopale olandese? Scomunicare i Vescovi olandesi? Inutile
dire poi che i modernisti ignorarono completamente le correzioni al Catechismo apportate dai Cardinali e continuarono
imperterriti nelle loro eresie fino ad
oggi.
La decadenza
della Compagnia di Gesù
Ma il rahnerismo, per quanto abbia
caratteristiche proprie, non è che la punta dell’iceberg di una decadenza
generalizzata della Compagnia di Gesù, che inizia col generalato del Padre
Pedro Arrupe, eletto nel 1966[7].
I Gesuiti, sotto l’influenza o assenziente il Padre Arrupe, uomo del resto di
grandi meriti umani e sociali, fraintesero il vero senso del rinnovamento
conciliare.
Non del tutto correttisi a seguito del
richiamo fatto da Pio XII alla théologie
nouvelle di Padre de Lubac e infatti dall’etica della situazione condannata
dal Sant’Offizio nel 1958, influenzati dall’evoluzionismo di Teilhard de
Chardin, esso pure condannato dal
Sant’Offizio del 1962, già da alcuni decenni era tornato il loro difetto
innato di uno spiritualismo immanentista e volontarista, che si era manifestato
nel tomismo affettivo di Pierre Rousselot e Joseph Maréchal, dai quali poi
partirà Rahner.
Ma le idee e la condotta dei Gesuiti, che
maggiormente fecero soffrire Paolo VI e poi successivamente Giovanni Paolo I e
S.Giovanni Paolo II, procurando gravi danni alle anime e alla Chiesa, furono
quelle che scaturirono dalla teologia della liberazione[8],
fondata in Germania sotto il nome di «teologia politica» da Johannes Baptist Metz,
discepolo di Rahner, e poi adattata alle condizioni dell’America Latina da Gustavo
Gutiérrez con la famosa opera Teologίa de
la liberaciόn del 1972.
L’operazione che fece Metz nei confronti di Rahner
assomiglia a quello che fece Marx nei confronti di Hegel. Questi, sviluppando
l’egolatria cartesiana dell’Ego sum,
scimmiottatura di Es 3,14, era giunto, sulla scorta di Fichte, a identificare
l’Io con Dio; ma il Dio hegeliano non è altro che l’uomo divinizzato. Marx, invece,
dietro suggerimento di Feuerbach, si accorge di questa divinizzazione dell’uomo
e, per conseguenza logica, mette decisamente l’uomo al posto di Dio.
Allora, per Marx, io non sono più l’io-Dio di
Hegel, ma l’io-Umanità dell’ateismo. Allora se l’etica hegeliana è che l’io diviene
Dio, l’etica marxista l’io diviene l’Umanità, anzi è l’Umanità, l’Uomo Faber di
Fichte, quello che Marx chiama il Gattungswesen.
Se l’etica hegeliana è coscienziale, teologica e speculativa, quella marxiana è
antropocentrica, sociale e politica. In Hegel l’uomo è un Dio-uomo che libera
se stesso dall’alienazione spirituale. Per Marx l’uomo è un uomo-Dio che libera
materialmente l’umanità mediante la lotta di classe.
La teologia
della liberazione
Ora la teologia della liberazione si presenta
come teistica ed anzi cristiana, ma non riconosce il primato della
contemplazione divina sulla prassi umana. Influenzata da Hegel e da Marx tende
ad identificare l’amore di Dio con l’amore del prossimo perché tende ad
identificare l’uomo con Dio a causa di una falsa interpretazione
dell’Incarnazione del Verbo, che confonde tra loro le due nature.
Ecco che allora nella teologia della
liberazione, nonostante le sue intenzioni cristiane, resta l’ombra
dell’ateismo, ovviamente non apertamente dichiarato, come avviene nel marxismo
e tuttavia il teismo non è sufficientemente garantito, perché per esplicita dichiarazione
di Gutiérrez[9] il fine ultimo
del cristianesimo non è la visione di Dio in un altro mondo futuro, ma è l’edificazione
del regno di Dio in questo mondo.
Da qui la conseguenza che la massima virtù cristiana
viene ad essere la misericordia, connessa con l’edificazione del regno di Dio,
che è l’umanità felice sotto il governo di Dio. Sì, per il liberazionista
esiste anche la giustizia, ma solo come giustizia sociale, escludendo quella
giustizia cultuale, che consiste nel dare soddisfazione al Padre per i nostri
peccati.
