Le radici panteistiche del buonismo

 Le radici panteistiche del buonismo[1]

I presupposti del buonismo

È molto diffusa oggi una certa concezione e pratica della misericordia e della carità, collegata con una certa concezione di Dio e della morale per la quale tutti sono buoni. Dio è buono, gli uomini sono buoni, io sono buono, la natura è buona.  Il diavolo non esiste. L’inferno è vuoto.

È ciò che si è convenuti di chiamare «buonismo». Esso è stato chiamato anche «misericordismo»[2], perché il buonismo vede la bontà solo nella misericordia, trascurando che vi sono anche ben altre forme di bontà, come la benevolenza, l’amore coniugale e familiare, la magnanimità, la generosità, la glorificazione, la giustizia, l’amicizia, la correzione, l’educazione. 

Tuttavia, davanti a queste idee molte persone buone ed oneste avvertono un certo disagio; da una parte provano una certa attrattiva, ma sentono anche che c’è qualcosa che non va. Avvertono un’eccessiva enfasi sulla misericordia e una negligenza nel soddisfare alle esigenze e ai doveri della giustizia. Notano che sono i disonesti a trovarsi a proprio agio in questo clima di buonismo facendo peraltro la figura dei «misericordiosi». Infatti, la cosa che balza agli occhi, se non vogliamo essere ciechi e cercare vane scuse, è l’esistenza del male, del peccato e della sofferenza.

Se Dio è misericordioso, come mai permette il male? Se tutti siamo buoni, da dove vengono i conflitti? Esiste la malvagità umana, io mi riconosco peccatore, Dio permette la sofferenza e il peccato, la natura ci è ostile. Sì, certo, c’è molto bene in giro. Ma non sono fatti anche l’esistenza del male in molte forme? Vi può essere allora un rimedio o è bontà anche questa? O non sappiamo più distinguere il bene dal male? Tutto è bene? Sì, è vero, queste sono domande o ipotesi radicali, che non tutti di fatto pongono. Non è difficile tuttavia notare un certo buonismo sociologico, più facile da criticare. Partiamo da questo e per coloro che vogliono andare al fondo delle cose, vediamo poi di chiarire le cause profonde del buonismo e il modo di poterle togliere.

Cominciamo allora col dire che il buonismo è, secondo la nostra immediata esperienza sociale, un comportamento pastorale, morale o politico del politically correct, viscido e untuoso, doppio e astuto, ipocrita e perfido, apparentemente dolce e generoso ma intimamente egoista e crudele, per il quale, al fine di restare a galla e cavarsela in tutte le situazioni, sul modello di un Taillerand o di un Machiavelli, si finge di ritenere che tutti sono buoni e si vogliono bene e che tutti siano scusabili, qualunque cosa facciano, si affetta di sostenere un dialogo universale e il totale rifiuto dell’uso della forza, si mira al successo a qualunque prezzo, si evita di opporsi a chiunque, perché tutti hanno ragione, e soprattutto si evita, grazie a un formidabile camaleontismo, per quanto è possibile, di tirarsi addosso opposizioni o rimproveri da chiunque, onesto o disonesto, cattolico od eretico, santo o peccatore, senza mai scontrarsi con chi è al potere o con la cultura dominante, non importa se diffondono il bene o il male, se sono impostori o veritieri, liberali o illiberali, oscurantisti o illuminanti, dittatori o democratici.

Ma il buonismo ha un orientamento ben più profondo di questa visione paciona ed opportunista della condotta umana. Esso ha radici metafisiche e teologiche ed una tradizione antichissima, perché sempre esso ha affascinato persone finte, narcisistiche, ambiziose ed assetate di autoaffermazione, di successo e di potere in tutti campi dalla politica alla cultura, alla filosofia, alla teologia ed alla religione.

Il buonismo suppone un concetto della bontà umana fondato su di un concetto della bontà divina, che non corrisponde a verità. Esso suppone una visione metafisica e per conseguenza teologica, nella quale abbiamo una concezione errata sia del bene che del male e per conseguenza del rapporto di Dio col male. Il bene non vince il male e il male è necessario al bene.

E questo perchè? Perché all’origine dell’esistenza e quindi dei valori morali, l’io non pone Dio o finge di porre Dio, ma in realtà pone sé stesso. Questo risulta chiaramente, per esempio, dalla filosofia di Fichte o di Nietzsche o di Husserl o di Heidegger, che portano alle estreme conseguenze il cogito cartesiano.

Dio è certamente concepito dal buonista come buono. Ma non riesce a concepire come la sofferenza possa essere buona ed utilizzata da Dio per un bene maggiore. Essa è vista sempre e solo come male. E per converso il peccato non è visto come volere il male, ma solo come patire un male, come sofferenza. Il buonista ammette che gli uomini facciano il male, ma solo come involontario. Tutti vogliono il bene e non vogliono il male, a cominciare da Dio. Non vogliono né il male di colpa, né il male di pena. Se c’è un peccato, se c’è una colpa, questa è il volere o amare la sofferenza. Ma un vero male di colpa non esiste.

Inoltre il buonista considera il male come assolutamente inspiegabile. Esso esiste, anche il male di pena, ma esiste indipendentemente da Dio. Dio non lo vuole perché è buono. Ma neppure Dio lo può togliere perché non ne ha la padronanza. Neppure la sofferenza dipende da Lui. La combatte ma non la può vincere. A questo punto si pone il problema: ma dove ha radice il male? In Dio o fuori di Dio? Se poniamo il male in Dio, abbiamo un Dio autore del bene e del male, come il  Dio di Böhme o il Dio della doppia predestinazione, come quello di Godescalco[3] e di Calvino. Se il male lo mettiamo fuori, abbiamo il manicheismo: un Dio malvagio opposto al Dio buono.

