Il persuadere come atto essenziale dell’evangelizzazione


Il persuadere come atto essenziale dell’evangelizzazione

Ogni sabato Paolo discuteva nella sinagoga
                                                                                                              e cercava di persuadere Giudei e Greci
At 18,4

Dobbiamo persuadere gli uomini ad abbracciare la fede

Il persuadere, nel campo dell’evangelizzazione, è l’attività dialettica o dialogica o didattica (I Tm 3,16), detta «apologetica», con la quale il predicatore, che è «dottore» (At 13,1), perché si tratta dimostrare delle verità, mediante opportuni e ben studiati argomenti e l’esibizione di prove e garanzie di credibilità, induce un altro ad assentire, dopo matura riflessione e illuminato dalla grazia, alla verità del Vangelo.

Affine al persuadere, secondo la Scrittura, è il convincere, che però comporta una capacità più forte di far accogliere dall’altro le ragioni del credere e la verità evangelica. Se uno è convinto, è persuaso, ma non è detto che chi è persuaso sia convinto.

La persuasione non è ancora la convinzione, ma la prepara. Essa infatti è per lo più lo stato mentale dell’opinante. La convinzione, invece, è espressione della certezza, che può essere certezza razionale, effetto dell’evidenza o della dimostrazione o può arrivare alla certezza di fede[1]. Così la persuasione è per sua natura una adesione debole alla verità, mentre si parla di convinzioni forti, salde, irremovibili. Chi è persuaso non è del tutto convinto. Potrebbe fare marcia indietro. Eppure la persuasione è il primo passo verso la certezza di ragione e di fede.

Dalla ragione si sale alla fede. La fede, però, benché in sé stessa «non sia fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (I Cor1,5), senza essere un sapere razionale, è un «ossequio ragionevole (rationabile obsequium)» (Rm 12,1), ossia in armonia con la ragione. La fede non può essere preparata ed introdotta nella mente dell’uomo ragionevole da semplici opinioni o persuasioni. Si parte da queste; ma la fede dev’essere introdotta da argomenti razionali e storici certi. Occorre la convinzione.

S.Paolo, dal canto suo,  grande estimatore della ragione[2], era però ben consapevole della superbia, della doppiezza e della disonestà della ragione umana corrotta dal peccato originale e quindi del fatto che una cattiva filosofia, «con la sua sottile astuzia, tende a trarre nell’errore» (cf Ef 4,14), per cui, posto che noi possiamo giungere alla fede solo cominciando a ragionare bene, una ragione sofistica e disonesta, quella del «sottile ragionatore di questo mondo» (I Cor 1,20), quella che «inganna con argomenti seducenti» (cf  Col 2,4; Col 2,8), quella che sostituisce le favole (I Tm 1,4; 4,7; II Tm 4,4; II Pt 1,16)  alla sana dottrina e che trasforma la teologia in mitologia (cf II Tm 4,4), non conduce alla fede, ma blocca il cammino della ragione verso la fede o, se abbiamo già la fede, la fa perdere.

Quindi, quando Paolo parla della «stoltezza della predicazione» (I Cor 1,21), e quando dice «si faccia stolto per diventare sapiente» (I Cor 3,18), non intende evidentemente fare l’apologia della stoltezza, ma si tratta di semplici figure retoriche e di modi paradossali di esprimersi, che purtroppo Lutero ha preso alla lettera, fraintendendo completamente col suo irrazionalismo il discorso di Paolo, con il quale egli non si riferisce alla vera stoltezza, che è la «sapienza di questo mondo» (I Cor 1,20), agli occhi della quale evidentemente non può che apparire stoltezza la vera sapienza, che è la «sapienza della croce (Logos tu staurù)» (I Cor 1, 18), mentre si sa che il coltissimo rabbino Paolo nutriva per la sapienza umana e biblica in se stessa la massima stima (I Cor 1,24; 2, 8-9).