Invece bisogna dire che ciò non corrisponde a
tutta la verità. Infatti, la più alta espressione della carità è la carità divina,
che comporta il culto, l’adorazione e la contemplazione e non la misericordia. Solo
la liturgia, come insegna il Concilio Vaticano II, è la «fons et culmen totius
vitae christianae». Sarebbe ridicolo pensare di dover essere misericordiosi verso
Dio.
Invece la misericordia in questa vita è il vertice
della carità verso il prossimo. Quanto al paradiso, la misericordia non sarà
più necessaria, perché lassù non ci sono miseri da soccorrere. Invece il
liberazionista direbbe: «Misericordia est fons et culmen totius vitae christianae».
Inoltre, come sappiamo, la carità divina ha il primato sulla carità verso il
prossimo. Invece purtroppo Rahner sostiene che la carità divina coincide con la
carità verso il prossimo.
Il rahnerismo produce così due veleni: uno
direttamente, nel campo dottrinale, morale e spirituale, col suo hegelismo
heideggeriano e bultmanniano. E un altro indirettamente, per la mediazione di
Metz e dei teologi sudamericani della liberazione, nel campo sociale e politico.
Paolo VI, memore delle grandi imprese dei
Gesuiti del passato, ebbe l’dea di assegnar loro come compito nel quale
espletare la loro scienza teologica, la loro straordinaria energia, la loro
iniziativa e il loro eroismo, dei quali nel passato avevano dato tante prove,
la lotta contro l’ateismo, del quale parla diffusamente Concilio,
considerandolo «uno dei problemi più gravi del nostro tempo»[10].
Il Concilio raccomanda la «diligenza» nell’affrontare questo problema. Ed offre
una serie di spunti, di indicazioni, di osservazioni e di suggerimenti utili
per studiosi, filosofi, teologi e pastori.
Tradito dai
Gesuiti
Viceversa, che hanno fatto i bravi Gesuiti? La
XXXII Congregazione del 1974 mise all’ODG la discussione sulla proposta del
Papa. Ma ecco, sin dall’inizio, la mossa strana, ma in realtà attentamente
studiata in precedenza e alla quale gli autori dettero una spiegazione tanto
speciosa quanto sleale e sofistica: la Commissione incaricata di redigere i
punti da discutere, dopo avere in un primo tempo distinto la proposta del Papa
della confutazione dell’ateismo da quella della «promozione della giustizia»[11],
improvvisamente le unì un una sola, già in ciò deviando dal tema proposto dal
Papa.
Ma questo era solo l’inizio della manovra astuta
e sleale, la quale, per mezzo di salti mortali logici, conduceva esattamente all’opposto
di quanto il Papa chiedeva, ossia conduceva all’appoggio dell’ateismo! Seguiamo
il filo di questo contorto ragionamento: il Papa vuole la sconfitta
dell’ateismo? Ebbene, da che cosa dipende l’ateismo? E qui c’è già una risposta
di un’inescusabile superficialità: l’ateismo – si disse – dipende dal fatto che
i poveri diventano atei perché esasperati dai ricchi, finti credenti, che li
sfruttano. Liberiamo i poveri dall’oppressione dei ricchi e l’ateismo
scomparirà. Riprovevole semplicismo: ma chi ci dice che l’ateismo dipenda solo da
questo? Il Concilio elenca ben altre cause.
Ma la manovra non si fermava qui e procede
oltre con incredibile sfrontatezza, come se si fosse trattato di convincere uno
allocco. Si giudicò che le rivendicazioni, le agitazioni, le sommosse e
addirittura la guerriglia organizzate dai comunisti in America Latina,
dovessero esser considerate come metodi efficaci per la liberazione degli
oppressi. Ma non ci si era accorti che questi cosiddetti movimenti di liberazione
erano guidati da atei? E allora? L’ateismo come principio di giustizia sociale?
Era incredibile a quale minimo storico si era
abbassato il livello intellettuale di un Istituto gloriosissimo, che in passato
aveva dato un Francesco Saverio, un Pietro Canisio, un Roberto Bellarmino, un
Francesco Suarez, un Taparelli d’Azeglio, un Aldo Marcozzi, un Card. Villot, un
Guido Mattiussi, un Card. Daniélou e tantissimi altri.