Il buonismo ha origini illuministiche e massoniche. Dopo le terribili guerre di religione fra cattolici e protestanti dalla metà del ‘500 alla metà del ‘600, in tutta Europa era sorta una crisi di scoramento e di scetticismo: chi aveva ragione? I cattolici o i protestanti? Purtroppo mancò un dialogo tra i teologi e filosofi dell’una e dell’altra parte.

Le due culture procedettero stizzite per conto proprio, in polemica l’una contro l’altra ed ignorandosi a vicenda, con danno di entrambe. Ci fu chi tentò di avviare un dialogo ecumenico, come il luterano Leibniz, ma invano. perché aveva un’impostazione utopistica e troppo razionalistica.

Cartesio si accorse del diffuso scetticismo e tentò di rimediare facendo appello alla ragione, e l’idea era buona. Senonchè, però, egli concepì la ragione non come valore oggettivo ed universale, basato sull’esperienza, come era nelle tradizione della Chiesa, ma sul proprio io autocosciente, cosa che generava soggettivismo, il quale appunto si verificò con la nascita dell’idealismo, dove la preoccupazione del filosofo non è una verità universale che potesse accomunare e pacificare gli spiriti, ma è la libertà e la novità della propria iniziativa soggettiva, cosa che viceversa attizzava i contrasti e le polemiche.

In questo clima inquieto, nel quale Cartesio non era affatto riuscito ad istillare princìpi di bontà e fratellanza umana nell’adesione ai valori universali della ragione, vi sarebbe stata una grande chance per i filosofi e teologi tomisti, essendo Tommaso un grande doctor humanitatis, che faceva proprio al caso. Ma purtroppo essi furono incapaci di sentire il grido di aiuto che veniva da un’Europa lacerata in crisi di certezza e desiderosa di fraternità. Invece di limitarsi a commentare le opere dell’Aquinate, peraltro in modo eccellente, avrebbero fatto bene anche a mettere in luce i valori umani e morali universali della sua dottrina, come fece per esempio Francisco de Vitoria alla fine del’500.

A questo punto, allora, sorse in Inghilterra agli inizi del ‘700 un’associazione umanitaria, che si proponeva la promozione della fratellanza umana su base razionale, nella collaborazione tra fedeli delle diverse confessioni religiose, purché di carattere monoteistico. Era la massoneria.

Essa era animata da una fiducia assoluta e quindi esagerata nelle forze della ragione e della volontà nell’edificazione di una società umana giusta e fraterna, fondata sulla libertà della persona e l’osservanza da parte di tutti dei doveri morali universali dell’uomo, ma nel rifiuto di un’etica basata su di una rivelazione divina, come intende essere e concepirsi l’etica cristiana.

Per questo motivo la massoneria fu sempre contrastata dai Sommi Pontefici fin dai primi decenni del ‘700, fino alle rinnovate condanne della CDF sotto San Giovanni Paolo II del 17 febbraio 1981 e del 26 novembre 1983. Il che però non toglie che a prescindere dal rigetto del soprannaturale, sia possibile rintracciare punti di contatto fra l’umanesimo massonico e quello cristiano sul piano della ragione naturale e dei diritti dell’uomo.

La famosa triade «liberté-égalité-fraternité» della Rivoluzione francese è di origine massonica. Non è difficile vedere nell’Enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco un riferimento a questa triade, la cui origine, del resto i cristiani possono benissimo rivendicare a sé stessi.

C’è però anche una profonda differenza fra la triade massonica e quella evangelica, che nella prima la libertà dell’io, sulla scia di Cartesio, può prendere la mano alla fratellanza ed alla uguaglianza e distruggerle, conducendo all’individualismo, allo gnosticismo e al panteismo, mentre nel cristianesimo la libertà, fondata su di un rapporto personale con Dio autore della legge morale, si colloca sempre nell’orizzonte della fratellanza, del bene comune e della giustizia.

Figura storica importante per la nascita del buonismo è il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau[4], teorico della bontà naturale dell’uomo, la quale verrebbe guastata dalla vita sociale. Il Rousseau riconosce il diritto del popolo all’autogoverno, ma ritiene che il popolo non debba obbedire a una legge morale stabilita da Dio, ma abbia il diritto-dovere di «obbedire a sé stesso» secondo un libero «patto sociale», che rispecchia la «volontà generale». Anche questa è un’impostazione, che da una parte dà troppa fiducia nella bontà dell’uomo e dall’altra porta l’uomo a confidare in sé stesso e in una falsa libertà, che emancipandolo da Dio, lo conduce in realtà a diventare schiavo di se stesso.

La radice profonda del buonismo

Qual è la radice profonda del buonismo? È, come abbiamo visto, l’assolutizzazione dell’io, ossia il panteismo («tutto è Dio», «io sono Dio»), quella concezione per la quale l’uomo o l’io, riassunto e signore di tutto il mondo, ritiene che l’orizzonte, il vertice o culmine del suo essere sia Dio, per cui egli respinge un Dio trascendente e creatore – in tal senso è ateo -, e pretende di sostituirsi a Dio o di diventare Dio o di essere alla pari di Dio o di essere Dio sic et simpliciter.

