La creazione divina secondo Gustavo Bontadini - Prima Parte (1/5)

La creazione divina secondo Gustavo Bontadini[1] 

Prima Parte (1/5)

Invisibilia Dei a creatura mundi

per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur.

Rm 1,20

Una disputa sul concetto di creazione

Tra la fine degli anni ’50 del secolo scorso e gli inizi degli anni ’70 il dibattito filosofico italiano fu dominato da una disputa fra Bontadini e il suo ex-allievo Severino all’Università Cattolica di Milano circa la questione del valore ontologico del divenire in rapporto alla metafisica di Parmenide, che Bontadini aveva rilanciato e che Severino aveva accolto.

Bontadini però intendeva rifarsi a Parmenide perché riteneva che il suo pensiero potesse servire per rendere più rigoroso il concetto di creazione e per proporre una prova dell’esistenza di Dio più diretta dei procedimenti tomistici, mentre Severino si lasciò entusiasmare talmente da Parmenide, da abbracciare incondizionatamente il suo pensiero, al punto  di perdere addirittura la fede e da cadere in una metafisica monista, con esiti da una parte ateistici, come l’eternalizzazione del divenire e dall’altra panteisti, come risoluzione dell’apparire nell’essere.

Così nacque una lunga controversia tra Bontadini, che pur volendo essere cattolico, credeva che Parmenide potesse servire meglio di San Tommaso a fondare la metafisica, e Severino, il quale utilizzando Parmenide, spingeva il maestro verso il panteismo.

Bontadini resistette a lungo ai sofismi di Severino, ma non riuscì a liberarsi del tutto dalla sua dialettica apparentemente incontrovertibile. Tuttavia a un certo punto con supremo sforzo intellettuale, benché non si sentisse capace di controbattere efficacemente all’avversario, professò comunque un atto fede nel dogma della creazione e dell’esistenza di Dio e smise di discutere con Severino.

Sia Bontadini che Severino furono sedotti dall’essere monistico parmenideo, un essere che esalta certamente il principio di identità, ma che è tale per cui tutto è uno, e tutto è necessario, quindi un essere che non dà spazio al divenire, al plurale, al contingente e al mutevole, che non lascia vedere la distinzione fra l’effetto e la causa, e fra il pensiero e l’essere.

La discussione giunse ad un certo momento a un punto morto. Bontadini mantenne il concetto del Dio cristiano immutabile creatore del mondo soggetto al divenire, seppur apparentemente contradditorio, mentre Severino, che da una parte non voleva rinunciare a Parmenide, ma dall’altra parte non poteva neanche lui negare l’esistenza del divenire, non trovò di meglio che formare il concetto del Divenire eterno affine all’hegeliano essere che diviene, che però non può essere il vero Assoluto, come spiegano bene Aristotele[2] e San Tommaso.

Così quella contraddizione che Severino toglie dal divenire mondano, adesso è nello stesso Assoluto, mentre il Bontadini cristiano si guarda bene dal considerare Dio autocontradditorio e preferisce lasciare la contraddizione nel mondo.

Sappiamo come si concluse la tormentata controversia. Severino, avendo assunto una posizione teoretica panteista apertamente anticristiana, fu espulso dall’Università per intervento della CDF, mentre Bontadini, a lungo pressato dall’allievo, restò aggrappato alla fede, anche se bisogna dire che purtroppo non riuscì mai del tutto a staccarsi dal fascino di Parmenide, che gli apparve sempre come il metafisico per eccellenza, che preferì a San Tommaso. Ma la conclusione filosofica alla quale egli giunse non è delle più felici. Egli pensò di rigorizzare il pensiero di San Tommaso, ma in realtà resta a metà fra Parmenide e Tommaso, fra idealismo e realismo.

Bontadini non tenne conto del fatto che il linguaggio metafisico non sopporta un livello di rigorizzazione superiore a quello usato da San Tommaso col metodo dell’analogia, del paragone e della partecipazione. Il linguaggio metafisico non può avere il rigore, la precisione e l’univocità di quello matematico, legato alla quantità.