Dovere dell’evangelizzatore è il persuadere l’evangelizzando

Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile
per insegnare, convincere, correggere
                                                                                                                                                             II Tm 3 16

Da queste considerazioni vediamo la grave responsabilità dell’evangelizzatore, che deve persuadere in base alla vera sapienza razionale, in base alla vera filosofia e non in base ai vani, seducenti, ingannevoli ed astuti sofismi del mondo. Non dev’essere un imbonitore, ma uno che mostra e dimostra la verità. Non può certo illudersi o presumere di essere, come pretendeva Lutero, un puro annunciatore della Parola di Dio, una pura «manifestazione immediata dello Spirito» per ascoltatori già in ascolto dello Spirito, al di là di ogni premessa, precomprensione o mediazione umana, razionale o filosofica. È, questa, una cosa del tutto impossibile ed illusoria, un tentativo estremamente presuntuoso ed un atto ingannatore, destinato a generare le peggiori falsificazioni della Scrittura.

In realtà, è impossibile essere dei puri interpreti, annunciatori o predicatori mediatori del puro Vangelo o della pura Parola di Dio, come credeva Lutero, senza far uso di concetti extrabiblici tratti dalla ragione umana, disprezzata come cumulo caotico di vane e soggettive opinioni umane. Neppure Gesù Cristo, il Verbo divino, ha parlato all’uomo se non per la mediazione della sapienza umana di Israele. Che ci stanno a fare, infatti, i libri sapienziali dell’Antico Testamento?

Il risultato di fatto di tale metodo insensato non sarà altro, come è dimostrato in Lutero e nella storia tormentata del luteranesimo fino ai nostri giorni, che quello di una gran quantità di interpretazioni della Bibbia soggettive e contradditorie fra di loro, quella «varietà» confusionaria già a suo tempo fu segnalata con espressione eufemistica dal Bossuet.

In questo senso dobbiamo dire che l’opera evangelizzatrice «non si basa su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (I Cor 2,4), perché diversamente l’apostolo non potrebbe suscitare una fede divina e soprannaturale nella Parola di Dio, ma una fede semplicemente umana, certamente non salvifica.

Il predicatore del Vangelo deve sforzarsi di persuadere tutti ad accogliere il Vangelo e a credere nel Vangelo, pena la dannazione eterna (Mc 16,16). Egli può far questo o argomentando[3] o mediante la discussione[4] o la esibizione di prove o un appello alla conversione[5] o confutando gli avversari[6] o compiendo miracoli.

L’opera della persuasione, secondo la Scrittura, è necessaria all’evangelizzatore, perché è questa attività dialogica e didattica, paziente, metodica e perseverante, che, accompagnata e corroborata dalla testimonianza e dall’esempio, conduce l’evangelizzando alle soglie della fede. Dobbiamo cercare di persuadere gli altri, con mezzi onesti ed efficaci, della credibilità e della credendità del Vangelo e del dovere di credere al Vangelo, dando spazio in lui all’intervento della luce divina.

Persuadere circa la verità del Vangelo ed evangelizzare non coincidono esattamente. È possibile evangelizzare senza riuscire a persuadere. In tal caso lo scopo dell’evangelizzazione è fallito. L’evangelizzazione è compiuta, quando l’evangelizzando è stato evangelizzato, ossia è persuaso e certo della verità del Vangelo. Allora però vuol dire che all’opera del predicatore si è aggiunta quella dello Spirito Santo che ha dato il dono della fede.

Un compito essenziale dell’opera di persuasione del predicatore è far capire, con adeguate spiegazioni e ragionamenti, il senso di certi concetti biblici ostici o conturbanti, che possono essere fraintesi. Uno di questi, per esempio, è il concetto del castigo divino dei peccati.

Alcuni eretici, infatti, per deridere la nozione del castigo divino, se lo immaginano sul modello del ricordo d’infanzia della mamma arrabbiata che da bambino dava loro gli scapaccioni. Ci sono alcuni, anche teologi e vescovi, i quali, fermi a questa immagine puerile, e privi di qualunque preparazione metafisica, sono rimasti ad un’idea infantile del castigo, e magari, turbati nel subconscio dal ricordo traumatico di un padre troppo severo, appena sentono la parola «castigo», senza badare minimamente a ciò che la Bibbia intende con questa parola, sentono i brividi o scattano come colpiti da un fulmine, sono presi da  una reazione di rigetto puramente emotiva e si scagliano contro il poveretto,  «politicamente scorretto», citasse anche Isaia o Geremia o S.Tommaso o San Carlo Borromeo o Sant’Alfonso Maria  de’ Liguori o  Santa Caterina da Siena, il quale poveretto rompiscatole ha osato evocare, lugubre Cerbero, i fantasmi terrorizzanti o gli incubi notturni di un Dio spaventoso, crudele e pagano, sul tipo di Giove fulminante o del lupo mannaro, un dio morto e sepolto dalla modernità.

