La presenza dello Spirito Santo - Stiamo vivendo l’età dello Spirito Santo inaugurata a Pentecoste - Terza Parte (3/5)

 La presenza dello Spirito Santo

Stiamo vivendo l’età dello Spirito Santo inaugurata a Pentecoste

 Terza Parte (3/5) 

Vediamo come Hegel concepisce la Trinità.

 

«Lo Spirito, rappresentato dapprima come sostanza nell’elemento del puro pensare, è con ciò immediatamente l’Essenza semplice, eguale a se stessa. Eterna, che però non ha questa astratta significazione dell’Essenza, ma la significazione dello Spirito assoluto» (il Padre). «Solo, lo Spirito consiste nell’essere non solo significazione, non l’interno, ma l’effettuale. La semplice Essenza eterna, quindi, sarebbe Spirito solo secondo la vuota parola, se restasse alla rappresentazione e all’espressione dell’essenza semplice ed eterna.

 

Ma l’Essenza semplice, essendo l’astrazione, è nel fatto il negativo di se stesso, e precisamente la negatività del pensare o la negatività com’essa è in sé nell’Essenza: cioè l’assoluta differenza da sé, ovverosia il suo puro divenir altro. Come Essenza, è soltanto in sé o per noi; ma essendo questa purità proprio l’astrazione o la negatività, essa è per se stessa, ovverosia, è il Sé, il Concetto» (Figlio). «È dunque oggettiva; e poiché la rappresentazione capisce ed esprime l’anzidetta necessità del Concetto come un accadere, si dirà che l’Essenza eterna» (il Padre) «si crea un Altro. Ma in questo esser-Altro, essa è altrettanto immediatamente ritornata in sè» (lo Spirito Santo); «perché la differenza è la differenza in sé, cioè è immediatamente distinta solo da se stessa, e quindi è l’unità ritornata in se stessa.

 

Si distinguono dunque i tre momenti dell’Essenza» (Padre), dell’esser-per sé, che è l’esser-altro dell’Essenza e pel quale l’Essenza è» (Figlio), dell’esser-per sé o del saper se stesso nell’altro» (Spirito). «L’Essenza intuisce solo se stessa nel suo esser-per-sé. Essa in questa alienazione» (Figlio)«è soltanto presso di sé; l’esser-per-sé che si esclude dall’Essenza è il saper l’essenza di se stesso; è il Verbo, che, pronunziato, lascia alienato e svuotato chi lo pronunzia, ma che è avvertito altrettanto immediatamente; e solo questo avvertire se stesso è l’esserci del Verbo. Cosicchè le differenze fatte sono altrettanto immediatamente risolte; è il vero e l’effettuale» (lo Spirito) «sono proprio questo movimento circolante entro se stesso.

 

Questo movimento in se stesso esprime l’essenza assoluta dello Spirito, l’Essenza assoluta che non viene attinta come Spirito è solo l’astratta vacuità» (il Padre); «così come lo Spirito che non viene attinto come questo movimento» (la storia) «è solo una parola vuota. Dacché i suoi momenti» (le tre Persone) «vengono presi nella loro purezza, essi sono i concetti irrequieti, l’essere dei quali sta solo in ciò, che essi sono in se stessi il loro contrario» (tesi-antitesi), «ed hanno la loro quiete nell’intiero» (sintesi).

 

Ma il rappresentare della comunità» (i dogmi della Chiesa) «non è questo pensare concettuale; sebbene ha il contenuto senza la sua necessità» (la conoscenza di fede) e porta nel regno della coscienza pura, invece della forma del concetto» (che è il vero sapere), «i rapporti naturali di Padre e Figlio. Poiché quel rappresentare si comporta come rappresentazione anche nel pensare, l’Essenza gli è sì manifesta, ma i momenti di questa» (le tre Persone) «da una parte gli si disgregano essi stessi in forza di tale rappresentazione sintetica, cosicchè essi non si riferiscono l’uno all’altro mediante il loro proprio concetto; dall’altra parte esso torna indietro da questo suo oggetto puro e gli si riferisce solo esteriormente; l’oggetto gli è rivelato da un estraneo; e in questo pensiero dello Spirito il rappresentare non riconosce se stesso, non la natura dell’autocoscienza pura»[1].