Ma c’era un garante a questa sporca operazione.
Ed ecco di nuovo Rahner, con la sua teoria dell’ateismo, per la quale esso,
come del resto il teismo, in quanto forme del pensiero concettuale,
appartengono a un piano dello spirito, detto da Rahner «categoriale», legato al
relativo, all’empiria e alla contingenza, che non esprime la verità originaria e
profonda della coscienza, il cosiddetto piano «trascendentale, apriorico,
atematico, preconcettuale», al quale solo appartiene in tutti gli uomini, l’esperienza
di Dio come donatore della grazia.
L’esser ateo, quindi, per Rahner non ha
alcuna incidenza nel problema della salvezza, che è garantita a tutti, come
«cristiani anonimi», sul piano trascendentale, magari inconsciamente. Uno può
essere ateo a livello categoriale e credente a livello trascendentale. Ma il
piano che conta è quest’ultimo. Da queste premesse si deduce che il problema
dell’ateismo non interessa più di tanto e non deve preoccupare nessuno, dato
che Rahner garantisce che comunque tutti si salvano. Una bella beffa per il
povero Paolo VI!
Nemo ad
impossibilia tenetur
Egli era forse troppo timoroso di interventi
disciplinari. Aveva troppi riguardi con persone astute e sleali, che sarebbe
stato meglio trattare duramente. Aveva
troppa fiducia nel dialogo con persone, vedi per esempio il Card. Suenens o
Mons. Bugnini o Kiko Arguello o Edward Schillebeeckx, circa le quali poi si
accorse che si prendevano gioco di lui.
E fra questi c’è stato probabilmente anche Rahner,
se Paolo VI ebbe addirittura l’ingenuità di farlo membro della Commissione
Teologica Internazionale, che dopo qualche anno Rahner abbandonò con arroganza,
giudicandola non all’altezza del suo genio. E Rahner ripagò poi nel 1968 la
fiducia che il Papa gli aveva accordato, accusandolo sfrontatamente di aver
errato nell’aver proibito gli anticoncezionali nella famosa enciclica Humanae Vitae.
Ma siccome le posizioni di Rahner erano subdolamente
condivise da altri Episcopati, soprattutto quello tedesco, Paolo VI ancora una
volta e meno che mai se la sentì di punire Rahner, come avrebbe meritato; non
solo, ma fu talmente ferito dall’affronto subìto da parte di Rahner e complici,
che fino alla sua morte nel 1978 non ebbe più l’animo di pubblicare altre encicliche.
Paolo VI, invece di sdegnarsi e colpire con
l’arma della giustizia, come avrebbe potuto e dovuto fare, così almeno sembra,
si affliggeva e si limitava al lamento e alla deplorazione, sempre generica,
come poteva fare un qualunque fedele senza autorità, dimenticando, sembra, che
Dio gli aveva messo in mano il «bastone del comando», come avrebbe detto alcuni
decenni dopo Papa Benedetto XVI.
Ora però ci domandiamo: se Paolo VI è stato
fatto Santo, avrà dovuto avere le virtù eroiche. Dove dunque è stato l’eroismo
in queste circostanze? La nostra mente va al ricordo della lotta contro l’eresia
combattuta da un Leone Magno, da un Gregorio Magno, un Innocenzo III, un
Gregorio VII, un Gregorio IX, un San Pio V o un San Pio X. Ma il fatto è che a quei tempi il Papato
disponeva di un concreto potere coercitivo e di un sostegno nell’episcopato,
che mancò a Paolo VI, contrastato da quegli stessi Vescovi, che avrebbero
dovuto far eseguire le direttive pontificie.
Per questo l’eroismo di Paolo VI non ha
potuto avere la forza sufficiente nel reprimere l’eresia, ma è consistito nella
fedeltà e tenacia della sua adesione alla verità nonostante i venti contrari, nella
pazienza, nel sopportare e nell’accettare l’umiliazione di vedersi frainteso, tradito,
contrastato, osteggiato, contestato, contraddetto, insultato, diffamato e
schernito, proprio da coloro che maggiormente avrebbero dovuto obbedirgli e appoggiarlo
nella lotta contro l’errore e la corruzione.