Perché il panteismo all’origine del buonismo? In che senso? Non abbiamo parlato di manicheismo? Ora il manicheismo è un dualismo teologico, mentre il panteismo è un monismo. Il primo mette in Dio sia il bene che il male. Il secondo suppone un Dio del bene e un Dio del male. Se il buonismo vuole essere monoteismo, deve diventare panteismo, come ha fatto Hegel. Ma con ciò non è risolta la questione del male, ma abbiamo un Dio del male dentro un Dio del bene. Il buonista cattolico non accetterà mai il manicheismo, sebbene di fatto ragioni come un manicheo.

 Quindi non potrà evitare di cadere nell’orbita del panteismo. Se non vuole rinunciare al buonismo per assumere la vera visione cattolica, non gli resta che scegliere fra il panteismo di Hegel o quello del teologo Padre Giuseppe Barzaghi, a seconda che preferisca il valore della Storia o quello dell’Eterno.

Il panteismo hegeliano è notissimo e quindi non mi fermo su di esso. Su di esso si basa il buonismo di Rahner, del quale però ho già parlato più volte in altre occasioni, per cui non mi fermo in esso. Mi fermerò invece su quello di Barzaghi, che è meno noto. Padre Barzaghi esprime la sua visione con alcune frasi lapidarie, che citeremo, a parte la condivisione del dogma fondamentale dell’idealismo panteista, comune a tutte le forme di detto sistema, che comporta l’identità del pensiero con l’essere. 

Possiamo innanzitutto ricordare che il panteismo ha origini orientali antichissime, nell’India attorno al sec. XIV a.C. con una vasta letteratura anonima, i Veda e in particolare la loro parte terminale, il Vedanta, mentre in occidente appare in Italia nel sec.VI con Parmenide, al quale si affianca Eraclito, secondo un rapporto di amicizia-inimicizia, che costituirà la molla del panteismo fino ai nostri giorni.

In India invece abbiamo il sat-maya, dove sat è l’essere, mentre maya è l’apparenza sensibile. Lo scorrere o divenire eracliteo, il rein tuttavia, non corrisponde esattamente alla maya indiana, perché questa suggerisce anche l’idea dell’apparenza ingannevole, quella che poi sarà la doxa platonica.

Per Eraclito l’essere è il divenire, il rein; per cui da lui ha origine il panteismo storicista, che culmina in Hegel. Per Eraclito nulla è eterno, nulla è immutabile, nulla è necessario. Il panteismo eracliteo nasce dalla coppia essere-divenire, einai-rein, che potremmo tradurre cosmologicamente con tempo-eternità. L’essere è pura molteplicità, pura diversità. L’essere è solo il concreto. Esistono solo gli enti.

Per Parmenide invece l’essere è l’essere necessario, universale, eterno ed immutabile, l’essere che non può non essere. L’essere è solo uno, sempre identico a sé stesso, sempre uguale. Esiste solo l’Essere. Da Parmenide ha origine il panteismo eternalista, che culmina in Emanuele Severino. Il divenire e il tempo, come dimensioni di enti temporali, sono solo apparenza. Il tempo comporta bensì una «successione di istanti»[5], ma non sono gli istanti di enti realmente temporali, che iniziano e finiscono nel tempo. Sono invece istanti nei quali e successivamente si manifestano enti che apparentemente iniziano e finiscono, ma che in realtà sono eterni.

Nel panteismo occidentale c’è anche di mezzo il binomio parmenideo essere-pensiero, einai-noein, che, con Cartesio, darà origine all’idealismo. Anche il panteismo indiano si fonda sull’idealismo, o l’identificazione dell’essere col pensiero ed abbiamo il binomio sat-citta, essere=pensiero, sviluppato da Shamkara nel sec. VIII.

Mentre in India il panteismo delle origini si è mantenuto intatto fino ad oggi[6], dato il fortissimo senso della tradizione che possiede il pensiero indiano, il panteismo occidentale, più evolutivo, ha utilizzato con Hegel[7], su base eraclitea, il dogma cristiano dell’Incarnazione. Infatti, per Hegel l’essere s’identifica col divenire e quindi con la storia, alla maniera di Eraclito. Ora per Hegel il divenire non avviene in modo evolutivo, come per Aristotele, ma per contraddizione. Hegel quindi non riconosce la distinzione delle due nature in Cristo, ma parla di «unità della natura umana e della natura divina», raggiunta perché, come già nell’eresia di Eutiche, la natura divina diventa umana.

Ora per Hegel Cristo, come aveva inteso Lutero, assume per salvarci non solo il castigo del peccato, ma proprio il peccato, in modo tale che, essendo Egli Dio, il peccato stesso diventa voluto da Dio; ma volendo Dio nel contempo la salvezza dell’uomo, Dio vuole e annulla ma anche fa coesistere ad un tempo in se stesso in Cristo il peccato.

Quindi il Dio hegeliano, unità di essere e divenire, essere e storia, Dio e uomo, Dio e mondo, è ad un tempo, come già il Dio di Böhme, principio del bene come del male o, come dirà lo stesso Lutero, causa tanto della conversione di Paolo, quanto del peccato di Davide. Hegel paga il suo assoluto monismo teologico col concepire un Dio che ad un tempo è buono e malvagio.