Gli evangelizzatori

  Annunzia la Parola, insisti in ogni occasione
  opportuna e non opportuna, ammonisci,
                                                                                rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina
                                                                                                                                                              II Tm 4,2

Il primo Annunciatore del Vangelo, Modello di tutti gli evangelizzatori, è stato, come sappiamo tutti, lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo. Troppo lungo sarebbe illustrare qui la sua divina opera di persuasione per condurre i discepoli e gli uomini a credere in Lui. Qui basti citare i passi del Vangelo che più esplicitamente narrano la sua attività di maestro[7], che evidentemente sottendono un atto essenziale dell’insegnare, che è il persuadere il discepolo. Ci fermeremo invece sulla opera umana, apostolica ed ecclesiale di persuasione come introduttiva all’acquisto ed alla motivazione della fede.

L’evangelizzatore ufficiale, incaricato da Cristo, e Successore degli Apostoli, è notoriamente il Vescovo. Tuttavia, nel contempo, ogni fedele, uomo o donna, è chiamato ad annunciare il Vangelo sotto la guida del Vescovo. La pre-evangelizzazione e l’attività apologetica, con l’opera di persuasione ed educazione alla fede ad esse corrispondente, sono affidati innanzitutto ai laici e in particolare ai missionari e ai catechisti.

Compito evangelizzatore del Vescovo è quello dell’annuncio ed esposizione ufficiali della verità del Vangelo, nonché la cura, la vigilanza e sorveglianza sul buon andamento dell’evangelizzazione. Sono altresì l’insegnamento (At 4,42; Rm 6,17;12,7; I Tm 4,16; II Tm 2, 2.24; 3,10; Tt 1,9), il commento e la spiegazione della Parola di Dio, la promozione dello studio della Parola di Dio, l’organizzazione delle missioni, la collaborazione ecumenica nel campo dell’evangelizzazione, la difesa dei fedeli dall’invasione o penetrazione di forme pericolose di propaganda religiosa, l’approvazione delle iniziative religiose e laicali di evangelizzazione, il discernimento riguardante le rivelazioni private, nonché la correzione delle forme sbagliate di evangelizzazione. Così Paolo riassume il compito evangelizzatore dl Vescovo: «Il vescovo dev’essere attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono» (Tt 1,9).

San Paolo ricorda poi l’ufficio dei «maestri» (I Cor 12,28; Ef 4,11). Chi possono essere? Probabilmente certi fedeli più istruiti, che insegnavano ad altri fedeli, i quali desideravano o dovevano acquistare un grado maggiore di conoscenza delle Scritture, in vista di essere ordinati diaconi o presbiteri. Diremmo oggi: i teologi. Così si aprivano le prime scuole di teologia, che nel Medioevo avrebbero prodotto la rigogliosa teologia scolastica, grazie alla quale si addottorò il dottor Martin Lutero.

Questo titolo di maestro, tuttavia, a tutta prima può meravigliare, se ricordiamo che Cristo ci ordina: «Non fatevi chiamare ‘maestri’» (Mt 23,10). Ma qui Gesù non intende escludere il magistero come servizio alla comunità, ma l’ambizione di voler emergere sugli altri per attirare discepoli, seguendo non i maestri migliori, ma i più celebrati, apparire originali e farsi un nome. In tal senso San Giacomo sconsiglia: «Non vi fate maestri in molti» (3,1). Gesù, pur essendo il divino Maestro[8], si fa modello di umiltà (Gv 13,13).  Sono tali falsi maestri, quelli che producono quel dannoso «proselitismo», che è giustamente condannato dal Papa.

I danni del proselitismo

Noi non predichiamo noi stessi,
ma Gesù Cristo Nostro Signore
II Cor 4,5

Occorre osservare, tuttavia, che il termine proselitismo è una di quelle parole, che, nell’uso linguistico, non hanno necessariamente ed universalmente un senso negativo, ma il senso che assumono è deciso da chi le usa. «Proselitismo», secondo i vocabolari italiani, significa semplicemente «attirare o procurarsi discepoli o seguaci». Il che, di per sé, non comporta nulla di spregiativo o biasimevole. Tutto sta a vedere con quali mezzi o metodi e per qual fine si fanno proseliti.