Nella storia della metafisica molti sono stati i tentativi in tal senso. Ma sono sempre falliti, per il fatto che essi ci hanno dato sì concetti precisi, ma che non rispecchiano la realtà. Il metafisico, allora, deve rassegnarsi a un modo di conoscere e di concettualizzare approssimativo, meno perfetto e meno rigoroso. Ma proprio così è tanto più vero, ed è ciò che conta. L’ideale del linguaggio metafisico non è il rigore o la rigidità, ma la duttilità e la funzionalità, che può comportare concetti vaghi, imprecisi, indeterminati e confusi, ma che proprio pagando questo prezzo sono quelli che colgono il reale.

Il concetto è un prodotto della nostra mente funzionale alla visione della realtà. Se curiamo troppo la perfezione di questo nostro prodotto e trascuriamo la sua funzione realistica, succede che non vediamo più il reale, ma solo il nostro concetto. È quello che è successo a Cartesio e succede agli idealisti, i quali, chiusi nelle loro splendide idee, perdono i contatti con la realtà.

I termini della controversia

Non è facile spiegare come mai i due filosofi della Cattolica abbiano avuto l’idea di respingere l’esse tomistico per andare a ripescare l’einai parmenideo, già confutato da Aristotele e dallo stesso San Tommaso. Probabilmente lo spunto venne da Heidegger, il quale pure denunciava, non senza buone ragioni, un «oblio dell’essere (sein)» a partire da Parmenide[3] fino ai nostri giorni.

Heidegger parlava di una «differenza ontologica» fra l’ente (seiende) e l’essere (seyn) e della necessità di superare l’ente aristotelico, che effettivamente ignora l’einai, per raggiungere l’esperienza o «precomprensione» (vorverständnis) dell’essere. Ma Heidegger non aveva notato che questo superamento era già stato attuato da San Tommaso in maniera però da non dimenticare l’ente, mentre Parmenide risolveva tutto nell’essere assoluto e sussistente e quindi cadeva nel panteismo.

Severino attaccava Aristotele sia sul principio di identità che sulla nozione del divenire sostenendo che esse non rispettano a sufficienza, come aveva fatto Parmenide, il principio di non-contraddizione. Bontadini si lasciò persuadere da questa critica di Severino e, benché volesse mantenere il dogma della creazione, non disponeva delle armi sufficienti per controbattere agli attacchi di Severino. Ne sarebbe stato capace, se avesse assunto i princìpi di Aristotele. Ma Bontadini aveva già ceduto all’influsso di Gentile, per il quale l’essere coincide col pensare, per cui la metafisica non comporta relazione a un ente esterno materiale e diveniente, ma deve poter avere un oggetto che non lasci zone oscure alla ragione.

Ora il divenire presenta alla ragione questo lato oscuro e sembra ostico alla ragione. Parmenide credeva di aver risolto il problema semplicemente ignorandolo. Bontadini era colpito dal rigore di Parmenide nell’affermare il principio d’identità. Ma non riuscì a capire che era stato Aristotele con la sua formulazione del medesimo principio a dimostrare che il divenire non è contradditorio e quindi la ragione non lo deve respingere e abbandonarlo al senso.

In tal modo Bontadini e Severino si mostrano incapaci di apprezzare come Aristotele il valore ontologico dell’ente mutevole; ma se ciò non crea ostacolo al programma severiniano di risolvere il divenire nell’apparire dell’essere, ciò impedisce a Bontadini di utilizzare l’ente mutevole come punto di partenza per dimostrare l’esistenza di Dio, per cui Bontadini non trova di meglio che impostare la questione non come se avesse una base fisica, come aveva fatto Aristotele, ma come se si trattasse di un problema di logica, per cui dimostrare che Dio esiste ed ha creato il  mondo, vuol dire porre Dio come colui che toglie la contraddizione del divenire ed afferma se stesso come principio di questo toglimento, come se non dovessimo far funzionare il principio di causalità, ma la forza della dialettica.

L’attitudine dei due filosofi riguardo al divenire non è esattamente la stessa: Bontadini sostiene che esso appare contradditorio, ma lo diventa realmente, se non si ammette l’esistenza di Dio, dal quale pertanto il divenire dipende come creatura e se non lo si pone pertanto creato da Dio. L’esser creato, pertanto, non è l’effetto dei una causa efficiente, di una productio totius entis per dirla con San Tommaso, ma è l’esser posto in uno stato di dipendenza logica, così come le proprietà del triangolo sono dedotte dall’essenza del triangolo e non si dice che sono l’effetto del triangolo come causa efficiente delle sue proprietà.