Il buonismo barzaghiano

Padre Barzaghi invece fornisce un fondamento metafisico e cristologico al buonismo proponendo un’interpretazione della teologia di S.Tommaso d’Aquino e quindi del cristianesimo, che si serve dell’eternalismo di Emanuele Severino, il quale si fonda su di una concezione parmenidea dell’essere, che in realtà è  incompatibile con la concezione tomista di tipo analettico e partecipativo, per cui il risultato di questa operazione non è quello di una vera interpretazione del pensiero dell’Aquinate, ma una sua riduzione e quindi falsificazione nei termini della concezione severiniana, per la quale scompare la contingenza della creatura umana, la quale spiega la possibilità del peccato e della sua punizione, nonché della sua redenzione ad opera di Cristo, e l’uomo diventa un’apparizione dell’Essere.

Alcuni assiomi metafisici barzaghiani si prestano ottimamente a dar fondamento al buonismo, come per esempio: «tutto è così com’è, perché così è»[8]. Tutto è autogiustificato. Quindi tutto è bene così com’è. Non c’è da cambiare nulla; non c’è da correggere nulla, né si può cambiare nulla. Il male non esiste. L’agire umano è solo lo svelarsi di ciò che esiste dall’eternità ed è per l’eternità. L’uomo agisce in questo orizzonte dove tutto è bene e quindi non può che agire bene.

Se parliamo di peccato e di sofferenza, si tratta sempre di cose buone, che è bene che ci siano per il semplice fatto che esistono. Il peccato quindi non corrompe niente, non guasta niente, non fa nessun danno, ma è solo un atto che sembra a noi male, ma che in realtà serve all’ordine del Tutto. Noi agiamo in Dio e Dio non fa peccati. Pecchiamo solo se ci dimentichiamo che Dio è con noi e noi siamo in Dio perchè tutto è Dio.

Ma anche il nostro peccare entra nell’ordine divino e ciò che soffriamo entra nell’ordine divino. Tutto è ordine. Il disordine non esiste. Barzaghi dice che tutte le cose sono talmente logicamente connesse tra di loro, che se se ne annullasse una, tutte sparirebbero. Sarebbe come togliere a Dio uno dei suoi attribuiti. Infatti l’universo è Dio.

«Tutto è eterno»[9]. Dio è eterno. «L’Assoluto vede l’Assoluto in ogni creatura. Vede ogni entità come assoluta. L’Assoluto coglie ogni entità come sé stesso, cioè come Assoluto e assolutamente. Dal punto di vista di Dio ogni creatura è assoluta perché è Dio. E, sempre in questo senso tutto è eterno e ogni singolo ente è eterno: se vedessimo le cose come le vede Dio, le coglieremmo anche noi così»[10].

Ci chiediamo però: per quale motivo Dio dovrebbe vedere il mondo identico a Lui, mentre noi lo vediamo distinto da Lui? Dio è panteista mentre l’uomo è teista? Che cosa c’entra il modo di vedere un oggetto con l’oggetto stesso? Una realtà oggettiva non può non essere la stessa per due vedenti, io e Dio, anche se la vedono da due punti di vista diversi. Ma il punto di vista non crea l’oggetto, bensì lo suppone. Un conto è il modo di vedere e un conto è ciò che si vede.  

Per Barzaghi il mondo è dunque Dio. «Dio è la coscienza assoluta del mondo»[11]. E dunque come Dio tutto è sempre stato e tutto sempre sarà. Tutto quindi è saldo, è protetto, tutto è bene. Il divenire, la storia, la corruzione, la generazione, il tempo non esistono, se non come apparizione successiva a noi di diversi aspetti di Dio.

«Il tempo non esiste», ha detto formalmente Barzaghi[12]. «Non si può consentire che l’essere sia nel tempo»[13]. Come mai? Perchè Barzaghi assume la concezione parmenidea dell’essere, per cui «l’essere non può non essere»[14]. Esiste solo l’essere necessario. Il contingente non esiste. Ma perchè? Perchè per Parmenide sarebbe contradditorio, perché Parmenide non è capace di capire, come capirà Aristotele due secoli dopo, che per non trovar contradditorio il divenire dell’ente contingente, basta capire che il suo divenire è un passaggio dalla potenza all’atto.

Ora il tempo è precisamente la misurazione del divenire dell’ente contingente secondo la successione del prima e del poi. Siccome Barzaghi non riesce a cogliere l’entità del contingente e per conseguenza la realtà del tempo, per questo la sua conclusione è che «l’essere in quanto essere è eterno»[15], mentre, se avesse tenuto conto della definizione aristotelica del divenire e avesse accantonato Parmenide e Severino, che gli creano solo confusione, avrebbe capito che l’essere non è solo l’essere eterno, ma anche quello temporale.

Così per Barzaghi le cose e la storia sono solo apparenze fugaci successive, che vengono dall’eterno e tornano all’eterno. E sono custodite nell’eterno. Vedere le cose come generabili e corruttibili, è un metterci dal nostro limitato e soggettivo punto di vista, dice Barzaghi. Dobbiamo invece metterci dal punto di vista di Dio, che vede tutte le cose in Sé stesso e quindi eterne come lui.

Barzaghi si rifiuta di spiegare il divenire col passaggio dalla potenza all’atto o dal possibile all’attuale, perché per lui l’essere è solo atto, come per Parmenide. D’altra parte il divenire come passaggio dal non-essere all’essere per Barzaghi come per Severino, è contradditorio, perché metterebbe assieme l’essere col non-essere. Non esiste un prima e un poi di un medesimo ente, perché tutto è eterno. C’è solo lo svelarsi di ciò che c’è già e lo scomparire di ciò che rimarrà.