Nella concezione di Hegel la meta ultima del cammino dell’uomo non è la visione del Padre, ma la coscienza di essere momenti e manifestazioni dello Spirito inteso come Dio immanente, Dio-con-noi, Assoluto nella storia, Spirito nel mondo, ma non nel senso di uno Spirito che ci trascenda ed esista al di là di noi, bensì uno Spirito essenzialmente presente in noi e nella nostra storia, sicchè senza il mondo questo Spirito non potrebbe esistere o sarebbe solo un’idea astratta e vuota di realtà. Questo Dio astratto è invece il Padre, che non è Dio nel senso pieno come lo Spirito, ma è solo il primo momento del nostro concepire Dio o farsi di Dio. È il punto di partenza dell’essere e del concetto di Dio: Dio inteso come astrazione celeste, creatore nel senso che ci sovrasta, ci domina incolpandoci, come se gli fossimo nemici, perché il nostro io è il suo non-Io.

Tuttavia, per Hegel, il non-Io del Padre nel suo vertice non siamo noi, ma è il Figlio. Ora il Padre, per essere sé, come dice Hegel e ripete Schelling sulle orme di Fichte, deve far tornare il sé opposto a sé – il Figlio- a sé. Come avviene questo? Nello Spirito, perché lo Spirito è il riconciliatore del Figlio col Padre e, per conseguenza il riconciliatore del mondo e dell’uomo in Dio.

Ma adesso Dio come Padre severo punitore è superato. Adesso nello Spirito della pace e della conciliazione tutto è uno nello Spirito e lo Spirito è tutto in tutto. Non ci sono più dannati e reprobi, ma tutti sono buoni. Dio è superato come Padre (essere) e come Figlio (conoscere) ed appare nella sua pienezza finale come Spirito (amore). Questa è l’era dello Spirito nella quale soltanto sappiamo chi è Dio, la divina Sostanza di noi stessi.

Come si vede, Hegel ritiene che il dogma della Chiesa, oggetto di fede, la «rappresentazione», non riesce a cogliere la necessità logica della trinità divina, ma giustappone le tre Persone senza vederne la ragione, pensando di afferrare il fatto che la Trinità sia insita nel concetto di Dio come svolgimento dialettico dello stesso ossia concetto, ossia come Spirito, che pone sé, il negativo di sé e la riconciliazione con sé.

Ma tutto ciò conduce a gravissimi inconvenienti. Primo, che Hegel confonde la processione divina con la creazione del mondo. Secondo, che introduce il movimento, il divenire e quindi la storia nell’essenza della Trinità. Terzo, che introducendo il negativo in Dio, ne fa la causa del male. Quarto, che non distinguendo natura e persona giunge all’assurdo di concepire Dio come uno e trino non nelle persone, ma nella natura, similmente a quanto accadde a Gioachino da Fiore.

Succede così in Hegel che lo Spirito non è spirito di distinzione dei diversi e di separazione dei contradditori (essere-non-essere, vero-falso, bene-male), ma è spirito che per unire confonde e per distinguere divide, separa e contrappone. L’altro non è il diverso, ma il nemico. Il malvagio non è nemico, ma è semplicemente l’altro, è il diverso. Questo spirito non è spirito di concordia, di pace e di conciliazione, ma di guerra, di dissenso, di disobbedienza, di contraddizione, di conflitto. Chiaramente non è uno spirito buono, ma uno spirito malvagio. È quello che la Bibbia chiama «diavolo» (da dia-bolos, diaballo, divido). Non è una buona volontà, ma una volontà malvagia, che si oppone a quella buona dello Spirito Santo.

Non è uno spirito favorevole e benefico, ma è uno spirito nemico ed avversario (l’eb. Satàn significa appunto avversario). Non è quindi uno spirito di amore, ma di odio. Questo spirito non afferma il sì contro il no, ma sintetizza il sì col no, ed è quindi uno spirito di doppiezza, di finzione e di menzogna.

Quanto al Dio di Schelling, esso è «causa sui», cioè la sua esistenza non è necessaria, ma effetto del suo libero volere. Quindi non è che Dio non possa non esistere, ma esiste semplicemente perché vuole, anzi ha voluto esistere: idea evidentemente assurda, perché non può esistere un volere, senza un presupposto soggetto del volere, senza un volente esistente.