E questo espediente è escogitato da Bontadini per evitare di mettere in campo il nulla, dal quale la creatura sarebbe tratta, così come si dice che le proprietà del triangolo non sono tratte dal nulla, ma discendono dallo stesso triangolo. E perchè questa fobìa per il nulla? Perché Severino ha sentenziato che è un concetto spurio, contradditorio e nichilistico. Dunque Severino fa appello al nulla per negare il nulla.

Bontadini non tiene conto del fatto che il concetto del nulla non è contradditorio a patto che ci ricordiamo che il nulla è un qualcosa come ente di ragione. In tal senso non dobbiamo temere a riconoscere che il nulla esiste, altrimenti non ne potremmo parlare e non ci intenderemmo tra noi quando parliamo del nulla. Per non cadere in contraddizione basta allora che diciamo che il nulla è il non-essere, ma esiste come ente di ragione. Se non facciamo questa distinzione perde di senso il dogma della creazione dal nulla.

Per Severino, più attaccato di Bontadini a Parmenide, sotto specie di sostenere meglio il principio di non-contraddizione e di evitare il nichilismo, il divenire è senz’altro contradditorio, è un puro e semplice inganno per la ragione e anche per l’esperienza, che cade sotto il giudizio della ragione.

Bontadini invece non sa rassegnarsi allo scetticismo empirico di Severino, ma deve pagare il prezzo di mettere la ragione contro l’esperienza, cosa che Severino sembra evitare, ma, come vedremo, per cadere in una contraddizione ancora più grave di quella nella quale cade Bontadini.

Severino pertanto non intende affatto rigorizzare come Bontadini il concetto di creazione alla luce di Parmenide, ma sostiene senz’altro senza mezzi termini che il concetto cristiano di creazione dal nulla è nichilistico. Da qui il suo giudicare impossibile dimostrare l’esistenza di Dio partendo dalla considerazione del divenire. Inoltre per Severino non ha senso ammettere un ente autosussistente, Dio, in mezzo e al di sopra di altri enti contingenti, perchè, come sostiene Parmenide, esiste un solo ed unico Essere, che è l’Essere, che non può non essere, mentre gli enti non sono che apparizioni e scomparse successive e molteplici, benché eterne, dell’unico Essere eterno.

Se per Bontadini bisogna ammettere l’esistenza di Dio per togliere la contraddizione del divenire e soddisfare all’esperienza, che invece non vede affatto contradditorio il reale sensibile, per Severino occorre soddisfare radicalmente le esigenze della ragione, che non tollera assolutamente la contraddizione del divenire e la toglie non ricorrendo a un Dio trascendente, ma riconoscendo la stessa eternità del divenire.

 Così per Severino il divenire, benché contradditorio, basta a se stesso perché immutabile ed eterno. Esso prende il posto di quello che è Dio per il credente Bontadini.  Ma così in Severino la contraddizione, invece di risolversi si aggrava e diventa radicale, passando dal mondo diveniente all’Assoluto, dall’apparire all’Essere.  È quella che Severino stesso chiama «contraddizione fondamentale»[4]. Severino peraltro comincia con Parmenide e finisce con Hegel. Così tutta la sbandierata opposizione parmenidea dell’essere al nulla, finisce nell’essere hegeliano, l’«immediato indeterminato identico al nulla»[5].

La «via breve» di Bontadini

Appoggiandosi a Parmenide, Bontadini pensa di aver trovato una via per la dimostrazione dell’esistenza del Creatore più breve, più rigorosa e più rispettosa del principio di non contraddizione che non quella che San Tommaso ricava dalla fisica e dalla metafisica di Aristotele perfezionate dal concetto dell’essere (esse, einai), la cui considerazione non è oggetto della metafisica aristotelica, giacchè Aristotele, come è noto, non va oltre la considerazione dell’ente (ens, on) e non prende in considerazione l’atto d’essere.

Viceversa il teorema della creazione è la risposta alla domanda circa la causa dell’essere dell’ente. Ora Aristotele non si è posto questa domanda, ma si è limitato a chiedersi che cosa è l’ente e quali sono le cause del divenire dell’ente. Ma non si è posto il problema radicale di qual è e come dev’essere la causa dell’essere dell’ente.