Nel Nuovo Testamento i proseliti (proselytos) sono i non Ebrei che si sono convertiti all’Ebraismo (At 2,11; 6,5; 13, 43). Interessanti invece sono le parole di Cristo, che condannano il modo degli scribi e farisei di far proseliti: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per far un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della geenna il doppio di voi!» (Mt 23,15). Può avere qui il fondamento evangelico dell’uso spregiativo che il Papa fa del termine.

Chiediamoci allora chi è il proselitista. Egli è indubbiamente un falso evangelizzatore, smanioso di successo, il quale si studia, con astuti artifici e persuasioni ingannevoli, magari in vista di guadagni illeciti, solleticando la superbia e ogni vizio, di attirare seguaci non al Vangelo, ma alle proprie idee o alla propria setta, e non alla Chiesa, prospettando illusorie mete di scienza, successo, potere, benessere, libertà e felicità, dando ad intendere al povero ingenuo malcapitato o forse furbo, che non vuol rinunciare al peccato, non sa vincere le passioni e aspira a una morale comoda, senza opere, senza leggi, senza meriti e senza sacrifici, che Dio misericordioso è sempre in lui e con lui, «copre, senza toglierli, tutti i peccati», non punisce nessuno, ma salva tutti.

Il proselitista è un settario, cioè non ha la percezione dei valori universali, non solo sul piano della fede cattolica, ma neppure sul piano della natura umana e della legge naturale. Egli concepisce il Vangelo e la Chiesa non nella loro universalità, sotto la guida del Papa, principio, custode e promotore dell’unità e dell’universalità dell’attività evangelizzatrice, ma li decurta e li restringe al suo modo parziale e quindi errato di concepirli.

Riduce il tutto alla parte e prende la parte come se fosse il tutto. Ciò porta ovviamente la conseguenza di dividere la Chiesa e moltiplicare le fazioni partiti, mettendo gli uni contro gli altri. Ciò non ha nulla a che vedere col pluralismo, perché questo è una varietà all’interno dell’universalità e dell’unità della fede, mentre il settarismo è il dividere ciò che deve essere unito, il togliere ciò che deve essere aggiunto, l’isolare dal tutto ciò che deve stare col tutto, l’erigere a tutto ciò che è solo una parte.

Il proselitista non concepisce la predicazione della fede come la comunicazione verbale all’evangelizzando di contenuti dottrinali oggettivi ed immutabili di ragione e di fede, custoditi dal Magistero della Chiesa, tali da poter essere trasmessi o comunicati verbalmente dalla ragione dell’apostolo a quella dell’evangelizzando, sì che questi venga ad apprendere nuovi concetti - le verità di fede - in precedenza sconosciuti.

Il proselitista si ritiene un puro strumento dello Spirito Santo, per cui esige obbedienza assoluta e ascolto incondizionato, come se parlasse lo Spirito Santo in persona. E proprio tale suo comportamento lo presenta come segno di umiltà, per il fatto che egli, assicurando gli ascoltatori di non metter nulla di suo in quel che dice, ma di riferire soltanto la voce dello Spirito, egli dichiara di essersi annullato davanti allo Spirito, il che dovrebbe essere il segno della massima umiltà e docilità alla missione che lo Spirito gli ha affidato.

Certamente lo Spirito Santo è lo Spirito della verità, della comunione, dell’universalità e dell’unità, ma chi pretende di appellarsi direttamente allo Spirito Santo per scavalcare, denigrare, contraddire o disobbedire all’autorità della Chiesa, ossia a coloro che lo stesso Spirito ha costituito apostoli, capi e maestri, a cominciare dal Sommo Pontefice, non hanno alcun diritto di appellarsi allo Spirito Santo, perdono ogni credibilità se non per i gonzi, dimostrano di essere un realtà ingannati dal demonio.

Ha invece diritto di appellarsi allo Spirito e di confidare nello Spirito colui che, accolto il Vangelo nell’interpretazione della Chiesa e in obbedienza alla Chiesa, lo trasmette lasciandosi ispirare e guidare dallo Spirito. Allora sarà lo stesso Spirito a convertire i cuori e ad allargare i confini della Chiesa sulla terra, con la benedizione e l’intercessione di quella del cielo. 