La santità
di Paolo VI
Paolo VI è
stato un Papa crocifisso, un mite Agnello immolato. Perché non
pensare che Paolo VI si sia offerto per la conversione di Rahner e dei suoi
seguaci? Tutto lo fa pensare. E non è, questa, santità? «Venne tra i suoi e i suoi
non lo hanno accolto». È quello stesso che è capitato a Paolo VI ed è capitato
a Cristo. E il Papa non è il Vicario di Cristo?
Siamo abituati a vedere Papi vincitori degli
eretici. Ma perché non vedere un Papa martire degli eretici? Ma il dolce e mite
Paolo VI fu tetragono contro il rahnerismo, senza però mai parlarne apertamente.
Lo si vide dai suoi poderosi insegnamenti dottrinali e dogmatici, suoi e della
CDF, chiari rimedi al rahnerismo, anche se non venne mai nominato. Nessuno,
comunque, riuscì a spingerlo a cedere a Rahner. Anzi, nel VII centenario della
morte di S.Tommaso, pubblicò una
vigorosa Lettera di lode di
raccomandazione del grande Aquinate[12].
Lo Spirito Santo lo proteggeva. E questo è un privilegio di ogni Papa.
Se poi Paolo VI non ha potuto disporre di
collaboratori e forze sufficienti per fermare o castigare i rahneriani, non è stata
colpa sua. Del resto, Gesù Cristo non si è trovato in una situazione simile?
Che cosa Gli sarebbe costato far scendere il fuoco dal cielo su quegli
ipocriti, empi e malfattori? Gesù ha fatto una libera scelta. Paolo VI ha dovuto
fare di necessità, virtù, benché fosse pronto al martirio e poco c’è mancato che
lo subisse realmente, come successe nel viaggio a Manila.
Forse Paolo VI ha tardato un certo tempo ad
accorgersi di quali tipi aveva attorno. Probabilmente s’immaginava, come tanti,
che con un progetto di riforma così bello come quello elaborato dal Concilio, non
avrebbe potuto che incontrare collaboratori entusiasti.
E invece Dio aveva altri piani su di lui e
sulla Chiesa. Non tardarono infatti a passare dieci anni dalla fine del Concilio
che il Papa cominciò ad uscir fuori con frasi amare e sconsolate: «aspettavamo
una primavera e invece è venuta una tempesta». Cominciò a notare che mentre il Concilio
dava speranze di risoluzione di contrasti secolari fra cristiani, ecco invece
apparire conflitti tra cattolici, cosa che portò il Papa a parlare addirittura
di «autodemolizione della Chiesa» e della diffusione in essa di un «pensiero non
cattolico». Famosissime quelle parole: «ci sembra che da qualche fessura sia penetrato
nella Chiesa il fumo di Satana». Inoltre il Papa, accorgendosi dell’invadente
ed arrogante modernismo, parlò di un «magistero parallelo». Come non pensare a
Rahner? Ma che sarebbe successo, se lo avesse nominato? Non se la è sentita. E
cerchiamo di capirlo.
Quando infatti Paolo VI si accorse del rinato
modernismo, ormai era troppo tardi per poter rimediare: i modernisti,
travestiti da progressisti, erano riusciti a raggiungere una tale entratura e
un tale prestigio nella Chiesa, che il Papa, redarguendoli, avrebbe fatto la figura
del cerbero preconciliare e non se la sentì.
Alcuni fatti
strani
Ci sono però dei fatti riguardanti Paolo VI,
di quegli anni agitati, che ci meravigliano. È notoria l’ammirazione che il Papa
aveva per Maritain. Ora proprio nel 1966 Maritain denunciò in un libro famoso, Le paysan de la Garonne, una ripresa
formidabile di modernismo. Come mai il Papa non pensò a riprendere la denuncia
di Maritain? In quegli anni i lefevriani parlavano di modernismo, ma purtroppo
accusandone il Concilio. Può essere che il Papa temesse che usando quella
parola, potesse essere intesa nel senso usato erroneamente dai lefevriani.
Un’altra cosa che meraviglia è come mai il
Maritain, morto nel 1973 ancora lucidissimo, tanto da aver scritto un libro nell’anno
stesso della sua morte, sempre informato sui principali Autori della modernità,
non ha mai fatta attenzione a Rahner. La cosa può dipendere dal fatto che
allora la fama di Rahner era ancora scarsa in Francia, la quale per altro
preferisce citare i propri Autori che quelli stranieri.