Occorre osservare che se questo soggetto non esiste da sé in forza del suo stesso essere, non può esistere in forza del suo volere, perché per volere deve esistere. Per questo, Dio può volere l’esistenza dell’altro da sé, ossia del mondo, per cui lo crea. Che in Dio l’essere coincida col volere, nessun dubbio. Ma è perchè esiste, che egli vuol essere. È chiaro che egli ama se stesso e vuole se stesso, ed assurdo pensare che il suo esistere sia effetto del suo voler esistere. Dio non vuole se stesso come possibile, così da realizzare se stesso con la sua volontà. Infatti un possibile non può essere soggetto del volere. 

Che l’esistenza di Dio sia possibile, nessun dubbio, dato che essa è reale. Ma è assurdo pensare che un Dio possibile realizzi se stesso come Dio reale. Siamo noi, semmai, che, come diceva Leibniz, possiamo passare dal pensiero della possibilità che Dio esista all’affermazione della sua esistenza reale. Ma un conto è il nostro concetto di Dio e un conto è Dio in se stesso.

Gravissime sono le conseguenze morali di questa idea mostruosa, la quale, benché assurda, può giocare un ruolo ed avere un’applicazione in  campo pratico come volontarismo assoluto: una volontà che non si basa sul vero bene, ma solo sul suo puro arbitrio sciolta da qualunque riferimento alla verità. Si comprende come una simile concezione della volontà la esponga all’attuazione di qualunque abominio sia che si pensi alla volontà umana, sia che si pensi alla volontà divina. Questa idea abominevole c’è anche in Hegel, quando dice che la volontà vuole se stessa e si ritrova nella concezione nicciana della volontà di potenza, la quale, come spiega Heidegger[2], corrisponde alla metafisica ci Nietzsche, per il quale l’essere non è altro che la volontà di potenza.

Come Hegel, Schelling inserisce la triade dialettica nella stessa essenza di Dio, sicchè l’unità di Dio non è unità numerica e semplice, ma è l’unificazione delle «tre potenze» (essere in sé, essere per sé, essere un sé e per sé); è la sintesi dell’affermazione e della negazione o il ritorno al sé del sé uscito da sé. In tal modo in Dio viene ad esistere sia il bene che il male. Chiama Dio actus purissimus, non però nel senso di puro atto d’essere senza potenza, ma come attuazione del poter esser Dio. Non si vede allora in che cosa dovrebbe consistere la purezza di questo atto. Confonde inoltre il possibile col potenziale. Il possibile riguarda il pensiero; il potenziale riguada la realtà. Siccome l’essere divino è indubbiamente possibile, dato che è reale, allora concepisce Dio come unità di potenza ed atto. Da qui la confusione dello spirito con la materia e di Dio col mondo.

Confonde la persona con la natura, sicchè la triade non riguarda le persone, ma la natura. In ciò assomiglia a Gioachino da Fiore. Confonde la generazione divina con la creazione: per lui il mondo è Dio che esce da sé come il Figlio esce dal Padre.

Le Persone trinitarie si rivelano progressivamente

 nel corso della storia

Secondo la Sacra Scrittura la storia è una progressiva rivelazione, manifestazione ed attuazione della volontà del Padre, dell’opera redentrice del Figlio e dell’azione santificatrice dello Spirito. È, per usare un’espressione di Hegel una fenomenologia del Padre, che, mediante il Figlio, culmina in una fenomenologia dello Spirito.

Attualmente, fino alla fine del mondo, viviamo nell’era dello Spirito Santo, inaugurata il giorno di Pentecoste. Non c’è da aspettarsi, come credono i millenaristi, un’altra era dello Spirito in forza di una venuta di Cristo precedente all’ultima della fine del mondo.

Così lo Spirito Paraclito, invocato con insistenza e fiducia, Consolatore nell’afflizione, Avvocato contro l’Accusatore, giunge a noi con i suoi doni ed abitando nei nostri cuori, con l’intercessione della Madonna, dei santi e degli angeli, ci aiuta a discernere il da farsi, a conciliare lo spirito con la carne, a vincere le tentazioni diaboliche, a superare le prove, a sopportare in Cristo le sofferenze e sventando le insidie che ci vengono dai demòni, saliamo nella Chiesa in Cristo e con Cristo verso il Padre, purificandoci dai peccati e nell’esercizio delle buone opere, pregustando sin da adesso in rari momenti di grazia, nella mediazione della fede viva,  in mezzo alle croci, quella che sarà la vittoria finale e la condizione di beati risorti.