 Avviene invece che chi obbietta al proselitista che quello che dice non è conforme alla Bibbia o al Magistero della Chiesa, egli risponderà che occorre obbedire a Dio prima che agli uomini, come se la Chiesa non avesse avuto da Cristo appunto il compito di comunicarci infallibilmente e di interpretare meglio di noi la Parola di Dio.

 Il predicatore, dunque, secondo il proselitista, trasmette all’evangelizzando la stessa esperienza ineffabile dello Spirito, che l’altro già ineffabilmente possiede e della quale sente il bisogno, grazie all’ispirazione diretta dello stesso Spirito. Ma come la trasmette? Con la parola? Col ragionamento? Per nulla, ma per mezzo di una sintonia o affinità psicoemotiva atematica e non-concettuale, detta oggi da alcuni «empatia».

L’evangelizzatore, quindi, per il proselitista, non è propriamente un predicatore, perché questi usa il linguaggio verbale ragionato e persuasore, ma è un suscitatore elettrizzante di esperienza di fede atematica, mediante la gestualità corporea, la rappresentazione scenica e la parola non espressiva di concetti, ma di emozioni empatiche.

Ma come fanno i due a sapere o verificare di aver avuto la stessa ineffabile esperienza? Infatti, per il proselitista, la comunicazione verbale non serve a far conoscere e a comunicare l’esperienza dello Spirito, ma risponde soltanto al bisogno umano di esprimersi in parole. Ma la parola umana, lungi dal far capire che cosa il credente ha sperimentato, per il proselitista è solo il segno esterno che il credente ha avuto l’esperienza dello Spirito. L’evangelizzato, che ha ricevuto l’esperienza dello Spirito, se ne accorge da solo, in forza dell’empatia, indipendentemente dalle parole con le quali l’evangelizzatore l’ha espressa, parole che non esprimono concetti, ma l’emozione affettiva di fede atematica.

È questa la cosiddetta «apologetica dell’immanenza» di Maurice Blondel, già condannata dalla Pascendi di S.Pio X (n.74) ed oggi rinverdita da Rahner e dai Neocatecumenali[9]. Immanenza vuol dire che l’opera evangelizzatrice ed apologetica è concepita – e questa è la teoria di Rahner - come se il predicatore non avesse nulla da annunciare all’evangelizzando, su cui non sia già stato illuminato atematicamente ed interiormente dallo Spirito, senza che egli ne abbia coscienza e quindi come se tutto il compito del predicatore si esaurisse nell’andare incontro ad esigenze dell’evangelizzando, che sorgono dal suo intimo, ossia a lui «immanenti», e dovesse semplicemente aiutare l’evangelizzando a prender coscienza dello Spirito che è già presente in lui, per cui egli ha già la fede e la grazia, solo che la fede ha bisogno di essere espressa nella parola.

In questa concezione della trasmissione e fondazione della fede, il contenuto dottrinale fornito dal Magistero della Chiesa, e accolto dal predicatore non aggiungerebbe nulla che l’ascoltatore, illuminato dallo Spirito, non sappia già atematicamente, per cui la professione orale di fede dell’evangelizzato non farebbe che dare labile e mutevole espressione verbale e concettuale alla sua personale ineffabile esperienza dello Spirito, già presente in modo inconscio nell’ascoltatore.

Ora, bisogna dire che è vero che la diffusione della fede avviene principalmente per opera dello Spirito Santo, presente nel predicatore e nell’ascoltatore. Ma lo Spirito si serve dell’opera del predicatore per dare all’atto di fede il suo aspetto umano concettuale. Occorre pertanto tener presente che, affinché questa azione dello Spirito sia umanamente certa, riconoscibile e verificabile ed offra garanzie di autenticità, e non rischi di essere un’illusione del sentimento soggettivo o dell’emozione estetica o un inganno del demonio, deve potersi manifestare nell’aspetto umano della trasmissione della fede, ossia nell’opera apologetica di persuasione e dimostrazione compiuta dal predicatore e nell’atto dell’accoglienza concettuale e verbale della Parola da Dio da parte dell’ascoltatore.