Sempre nel 1966 il Card. Ottaviani, Pro-Prefetto
del Sant’Offizio inviò ai Vescovi una Lettera
con la quale in 10 punti li si metteva in guardia contro certi errori contro la
fede in circolazione. Non è difficile riconoscere in essi la teologia di
Rahner. Eppure la Lettera non ebbe
effetto, perché quegli errori restarono, ed anzi si diffusero ancor più.
Nel 1974 Padre Cornelio Fabro pubblicò il
libro La svolta antropologica di Karl
Rahner, nel quale mostrò con ricca documentazione e stringenti argomenti i
fondamenti pseudotomistici e piuttosto idealistici della gnoseologia e della
metafisica di Rahner.
Credo pertanto che si debba dire che Paolo VI,
grazie alla sua fine intelligenza e limpida fede che aveva, si accorse degli
errori di Rahner, ma davanti al risorgente modernismo, che coinvolgeva Vescovi e
Cardinali, visto inoltre il prestigio, del quale Rahner godeva presso l’Episcopato
tedesco, con insufficienti appoggi e comprensione fra i suoi stessi
collaboratori, non si sentì la forza di procedere disciplinarmente.
Solo contro Hans Küng il Papa ebbe la forza
di intervenire, per altro in modo assai blando, semplicemente togliendogli
l’insegnamento in quanto «non cattolico», ma senza chiarire gli errori,
soprattutto cristologici, nei quali era caduto. Non è escluso che Paolo VI
temesse di ripetere la severità a volte eccessiva e una certa chiusura al nuovo,
proprie di Pio XII.
Dopo San Paolo VI il rahnerismo è divenuto
via via sempre più potente. I Papi successivi sempre meno sono stati in grado
di fermare questo virus dello spirito, rovina delle menti e per conseguenza dei
costumi. Da cinquant’anni i migliori
pastori e teologi invocano un intervento risanatore da parte del Sommo
Pontefice. Essi non saranno delusi. I rahneriani non riusciranno mai ad
ingannare il Papa, che, se in Paolo VI può essere apparsa la «pietra che i
costruttori hanno scartata» (Sal 118,22), sarà quella la pietra, sulla quale
chi cade «si sfracellerà e a chi cadrà addosso, lo stritolerà» (Lc 20,18).
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 28 marzo 2020
[1] Vedi il mio libro Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni
Fede&Cultura,Verona 2009; Karl Rahner. Un’analisi critica, a cura
di S.Lanzetta, Cantagalli, Siena 2009; Karl
Rahner. Kritische Annäherungen, Hersg. David Berger, Verlag Franz Schmitt, Siegburg 2004.
[2] L’avventura
della teologia progressista, Rusconi Editore, Milano, 1974, p.20.
[3] Yves Congar mette bene in luce questi
aspetti nel suo Diario del Concilio,
Edizioni San Paolo, 2005, 2 voll.
[4] Storia
del Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1998.
[5] Papa
Giovanni. Un cristiano e il suo Concilio, Einaudi, Torino 2009.
[6] Il
Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010.
[7] Cf A. Caruso, Tra grandezze e squallori, Viverein, Monopoli (BA), 2008, pp.166,
169, 171, 175.
[8] Cf B. Mondin, Le cristologie moderne, Edizioni Paoline, Roma 1979, pp.179-183;
189-193.
[9] Mondin, Op.cit., p.189.
[11] A. Caruso, op.cit., p.167.
[12] Lettera
Lumen Ecclesiae al Padre Vincent de
Couesnongle, Maestro dell’Ordine dei Frati Predicatori del 1974.
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RispondiEliminaNo sé por qué se ha borrado mi comentario, quizás algún error de mi parte.
RispondiEliminaLo que deseaba, padre Cavalcoli, además de alabar sus textos, y agradecerle su servicio a los lectores, comentarle que me parece que existe en este artículo un pequeño error: la Congregación General de la Compañía de Jesús a la que se refiere, la de 1974, es la XXXII y no la XXII, como Ud. ha escrito.
Reitero mi agradecimiento por sus textos.
Caro Fr. Filemòn,la ringrazio per le buone parole e per avermi dato modo di correggere l'errore.
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