Il creare divino per Barzaghi non va inteso come se Dio producesse un qualcosa di esterno a Dio, facendolo passare dal nulla o dal poter essere all’essere, ma come un far dipendere in senso formale la creatura dal creatore, così come il triangolo equilatero fa dipendere dai suoi tre lati uguali i suoi tre angoli uguali. Ma non diciamo che il triangolo equilatero produce attivamente i suoi tre angoli uguali come se fossero l’effetto di una causalità efficiente o di un’azione del triangolo sulla sua superficie. Noi possiamo, certo, disegnare un triangolo ed essere così causa efficiente dei suoi angoli da noi disegnati. Ma sarebbe assurdo concepire la figura geometrica ed astratta del triangolo come causa efficiente dei suoi angoli.

Quindi «Tutto è adesso». Non c’è un passato, non c’è un futuro. Non c’è un passato da rimediare o da far progredire. Non ci sono peccati da riparare. Non ci sono meriti da acquistare o cose da scoprire. Non ho nulla da chiedere. Nulla a cui io debba rinunciare. Nulla mi manca. Non c’è una beatitudine da sperare. «Non c’è niente da aspettare, perché tutto è compiuto»[16].

«L’escatologia è realizzata, perfettamente compiuta, non c’è più nulla da aspettare, non ci sono cose che si aggiungono, c’è soltanto la progressiva manifestazione di ciò che si è già, ma che non è ancora pienamente manifesto. Dio non agisce per aggiunte. Tutto è già compiuto»[17]. Non c’è un castigo da temere. Non c’è un premio da attendere. La fine del mondo, la Parusia e la resurrezione dei morti non sono eventi che devono ancora realizzarsi, ma sono fatti eterni, presenti, esistenti dall’eternità. Adesso posseggo Dio, anzi, come ha detto Barzaghi, «sono Dio».

«Tutto è in tutto». Quindi non c’è sostanzialmente differenza fra le cose. Ogni cosa è tutte le altre, ogni cosa s’identifica con le altre. Il bene e il male sono la stessa cosa. Il male non si può togliere, ma è necessario come il bene. Tutto quello che esiste è bene. Il male esiste? E dunque è bene anche il male.

Bene e male non si escludono a vicenda, perché l’uno e l’altro sono essere. Solo il non-essere non esiste. Il male è un non-essere, e quindi non esiste. Barzaghi, sulla linea di Parmenide, non intende quindi il male come privatio boni debiti, perché questo concetto suppone l’assenza di qualcosa che dovrebbe esserci, ma non c’è. Ora, siccome per Barzaghi tutto è bene così com’è, non esiste un dovere che non sia adempiuto, il che è come dire che non esiste il peccato.

Tuttavia Barzaghi, come i buonisti, riconosce l’esistenza della sofferenza. Ma non la riconosce come castigo del peccato. La sofferenza esiste e basta. È un assoluto. Egli parla bensì di un soffrire ingiustamente, da innocente. Riconosce che Cristo stesso ha sofferto così.  Ma non riconosce che Cristo ci libera dalla sofferenza e ci rende giustizia con la punizione dei malfattori. E questo perchè? Perché anche loro sono persone buone, scusabili e in buona fede.

Nel contempo, se Dio sta in compagnia della sofferenza, tanto più a noi sembra preclusa, per Barzaghi, la possibilità di liberarci dalla sofferenza. Al riguardo egli ha alcune frasi. «L’Assoluto non è mai separato dalla sofferenza, pur non essendovi coinvolto. L’Assoluto è sempre beatamente presso la sofferenza: così il vero pensiero che si esprime in una malinconia non astratta, ma comprensiva»[18]. «La croce rientra nella sostanza della gloria, non perchè costituisca la gloria, ma perché  è semplicemente e sostanzialmente permeata dalla gloria»[19]. Certo, per San Giovanni la croce è la gloria di Cristo. Ma Cristo nella gloria è libero dalla croce.

L’essere infatti, secondo il principio di Parmenide è uno, non è molteplice; è quindi univoco, non diversificato, ma sempre quello, sempre identico a sé stesso e quindi uno solo: Dio, che è l’unico Essere esistente. «L’Assoluto non è il primo, ma il solo»[20]. «Nulla è dentro l’Assoluto perché nulla è fuori dell’Assoluto»[21]. «Dio non vede il mondo come un altro da sé, ma come se stesso»[22]. Dunque tutto è Uno. Tutto è Dio. Ma Dio è buono. E dunque tutto è bene, tutto è buono. Anche il male è bene. Questo è il principio metafisico fondamentale del buonismo.

Tutte queste tesi sono sorrette dalla tesi fondamentale di Barzaghi che «esiste solo Dio», perché l’essere è Dio. Se esiste solo Dio, vuol dire per Barzaghi che il mondo non esiste fuori di Dio, ma in Dio. Così si spiegano tutte le tesi precedenti. Esse non sono altro che la conseguenza logica di questa tesi.

La spiegazione buonista della Redenzione

Per quanto riguarda la Redenzione, Barzaghi ne dà un’interpretazione in base alla quale il buonismo riceve una perfetta spiegazione o dalla quale discende con logica necessità, sempre, s’intende, in una visuale eternalista. Per Barzaghi, infatti la Redenzione non è stata un’opera compiuta dal Verbo incarnato 2000 anni fa, per la quale Cristo innocente si è caricato del peso delle nostre colpe e, come dice il Concilio di Trento, «con la sua santissima passione sul legno della croce ci ha meritato la giustificazione ed ha soddisfatto per noi al Padre» (Denz.1529).