L’opera umana della trasmissione della fede non ha la sua parte principale nell’azione pratica, nell’incontro affettivo, nell’evento, nel gesto e nell’esempio, dando alla parola la semplice funzione successiva di spiegare il senso, il perchè e lo scopo dell’accaduto. È vero che Luca negli Atti degli Apostoli asserisce di aver trattato di quello che Gesù «fece e insegnò» (At 1,1). Ma si deve intendere che comunque un’azione o un gesto o sono intellegibili in sé stessi o richiedono una spiegazione immediata o simultanea o concomitante, perché non è il gesto che spiega la parola, ma è la parola che spiega il gesto.

E anche i gesti simbolici dei profeti sarebbero stati inintellegibili, se i profeti non li avessero spiegati, come per esempio il gesto di Ezechiele (Ez 37, 18-23). Viceversa, la parola può benissimo significare da sola, senza che occorra un gesto che la accompagni. Diverso è il caso del miracolo o l’opera buona fatti per render credibile il messaggio dell’apostolo. Qui si suppone l’intellegibilità del messaggio. Occorre solo dare una prova o garanzia della sua credibilità.

Quanto al dono della profezia, esso non è interessato all’evangelizzazione, perché non è un carisma dottrinale e quindi di persuasione, ma è un carisma di avvertimento, di esortazione e di orientamento pratico o morale. Il profeta, eventualmente come veggente in apparizioni mariane e a nome della Madonna, interpreta la volontà di Dio negli eventi e manifesta ciò che Dio ha compiuto, sta facendo o vuole che si faccia concretamente e adesso.

Il percorso formativo operato dall’evangelizzatore

L’uso della ragione precede la fede
e conduce l’uomo ad essa
per opera della Rivelazione e della grazia

Decreto della Sacra Congregazione dell’Indice
                                                                                                                       del 18 giugno 1855 (Denz. 2813)

L’evangelizzatore, dal canto suo, è invece un insegnante o istruttore, che può e deve eventualmente far precedere all’opera propriamente evangelizzatrice una pre-evangelizzazione o promozione umana, ma è anche un fratello, un padre e un pastore,  che, per rendersi credibile, si prende cura, per quanto può, anche dei bisogni umani e materiali dell’evangelizzando e gli fornisce altresì una formazione morale, civile, professionale e religiosa, stimolando congiuntamente in lui la ricerca di Dio, col dimostrarne l’esistenza e i suoi attributi e confutare indifferentismo, agnosticismo, ateismo, panteismo, politeismo, errori, idolatrie, e superstizioni.

L’evangelizzatore compie poi il passo successivo della sua opera col persuadere con le parole, gli esempi storici e di attualità, e la sua stessa testimonianza di onestà e di carità, l’evangelizzando della necessità, della attendibilità e credibilità del Vangelo e della Chiesa per la salvezza e per un umanesimo plenario, per soddisfare i bisogni più profondi e le aspirazioni più alte dell’uomo, per l’instaurazione di tutte le virtù e l’estirpazione di tutti i vizi. È questo il compito dell’apologetica.

L’opera di persuasione dell’evangelizzatore inizia sul piano della ragione con argomenti di ragione e una volta che l’evangelizzando ha raggiunto la fede, prosegue sul piano della fede con argomenti di fede, in modo tale che, se il discepolo mostra di avere le attitudini intellettuali, può essere iniziato, al di là della formazione catechetica, alla teologia ed alla mistagogia, ossia alla vita mistica.

È Dio Che, con la sua grazia, fa compiere a l’evangelizzato il salto dal piano della sua ragione a quello della fede, ossia dall’accettazione degli argomenti apologetici del predicatore all’atto del credere alla Parola di Dio. Se poi Dio apre il cuore dell’ascoltatore alla fede, l’opera dell’evangelizzatore deve proseguire ad un livello superiore, persuadendolo circa la credibilità dei misteri della fede, che deve aver cura di insegnare, illustrare e spiegare con ordine in modo sistematico. È questa l’opera della catechesi, in preparazione alla recezione dei sacramenti e all’ingresso nella Chiesa, con il che ha terminato l’opera evangelizzatrice con la formazione del cristiano adulto e maturo, disponibile per i vari incarichi, che gli verranno affidati nella società e nella Chiesa.