Tommaso riprende il concetto aristotelico di causa efficiente e lo porta al massimo della sua radicalità. Non si limita a chiedersi qual è la causa del moto o del divenire, ossia del fatto che una materia perda una forma per acquistarne un’altra, ma s’interroga circa la causa produttiva della stessa materia, vale a dire qual è la causa che produce l’ente nella sua totalità, materia e forma sostanziale. Occorre una causa che non si limiti a produrre una nuova forma in una materia presupposta e indipendente dall’agente, ma bisogna ammettere un agente di tale potenza da produrre anche la materia dell’ente e quindi da non presupporre nulla al suo atto produttivo. Questa è appunto la creazione dal nulla insegnata dalla Bibbia, ma che di per sé è una verità che può essere scoperta dalla sola ragione metafisica.

Come è noto, San Tommaso arriva ad ammettere l’esistenza di Dio creatore attraverso le famose cinque vie, le quali imbastiscono cinque modi di interrogarsi circa il fondamento e l’origine delle cose, che provocano un procedimento razionale o una serie di passaggi logici, che conducono tutti necessariamente a riconoscere con assoluta certezza l’esistenza di Dio.

Per la verità, Tommaso in altri luoghi mostra come queste vie possono abbreviarsi e ridursi ad una sola: è quella metafisica, che ragiona solo sull’essere, per la quale la ragione, accorgendosi dell’esistenza dell’ente contingente, esistente da altro e per partecipazione, si accorge altresì che esso non potrebbe esistere, se non fosse causato da un ente necessario, esistente da sè e per essenza.

Ma Bontadini ritiene che il procedere di Tommaso non osservi pienamente il principio di non-contraddizione e quindi che occorra elaborare un concetto di creazione che non offra alcun appiglio alle esigenze più rigorose del rispetto di quel principio. Senonchè Bontadini, invece di appoggiarsi sulla formulazione aristotelico-tomista del principio di identità e di non-contraddizione, si appoggia su quella parmenidea, che ritiene sottratta ad ogni possibile critica. E invece non spetta a quella parmenidea, ma a quella aristotelico-tomista, come vedremo, essere inattaccabile dalle più rigorose esigenze della non-contraddizione.

Infatti, il principio parmenideo, al di à della sua apparente incontrovertibilità, nasconde un’aporia irresolubile, che fa sì che, senza le dovute precisazioni apportate da Aristotele, il principio si volge nel suo contrario, ossia in quello eracliteo della sostituzione dell’essere col divenire inteso come autocontradditorietà dell’essere.

Per questo Bontadini, invece di prendere una strada migliore, si avvìa su di un vicolo cieco, come vedremo. Come abbiamo già notato, infatti, Bontadini imposta male il problema. Infatti nella sua argomentazione tutto si risolve nello scioglimento di una contraddizione. Chiama infatti la sua prova non prova per passaggio dall’effetto alla causa, ma «prova dialettica».

L’osservazione che peraltro vorremmo fare come pregiudiziale al punto di partenza bontadiniano, diciamocelo francamente, è: a chi viene in mente seriamente che il divenire sia contradditorio? Ci pare mai che gli uomini del nostro tempo, così interessati alla scienza e alla tecnica, ci darebbero tutte le meraviglie che oggi continuamente realizzano in questo campo, se avessero il minimo dubbio circa l’identità e la conoscibilità del divenire e di trovar in esso leggi universali e precise, matematicamente formulate, atte a consentire un sempre maggior dominio della natura per il bene dell’uomo e del creato? È proprio il caso di creare in loro dei dubbi sulla base delle idee di un filosofo di 2500 anni fa, già confutato da Aristotele e al suo seguito da tutti i filosofi fino ai nostri giorni?

È già di per sé cosa ardua la dimostrazione dell’esistenza di Dio e la comprensione del dogma della creazione. Ha senso voler dimostrare valendosi di un sofisma contro l’evidenza contraria che il divenire appare contradditorio, per poi dimostrare che in fondo non lo è in base alla considerazione dell’inconfutabilità del principio di non-contraddizione fondato a sua volta sull’esistenza di Dio? È una prova convincente e così rapida come vorrebbe presentarcela Bontadini?