La vita secondo lo Spirito è la vita dell’era dello Spirito, la vita nella quale, facendoci guidare dallo Spirito, camminiamo secondo lo Spirito, vincendo i desideri della carne, e siamo capaci di adempiere in pienezza la legge divina che si assomma nel precetto della carità (Gal 5, 13-16). La nuova legge evangelica, spiega appunto San Tommaso, è la stessa grazia dello Spirito Santo[3].

Lo Spirito di Dio suscita, agisce e muove tutti gli spiriti e tutto l’universo, il corso della vita e della storia; ma Egli in se stesso è sempre identico a se stesso, non muta, non si muove, non passa, non si trasforma, non aumenta o decresce, non diviene nel tempo, perché non è materiale; è, ma è immutabile, è costante, fisso, stabile, fedele, solido e saldo, ma non rigido, statico o inerte, perché non è materiale.

La Scrittura paragona lo Spirito Santo al fuoco mobilissimo con la sua fiamma, che divampa, arde, illumina, scalda e distrugge, non però nel senso che muti natura, ma nel senso che la sua natura sta proprio in questa mobilità, che pertanto non vuol dire mutevolezza, perché il fuoco è sempre il fuoco, ma nel senso che agisce con questa mobilità, per cui la sua essenza resta sempre identica a se stessa e il suo modo di agire è ben determinato e regolato dalla sua essenza; ma nel contempo il modo concreto di questo agire e la sua applicazione al mondo varia continuamente nello spazio e nel tempo.

Nella storia del cristianesimo, soprattutto protestante, più volte si sono dati casi di profeti, filosofi e teologi, i quali, prendendo spunto da San Paolo, si sono considerati «uomini spirituali» (I Cor 2, 15), «viventi secondo lo Spirito» (Rm 8,5), interpreti dello Spirito, «un solo spirito con Dio» (I Cor 6,17). E riprendendo il pensiero paolino, si sono considerati «uomini spirituali che giudicano ogni cosa, senza poter essere giudicati da nessuno» (I Cor 2, 15). Ma occorre vedere caso per caso, perché occorre distinguere i veri dai falsi profeti, i visionari dai veggenti, i maestri dagli impostori, dagli alluci illuminati e dagli illusi.

 San Paolo ci ricorda con chiarezza il nostro dovere di combattere contro questo avversario nostro e della Chiesa[4], esercitandoci nello scovare le sue insidie, resistendo alle sue seduzioni, coraggiosi davanti alle sue minacce, fermi e decisi nell’allontanarlo da noi.

 

Bisogna fare attenzione a come la Scrittura presenta e narra l’attività e gli interventi o provvedimenti di Dio nella nostra storia e nelle vicende umane. La Scrittura presenta Dio come un Signore o Sovrano di questo mondo o che abita in un mondo celeste, che comunque agisce nel tempo e nello spazio, in modo discontinuo o puntuale, con atti soggetti ad un’evoluzione o a un progresso o a mutamenti o innovazioni.

Ora bisogna tener presente che questi modi di agire denotano di per sé un agente umano, per quanto mosso da intenti nobili e spirituali, esattamente a come ci comportiamo noi, persone composte di anima e corpo. Ma Dio non è una persona corporea; Dio è sì personale, ma puro spirito senza corpo. Per questo, se la Scrittura si esprime in quel modo antropomorfico, quelle espressioni non vanno prese alla lettera, ma interpretate in senso analogico.

Qui infatti la Bibbia con un linguaggio narrativo adatto ai semplici, vuol farci comprendere che l’agire e la provvidenza divini, essendo espressione di un soggetto che è purissimo spirito, puro Atto di essere sussistente, senza alcuna potenzialità o materia, quindi senz’alcun moto o movimento o possibilità di mutare, passare o divenire nel tempo e nello spazio, ma assolutamente al di sopra e indipendente dal tempo e dallo spazio, del tutto estranei alla sua essenza puramente spirituale, questo Dio è tale per cui il suo essere coincide col suo agire, per cui, se la Bibbia narra di una molteplicità d atti divini nella storia, se si può parlare di tre età della presenza di Dio nella storia, questa molteplicità non riguarda assolutamente l’agire divino in se stesso, ma il nostro molteplice rapportarci con lui nella storia, in quanto noi ci rapportiamo a Lui. nel senso che questa molteplicità, questo succedersi di fatti ed eventi non è altro che il molteplice effetto del suo agire, che in sé è uno solo, identico col suo unico Essere eterno.