 Mettendoci dalla parte dell’evangelizzando, si deve dire che è sempre la sua ragione che, messasi all’inizio in ascolto del predicatore, ragionando correttamente ed onestamente e lasciandosi persuadere dalle argomentazioni del predicatore, successivamente, quando giungeranno i tempi di Dio, illuminata dalla luce della fede, giunge a credere le verità evangeliche.

Ma l’evangelizzando deve cominciare con questo ragionare corretto ed onesto, perché solo a questa condizione può cogliere la verità superiore della fede. Il predicatore, dal canto suo, dev’essere persuasivo sul piano naturale razionale, per poterlo essere su quello soprannaturale, perchè la verità viene solo dalla verità e, come dice Cristo, «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18, 37). La Scrittura a più riprese ricorda l’importanza del ben ragionare[10] e del saper persuadere[11], per giungere e far giungere alla fede.

La nostra opera di persuasione si pone come fine la conversione del mondo al Vangelo. Tuttavia, non possiamo pretendere che gli altri raggiungano la fede in forza della sola nostra opera di persuasione o perché convinti dai nostri argomenti o ragionamenti. L’atto di fede non può esser richiesto come razionalmente obbligatorio, alla stessa stregua di come esigiamo da lui che aderisca alla conclusione di una dimostrazione razionale che gli abbiamo proposto. Possiamo mostrargli la razionalità dei motivi per credere, ma non possiamo dimostrargli la razionalità dell’oggetto di fede ovvero della verità divina rivelata nel Vangelo, perché essa è nota solo a Dio.

Le ragioni del credere conducono alla conversione

   Pronti sempre a rispondere a chiunque
                                                                                                 vi chieda ragione della speranza che è in voi
I Pt 3,15

Ma il motivo o perchè formale e decisivo dell’atto di fede, che è atto soprannaturale, non è la persuasività degli argomenti dell’evangelizzatore, per quanto necessari, ma non può che essere un motivo soprannaturale, e cioè è l’autorità di Dio che Si rivela nel Vangelo. L’atto di fede è un atto della ragione, ma illuminata da una luce superiore, che viene da Dio stesso, ed è la Parola del Vangelo. L’atto di fede, dunque, è sì atto libero della ragione, non però obbligato dalla ragione, non è la conclusione di un ragionamento, ma è atto scelto dalla volontà e dono della grazia.  

Il credere è un prender per vera la divina verità che il Vangelo ci insegna, ed accettarla volontariamente e ragionevolmente non per l’intrinseca comprensibilità o dimostrabilità o persuasività razionale di ciò che ci dice, ma perché è Parola di Dio. La persuasione di chi giunge alla fede viene dalla grazia, non dal predicatore.

La visione della verità di fede illumina l’uomo sulla bellezza sublime dell’ideale cristiano, sulla sua condizione miserevole di peccatore e sui mezzi della natura e della grazia, che Cristo e la Chiesa gli mettono a sua disposizione per poter agire efficacemente al fine di conseguire la salvezza, per cui la volontà è stimolata a convertirsi a Dio, sorretta dalla grazia e guidata dalla Chiesa.

Una volta che l’apostolo, sostenuto dalla grazia, ha persuaso il peccatore pentito ad accostarsi alla fede, la medesima grazia gli dà il coraggio e la confidenza di proporgli di convertirsi (Mt 3,2; 4,17; Mc 1,15; 6,12; Lc 5,32; 13,3; 24,47; At 4, 15; 20,21; Tb 13,8; Ez 18,30; 33,11).

La conversione è un mutamento dell’orientamento di fondo della propria vita, una correzione profonda delle proprie idee, rese conformi al Vangelo (metànoia), perchè illuminati dalla grazia e persuasi dalle parole, dai segni, dai gesti e dagli esempi dell’apostolo, un mutamento profondo della volontà, a seguito di una decisione ponderata, seria e irrevocabile di una volontà potentemente attratta dalla grazia, che sollecita il soggetto ad abbandonare l’eresia o l’empietà o l’incredulità o il vizio, per abbracciare la fede cattolica, assumere i suoi princìpi etici ed  entrare nella Chiesa.