Egli deride questo sacratissimo mistero di giustizia, di misericordia e di salvezza con parole empie parlando di «modo mitico»[23], «Dio in vicenda»[24] e «sceneggiata»[25], respinge il concetto di riparazione e chiama l’opera redentrice con disgustosa ironia un «mettere a posto le cose che sono state scombinate»[26] o «ricostituire i cocci del vaso rotto»[27]. Nega che la Redenzione sia avvenuta nel tempo, che sia cioè un fatto storico, per cui si dà un prima e un dopo la Redenzione.

Per Barzaghi «la storia è il processo manifestativo di ciò che è ab aeterno»[28]. Essa quindi non comporta il succedersi di fatti nuovi, mai prima esistiti, ma è l’apparire nel presente alla nostra esperienza di ciò che esiste già ab aeterno. Per questo, per Barzaghi «l’Incarnazione non ha un quando né un tempo, perché se tutto è espresso nel Verbo, allora tutto è simul, cioè senza tempo»[29]. «L’Incarnazione non è limitata cronologicamente a un avvenimento»[30]; ma significa semplicemente l’eterna  presenza di Dio «presso la carne sofferente innocente»[31].

Per Barzaghi l’espressione biblica «pienezza dei tempi»[32], per indicare i tempi che furono maturi per accogliere la venuta del Verbo sulla terra, non fa riferimento al fatto che il Verbo si è incarnato proprio in quel momento in cui che essi furono maturi, ma che quando il Verbo incarnato è apparso sulla terra, non è che si fosse incarnato allora, ma lo era già da sempre. Il che comporta una gravissima conseguenza, che se tutta l’esistenza umana storica di Cristo in realtà è eterna, lo sarà anche la sua passione. E allora non è vero, come dice San Pietro che «Cristo è morto una volta per sempre» (I Pt 3,18), ma la sua sofferenza è eterna, ab aeterno ed in eterno. E allora come Cristo ci libera dalla sofferenza?

Per questo Barzaghi, pur di sostenere la sua tesi, ha l’audacia di contraddire alle stesse parole formali di Nostro Signore, quando, nella preghiera al Padre in Gv 17, per ben due volte, al v.5 e al 24, fa riferimento alla sua esistenza di Verbo prima della creazione del mondo.

Dice Barzaghi: «L’eternità non vuol dire “prima che il mondo fosse”, ma vuol dire così è da sempre»[33]. Già, ma se il Verbo esisteva prima della creazione del mondo, che cosa significano se non che il Verbo è eterno? Il fatto è che queste parole di Nostro Signore a Barzaghi non vanno bene, perché per lui anche il mondo è eterno, per cui non ha senso parlare di qualcosa che sia prima di ciò che è eterno.

Altra forzatura del testo biblico per amor di tesi Barzaghi la opera sul passo di Ap 13, 8, sempre per sostenere il suo eternalismo cristologico. Il testo parla dell’adorazione fatta a una delle «bestie», espressione di una potentissima forza demoniaca. La traduzione corretta del passo – prendo dalla traduzione della CEI -  è la seguente: «l’adorarono tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell’Agnello immolato». Chiaramente Giovanni si riferisce alla passione di Cristo. Invece Barzaghi traduce: «Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo», per cui Cristo non sarebbe salito sulla croce 2000 anni fa ed oggi e per sempre è nella gloria, ma dall’eternità e per l’eternità.

Ora il testo greco ha effettivamente «Agnello immolato» seguìto da «fin dalla fondazione del mondo». Dice: «Tu arnìu tu esfragmènu apò katabolès kosmu»: Tuttavia è chiaro che dopo «esfragmenu» bisogna mettere una virgola. A Giovanni, che sottolinea con forza la realtà storica del Verbo venuto nella carne – e non una carne astratta e, ma proprio quella carne concreta e mortale nata da Maria -  per evitare le menzogne degli anticristi (I Gv 4,2) non è certamente passato minimante per la mente una fantasia gnostica come quella di Barzaghi, Giovanni, che con tanta intimità e confidenza ha toccato con le proprie mani il Verbo della vita. Giovanni intende invece riferirsi a coloro che sin dalla fondazione del mondo Dio non è scritto «nel libro della vita dell’Agnello immolato», vale a dire i reprobi.

 Barzaghi respinge inoltre l’idea del castigo del peccato. Riferendosi infatti all’uomo sofferente, afferma: «si potrebbe pensare che è giusto che soffra, perché la colpa è sua. Ma non è così»[34]. Secondo Barzaghi l’opera della Redenzione non consiste nel fatto che Cristo abbia patito per riscattarci dal peccato e liberarci dalla sofferenza, ma consiste nel fatto che, «siccome la sofferenza delle sofferenze è patire ingiustamente, quindi a modo di innocente, Dio, per mostrare la sua presenza assoluta presso la carne sofferente, si presenta in una carne sofferente innocente»[35]. «L’Incarnazione va intesa come la manifestazione o espressione del fatto che Dio eternamente è presso la carne sofferente innocente»[36].

Dio quindi in Cristo non ci libera dal peccato e dalla sofferenza, ma semplicemente ha compassione di noi, ci è vicino nella sofferenza, ci scusa e ci perdona nella nostra debolezza, non ci rimprovera, non ci castiga, non ci obbliga a riparare o a espiare, non ci toglie la sofferenza, ma, siccome anche Lui odia la sofferenza, soltanto approva che combattiamo la sofferenza, che aiutiamo gli altri nella lotta.