Se noi nel concepire l’agire divino non astraiamo da considerazioni di carattere storico o spaziotemporale, noi non solo non ci facciamo un’idea dell’agire divino, ma non giungiamo neppure al concetto dello spirito, ossia di un Dio personale, «una singularis substantia spiritualis», come dice il Concilio Vaticano I. concepiamo Dio alla maniera di un Dio pagano, Giove, Mercurio o Apollo. Concepiamo Dio sul modello di Babbo Natale. Ce la raffiguriamo come l’austero e robusto Vecchione dell’affresco michelangiolesco della Cappella Sistina.

L’atto dello spirito, anche quello creato non ha nessun svolgimento temporale, ma è puramente istantaneo. In questo senso è immutabile. Certamente la vita spirituale dice attività, ma attività immutabile, il che non deve far pensare alla rigidità del cadavere o alla staticità del sasso, a parte il fatto che la fisica quantistica ci dice che a livello di elettroni tutto è movimento. L’atto dello spirito, nella sua semplicità e istantaneità, è infinitamente più potente della più potente delle azioni fisiche, perché questa spazia pur sempre nel finito, mentre al’atto dello spirito attinge all’Assoluto. L’azione fisica arriva sulla Luna e su Marte; l’atto dello spirito arriva a Dio e alla santità,

Per questo la polemica di un Bruno Forte o di un Walter Kasper contro l’astrattezza della concezione scolastica e tomista del mistero trinitario è del tutto fuori luogo. È chiaro che Dio è una singularis substantia spiritualis, è un’essenza individuale, è un ente singolo e personale, e non è un’essenza universale astratta dall’individuo. E tuttavia, per pensare e concepire il mistero trinitario, rivelatoci con parole umane da Nostro Signore, non possiamo rinunciare all’operazione astrattiva dell’intelletto ed all’uso di concetti metafisici, perché altrimenti non ci eleveremmo ad una vera conoscenza teologica, ma resteremmo sul piano dell’immaginazione, della favola o del mito.

D’altra parte che cosa intendono Kasper e Forte col concetto di «storia»? Di per sé la storia non è altro che la realtà umana collettiva effettivamente esistente ed agente nel tempo e nello spazio di qusto mondo. Come fa Forte a parlare di «Trinità come storia»? La Trinità non appartiene al mondo della storia, anche se essa è presente a tutta la storia, ma appartiene all’eterno e all’immutabile. Altrimenti c’è da domandarsi seriamente che concetto di Dio si è fatto Forte. Kasper è già più avveduto, ma anche lui se la prende un modo irragionevole contro l’astrattezza delle formule scolastiche, come se fosse un difetto, mentre è il segno del loro rigore epistemologico.

Dunque l’agire della Trinità nella storia è certamente un fatto storico e storicamente documentabile. È certamente nei suoi effetti storici oggetto di conoscenza storica. La Bibbia narra appunto questa storia. Non per nulla si parla di storia sacra. Ottima idea dunque, suggerita dalla Bibbia, è stata quella di Sant’Agostino di proporci una serie di considerazioni e riflessioni circa il manifestarsi graduale e diversificato dell’opera della Provvidenza e della stessa Trinità negli eventi del popolo d’Israele, dell’Impero romano e degli antichi popoli pagani.

Fine Terza Parte (3/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 13 giugno 2023


La nuova legge evangelica, spiega San Tommaso, è la stessa grazia dello Spirito Santo.

Lo Spirito di Dio suscita, agisce e muove tutti gli spiriti e tutto l’universo, il corso della vita e della storia; ma Egli in se stesso è sempre identico a se stesso

La Scrittura paragona lo Spirito Santo al fuoco mobilissimo con la sua fiamma, che divampa, arde, illumina, scalda e distrugge, non però nel senso che muti natura, ma nel senso che la sua natura sta proprio in questa mobilità, che pertanto non vuol dire mutevolezza, perché il fuoco è sempre il fuoco, ma nel senso che agisce con questa mobilità, per cui la sua essenza resta sempre identica a se stessa e il suo modo di agire è ben determinato e regolato dalla sua essenza; ma nel contempo il modo concreto di questo agire e la sua applicazione al mondo varia continuamente nello spazio e nel tempo.

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[1] Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Itala, Firenze 1988, vol. II, pp.268-270.

[2]  Nietzsche, Edizioni Adelphi, Milano 2013.

[3] Sum. Theol., I, q.106.

[4] Ef 6, 10-18. Vedi il mio libro La buona battaglia, Edizioni ESD, Bologna 1986,1999.

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