La conversione è opera divina della grazia, come la giustificazione. È Dio che converte, ma servendosi dell’uomo. Dio agisce nell’intimo della coscienza del convertendo, suscitando in lui il bisogno di Dio. Quella visione di Dio, che l’anima poteva ipotizzare come meta possibile ma irraggiungibile con le sue sole forze, diventa adesso una vera esigenza dello spirito e il premio celeste promesso a Dio a coloro che Lo amano.

Certamente la conversione ha in Dio la sua causa prima, la quale agisce in due direzioni: sul colui che converte e sul convertendo. Dio agisce sul primo, il quale a sua volta agisce sul convertendo proponendogli di convertirsi. Quest’ultimo, invogliato ed attratto dalla prospettiva della conversione, liberamente obbedisce all’invito del convertitore convertendosi.

Si può quindi dire, come del resto ci racconta la storia dei Santi, che è possibile, con l’assistenza dello Spirito Santo e un’adeguata apologetica pastorale missionaria, operare conversioni. Io anzi aggiungerei che è un dovere. Il cristianesimo si è sempre espanso in questo modo.

Se oggi siamo in ritirata, è perchè non ci prepariamo più con un’adeguata apologetica o introduzione alla fede, non siamo più maestri nell’arte nobilissima del saper persuadere e convincere della verità con lealtà e senza raggiri, non sappiamo più conquistare le anime a Cristo, non siamo più pescatori di uomini per Cristo, ma delle nostre idee e nostri interessi siamo abilissimi avvocati ed apologeti, e per questo abbiamo perso la saggezza e il coraggio di saper convertire la gente. Abbiamo perso la forza espansiva del passato. Bisogna recuperarla.

P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 28 aprile 2020



[1] Rm 4,21; 14,4; II Cor 5,11; I Ts 1,5; II Tm 3,14; Gd 15.
[2] Basti citare il famosissimo passo di Rm 1,20, dove l’Apostolo, applicando il principio metafisico di causalità, ricorda che gli attributi invisibili di Dio si colgono con l’intelletto partendo dalle cose fatte.
[3] Sir 17,5; At 17,3; 18,28; Rm 2,15; 3,8; I Cor 13,11; Lc 11,53.
[4] At 9,40;17,18; 18,4; 19,9.
[5] Mt 3,2; 4,17; 11,10; Mc 6,12; Lc 13,3; Tb 13,8; Ez 14,6; 18,30.32; Gn 3,8; At 14,15; Lc 5,32
[6] Tt 1,9; II Tm 4,2.4.
[7] Mt 4,23; 7,29; 11,1;, 21,23;, 26,55; Mc 1,21; 4,2; 6,2.34; 8,31; 11,17; 12,35; Lc 5,17; 6,6;; 11,1; 13,10; 13,22; 13,26; 19,47; 23,5; Gv 6,59; 7,14; At 1,1.
[8] Troppo lungo sarebbe citare qui tutti i passi nei quali Gesù è presentato col titolo di «maestro» (rabbi).
[9] Il Movimento dei Neocatecumenali, fondato dal famoso Kiko Argüello, ricevette un’approvazione da S.Giovanni Paolo II, approvazione che però, non va intesa come decreto di lode, ma piuttosto come regolamentazione cautelativa finalizzata all’utilizzazione del buono e difesa o messa in guardia contro il cattivo. Infatti questo Movimento, ormai diffuso in tutto il mondo, ha indubbiamente i suoi meriti per il suo entusiasmo, le sue opere di carità e il suo slancio missionario, ma ha basato la sua spiritualità sulla convinzione di essere sempre ispirato dallo Spirito Santo, sicché non sente il bisogno di un rapporto permanente col Magistero della Chiesa, ma solo saltuario, quando, cioè, ritiene che quel rapporto sia autorizzato dallo Spirito Santo. È ovvio allora che gli atti del Movimento sono approvati dalla Chiesa soltanto quando sono in linea col Magistero della Chiesa. Su questo tema, cf Enrico Zoffoli, Eresie del Movimento Neocatecumenale, Edizioni Segno, Udine 1991; Ariel Levi di Gualdo, La setta neocatecumenale. L’eresia si fece Kiko e venne ad abitare fra noi, Edizioni Isola di Patmos, Roma 2019.
[10] I Cor 1,20; Sir 17,5; At 19,38; I Cor 15,32; Qo 7,27; Sap 12,24.
[11] Lc 16,31; At 18,4; 19,8; Rm 8,38; Fil 1,6.

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