Egli è con noi in questa lotta, ma Egli stesso non è in grado di liberarci dalla sofferenza, perché essa non proviene e non dipende da Lui, e quindi non è in grado di dominarla e padroneggiarla. Infatti per il parmenideo Barzaghi, la sofferenza non è un evento accidentale e contingente, un fatto storico e temporale, che, come è sorto nel tempo, così è destinata in futuro a sparire.

Non possiamo quindi sperare di liberarci mai da essa in un futuro felice. In questo senso la «vita eterna» non esiste. Secondo un principio che ricorda l’esoterismo massonico, la vita va sempre con la morte e la morte va sempre con la vita. È quello che Severino chiama l’«anello del ritorno». Ricordiamoci sempre che tutto è eterno e quindi tutto ritorna, come in Nietzsche. 

La salvezza, per il buonista, se egli è coerente con le premesse, non comporta affatto l’assenza della sofferenza. La salvezza infatti è la coscienza che tutto è adesso, tutto va bene così com’è, la felicità è adesso, ma non intesa come liberazione dalla sofferenza, ma come coscienza che anche la sofferenza, come il benessere, è eterna, anche il male come il bene sono eterni.

La gioia è inseparabile dalla tristezza. È interessante che Barzaghi fa un elogio della malinconia. Come la famosa scrittrice francese esistenzialista Françoise Sagan, della fine degli anni ‘50, anche il buonista, che non si vuol stordire con i piaceri di questo mondo, dice: «bonjour, tristesse!». Anche la sofferenza e il male sono bene per il semplice fatto che esistono e non possono non esistere, perchè l’essere non può non essere.

Da come Barzaghi concepisce l’opera redentrice di Cristo si vede che egli non ha un’idea di che cosa sia il peccato. Infatti per lui Cristo con la sua passione non si fa carico, Lui innocente, dei castighi da noi meritati, non sconta al nostro posto i nostri peccati, non li toglie come vittima di espiazione, non compensa il Padre per essi, non merita la nostra giustificazione, ma semplicemente subisce una morte ingiusta per compassionarci nella nostra sofferenza, come faceva il Budda con i miserabili che incontrava per la strada.

Per lui il peccato non è un fare il male coscientemente e volontariamente, ma concepisce il peccato come lo intendeva Socrate: l’uomo fa sì il male, ma lo fa per ignoranza, in buona fede, senza volerlo. Non fa apposta. Quindi non dev’essere punito, perché sarebbe come castigare un innocente.

Barzaghi ricorda inoltre l’articolo di fede che insegna che Cristo è venuto a patire per noi - propter nos et nostram salutem descendit de caelis -  ma anziché esprimere gratitudine ed adorazione davanti a questo immenso atto di amore, di riparazione e di misericordia, osa apostrofare Cristo in questo modo: «Questa idea di Incarnazione riparatrice – a modo mitico – implica di riflesso affermazioni del tipo: “…Vedi che vengo a patire per te?”; e conseguenti contestazioni del tipo: “ma guarda, caro Dio, che se non mi avessi fatto, non sarebbe successo niente, te l’ha chiesto nessuno? Quindi…”»[37].

Osserviamo innanzitutto che la concezione dell’Incarnazione come riparazione non è affatto un modo «mitico» di concepirla, ma è il modo dogmaticamente insegnatoci al Concilio di Trento, sotto pena di anatema (Denz.1529).

In secondo luogo come è possibile rispondere con tanta impudenza alle parole di Cristo che ci fa presente che ha sofferto per noi per liberarci dalla schiavitù del demonio, del peccato della morte, meritandoci il perdono dei peccati la figliolanza divina e la vita eterna?

Davanti a quelle commoventissime parole di Cristo, malcitate da Barzaghi[38], tutto quello che Barzaghi sa fare è uscire con una battuta stoltissima ed offensiva nei confronti di Dio che lo ha creato ed invece di ringraziarlo, osa scaricare su Dio la responsabilità di quei peccati per togliere i quali Cristo è morto sulla croce Come a dire: dato che mi hai creato, che cosa ti lamenti se sono fatto come sono fatto? Potevi non crearmi!

Barzaghi distingue l’Incarnazione «da parte di Dio»[39] e l’Incarnazione dal punto di vista umano e sostiene che dal primo punto di vista di Dio essa è eterna, ma dal nostro punto di vista sarebbe avvenuta nel tempo. Per dimostrare la sua tesi fa riferimento al fatto che l’atto divino dell’assunzione della natura umana di Cristo è un atto eterno, identico a Dio stesso. D’accordo.

Ma qui non si tratta di considerare l’atto divino, ma l’effetto di questo atto nella storia, effetto che è stata appunto l’Incarnazione avvenuta 2000 anni fa nel seno di Maria e non nella stratosfera dell’essere parmenideo. Quindi qui il distinguere un punto di vista umano dal punto di vista divino non serve assolutamente a niente. Per questo si deve dire che il Verbo si è incarnato 2000 anni fa tanto per noi che per Dio. Quindi Barzaghi non può assolutamente dire che «Dio ha eternamente assunto la natura umana». Nessuna natura umana, neppure quella di Cristo, esiste dall’eternità.