Certamente la nozione di creazione è strettamente congiunta con quella dell’esistenza di Dio. Ricordiamo però che la nozione di creazione suppone non solo l’opposizione parmenidea dell’essere al non-essere, ma anche altre considerazioni:

1. la percezione della potenza attiva e della causalità efficiente dell’essere, che ci consente di offrire il quadro ontologico generico nel quale inserire la nozione di creazione;

 2. La distinzione fra il poter essere e l’essere in atto, per la quale sciogliamo l’apparente contradditorietà del divenire;

3. La distinzione fra il possibile e l’attuale, che ci occorre per distinguere il creabile dal creato;

4. la distinzione reale fra essenza ed essere, che serve per evidenziare che l’ente creato non ha l’essere per essenza, ma lo ha dal Creatore.

Dio creando causa l’essere in atto all’essenza possibile

Nella mente divina tutti i possibili sono in atto identici all’essenza divina. Quando Dio decide di creare qualcosa, dà l’essere a questo qualcosa, sicchè esso passa dalla possibilità di essere all’esistere attuale, ossia Dio aggiunge l’essere a quella data essenza da Lui progettata, per cui quell’essenza diventa realmente esistente.

Teniamo presente, al riguardo, che la distinzione reale fra essenza ed essere non va intesa come se si trattasse di due cose, ma vuol dire distinzione che ha riferimento alla realtà. Non si tratta, come credeva Suarez, di una semplice distinzione di ragione fra due aspetti intellegibili della medesima creatura esistente, come se l’essenza fosse un modo di considerarla in quanto essenza possibile e l’esistenza un altro modo di considerarla, in quanto attuale o reale. L’esistente non è un semplice possibile attuato, ma è un’essenza attuata dall’atto d’essere. Sicchè la realtà non è solo l’essenza attuata ma è l’essenza perfezionata e completata dall’atto d’essere.

La semplice essenza non è ancora il reale se non ha l’essere. L’essere non è la semplice attualità dell’essenza, ma è atto dell’essenza, atto rispetto al quale l’essenza è potenza, similmente a come la materia è potenza rispetto alla forma sostanziale, sicchè l’ente creato non è una semplice essenza esistente, ma un composto di potenza e di atto, di essenza ed essere.

L’essenza senza l’essere non resta essenza, ma è semplicemente nulla. Essa non ha un esistere per conto proprio (esse essentiae), ma esiste solo se ha l’essere che gli conferisce Dio. E con ciò stesso l’ente, composto di essenza ed essere, viene creato. Similmente l’espressione suareziana esse existentiae è una tautologia, come se dicessimo l’essere dell’essere. L’essere è l’essere e basta.

Per converso il non-essere, il nulla non coincide esattamente con il non-esistere, con l’inesistenza, perché ciò che non ha essere, ossia ciò che non appartiene alla realtà, come il possibile o il semplice pensabile, non per questo non esiste, ma esiste nel mondo del pensiero come ente di ragione.

E per converso, affinchè vi sia l’esistente reale, non basta il possibile o pensabile, se esso non ha l’atto d’essere che Dio gli dà nella realtà. Pensiero e realtà sono distinti. Come non si deve reificare il pensiero, così non si deve logicizzare il reale. Sta qui l’errore degli idealisti e quello di Bontadini.

Invece per Suarez Dio, quando crea una creatura, non dà l’essere ad un’essenza e questa non acquista un essere che prima non aveva; e quando questa creatura cessa di esistere per Suarez non perde l’essere, e Dio non sospende la fornitura di essere, ma semplicemente la creatura acquista o perde un modo di essere, che sarebbe l’esistenza reale.

Insomma, per Suarez l’essere creato non è atto d’essere, non è somma perfezione dell’ente, non è quell’einai che pur Parmenide aveva scoperto, non è essere inteso come atto (actus, energheia). Per Suarez l’essere è di per sé atto, non ha bisogno di acquistarlo. L’ente non è finito perché il suo atto d’essere attua un’essenza finita, ma è finito di per se stesso.

Non si dà, per Suarez, essenza-potenza ed essere-atto, ma solo possibile e attuale. Col fatto di essere creata, la creatura non acquista e non riceve un atto d’essere che prima non aveva, essendo nulla, ma semplicemente acquista quel modo d’essere che è l’esistere reale.

Allora si comprende che la distinzione fra due modi d’essere dell’ente non può essere una distinzione reale, ma solo modale o di ragione. Così però ci si chiede se è veramente salvato il concetto di creazione, e se la creatura, già dotata di per sé di esse essentiae, non sia troppo assimilata all’essere del creatore e quindi se non appaia indipendente da Lui nell’essere e quindi non tratta dal nulla.

Non esiste, infatti, secondo Suarez, un reale poter-essere denominato «potenza», appartenente alla realtà, per cui l’essenza per lui non è potenza rispetto all’etto d’essere. Quindi l’essere creato non aggiunge all’essenza un essere che essa non abbia già come essenza (l’esse essentiae). L’essenza, per Suarez, ha già per conto proprio una sua esistenza (esse essentiae), al quale Dio aggiunge, creandola, l’esse existentiae, che però consiste semplicemente nel fatto che Dio dà all’essenza il modo dell’esistenza in atto, fuori delle sue cause.

Fine Prima Parte (1/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 gennaio 2023

Appoggiandosi a Parmenide, Bontadini pensa di aver trovato una via per la dimostrazione dell’esistenza del Creatore più breve, più rigorosa e più rispettosa del principio di non contraddizione che non quella che San Tommaso ricava dalla fisica e dalla metafisica di Aristotele, perfezionate dal concetto dell’essere (esse, einai).

Tommaso riprende il concetto aristotelico di causa efficiente e lo porta al massimo della sua radicalità. Occorre una causa che non si limiti a produrre una nuova forma in una materia presupposta e indipendente dall’agente, ma bisogna ammettere un agente di tale potenza da produrre anche la materia dell’ente e quindi da non presupporre nulla al suo atto produttivo. Questa è appunto la creazione dal nulla insegnata dalla Bibbia, ma che di per sé è una verità che può essere scoperta dalla sola ragione metafisica.

Tommaso in altri luoghi mostra come queste vie possono abbreviarsi e ridursi ad una sola: è quella metafisica, che ragiona solo sull’essere, per la quale la ragione, accorgendosi dell’esistenza dell’ente contingente, esistente da altro e per partecipazione, si accorge altresì che esso non potrebbe esistere, se non fosse causato da un ente necessario, esistente da sè e per essenza.

Ma Bontadini ritiene che il procedere di Tommaso non osservi pienamente il principio di non-contraddizione e quindi che occorra elaborare un concetto di creazione che non offra alcun appiglio alle esigenze più rigorose del rispetto di quel principio. Senonchè Bontadini, invece di appoggiarsi sulla formulazione aristotelico-tomista del principio di identità e di non-contraddizione, si appoggia su quella parmenidea, che ritiene sottratta ad ogni possibile critica. E invece non spetta a quella parmenidea, ma a quella aristotelico-tomista, essere inattaccabile dalle più rigorose esigenze della non-contraddizione.

Immagini da Internet:
- Gustavo Bontadini
- San Tommaso d'Aquino, pala del Guercino, Bologna


[1] Una buona prestazione del pensiero di Bontadini messo a confronto con quello di San Tommaso si trova in Giuseppe Barzaghi, Teoresi e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana, in Divus Thomas mag.-ago. 2014, pp.35-54.

[2] Certo Aristotele non è arrivato a cogliere l’identità assoluta ed immutabile dell’ipsum Esse, l’einai sussistente intuìto da Parmenide. Tuttavia il principio aristotelico ananke stenai, «occorre fermarsi» fa comprendere chiaramente che egli aveva capito che il principio del moto e del divenire non può che essere immutabile. Da qui il suo famoso Kinùn akìneton, il Motore immobile. Ma non è immobile alla maniera di Parmenide, come escludente il divenire; al contrario, è immobile proprio perchè deve spiegare l’esistenza del divenire.

[3] Uno studio interessante su Parmenide è quello di Luigi Ruggiu, come introduzione a Parmenide, Poema sulla natura, Rusconi, Milano 1991.

[4] Antonino Postorino mostra questo esito finale severiniano nell’hegelismo in Il concetto della «creatio ex nihilo». Ipoteca nichilistica e rigorizzazione metafisica, in Sacra Doctrina 1,2017, pp.199-269.

[5] L’esito hegeliano di Severino è documentato nel suddetto articolo di Antonino Postorino,

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