Da che cosa dipende questa confusione di Barzaghi tra l’oggetto del conoscere e il modo del conoscere? Egli si è imbrogliato nell’interpretare una tesi di San Tommaso, che potrebbe a tutta prima sembrare dargli ragione, ma in realtà dice tutt’altro. Tommaso infatti  parla delle idee divine[40], ossia delle idee in base alle quali Dio concepisce, progetta e pensa le cose che vuol creare.

Ebbene, Tommaso dimostra che l’idea di una cosa creabile nella mente divina è Dio stesso, ossia coincide con l’Essenza di Dio, dato che in Dio, essendo Egli semplicissimo, il suo Essere coincide col suo Pensare ed Ideare. Quindi la creatura, in quanto è in Dio, pensata da Dio, è Dio. Ora però, una volta che la creatura è creata, quindi non solo ideata ma realizzata, essa inizia ad esistere per conto proprio in se stessa, fuori di Dio, distinta da Dio. Per cui occorre distinguere l’idea della creatura in Dio dalla medesima creatura esistente fuori di Dio. Senonchè Barzaghi, che è un panteista che confonde Dio e mondo, confonde la creatura in Dio e con la creatura fuori di Dio. Da qui la sua idea assurda ed eretica di un Verbo divino incarnato dall’eternità.

Considerazioni conclusive

Il buonismo è una visione del cristianesimo che ritiene di aver superato il timore dei castighi divini, il tormento che viene dai sensi di colpa, la divisione degli uomini fra giusti e malvagi, la soggezione al diavolo e alle potenze della natura. Dio è buono e non mi castiga; non mi impone nessuna legge, nessun obbligo, del cui adempimento io debba poi rendergli conto. Mi lascia libero di attuare la mia volontà. Infatti io sono sostanzialmente buono: se faccio del male, o è per debolezza o è per ignoranza, per cui non ho colpa e non merito castighi, ma semmai comprensione e misericordia.

I buonisti constatano l’esistenza di molte ingiustizie personali e sociali, l’esistenza di varie forme di oppressione di alcuni uomini, in possesso del potere economico e politico sugli altri, l’esistenza di molte divisioni religiose e di molti conflitti personali e sociali. Ma ritengono che per risolverli non si debba mai usare la forza, ma sempre e solo il dialogo. Non c’è da preoccuparsi di chi ha ragione o di chi ha torto. Basta metter pace.

Nessuno è autorizzato a voler convertire l’altro alle proprie idee, perché gli farebbe violenza.  Occorre lasciare liberi tutti di avere la propria concezione del bene e del male. L’importante è convivere nella pace e nel dialogo. L’accordo fra gi uomini non è sulla base di verità morali assolute ed universali di carattere speculativo ed universali, ma è basata sulla somiglianza di princìpi pratici e nella convergenza unitaria della diversità delle molteplici posizioni.

Secondo i buonisti il dividere l’umanità in buoni e cattivi, ritenendosi ovviamente dalla parte dei buoni, come fa per esempio l’Apocalisse, vuol dire ignorare la fratellanza umana, spaccare l’umanità in due partiti contrapposti, e creare uno steccato insormontabile, che è causa di guerre e conflitti.

No, siamo tutti buoni, tutti di buona volontà, tutti fratelli, tutti in grazia di Dio, tutti degni di compassione, tutti scusabili, tutti salvi. Dio fa misericordia a tutti e non condanna nessuno. Il cristiano non ha amici e nemici, ma solo amici. È amico di tutti e non è nemico di nessuno. Non combatte nessuno, non si adira con nessuno, non critica nessuno, non condanna nessuno, non confuta nessuno, non incolpa nessuno, non esclude nessuno, non presume di aver ragione contro un altro, ma rispetta le idee di tutti e dà ragione a tutti, sapendo che ognuno ha la sua verità. Sa bene che quello che sembra vero a me può sembrare falso a te. Dunque stiamo tranquilli e lasciamo ciascuno pensare come vuole.

Secondo i buonisti, la storia del peccato originale per cui l’uomo è stato punito da Dio per aver trasgredito il suo comando, per cui ogni uomo nasce con la tendenza peccare, in conflitto con gli altri, nel rapporto conflittuale con un Dio adirato per essere stato offeso del peccato, soggetto ad una natura ribelle a causa del peccato, non è affatto rivelazione divina, ma è la miserevole invenzione di un’umanità spregiatrice di se stessa, che, dimentica della sua originaria bontà, dà a se stessa la colpa dell’esistenza del male per non accusare Dio di essere all’origine del male.

Per il buonista il male indubbiamente esiste. Tuttavia egli non lo intende come male di colpa, il peccato, ma come male di pena, la sofferenza. Egli non riconosce l’origine del male nella disobbedienza della creatura al creatore, con la sua stessa natura distruttiva e mortifera e le sue conseguenze penali nei castighi divini, nelle sanzioni della giustizia umana, nel turbamento della coscienza, nella ribellione della natura e in tutte le sofferenze della vita presente.

Per il buonista il male non è tanto il peccato, che comunque per lui non è mai colpevole, non merita castigo, ma è omologato all’errore o allo sbaglio in buona fede. No, il vero male per lui è la sofferenza, della quale peraltro non sa spiegare il perchè e l’origine, in quanto rifiuta di considerarla come castigo divino del peccato, perché in tal caso Dio non sarebbe più buono e misericordioso.

Dunque per il buonista la sofferenza non è voluta da Dio e non è mai mandata da Dio. Essa agisce per conto proprio e di propria autonoma ed insopprimibile iniziativa, senza alcuna ragione.  Non si tratta di un mistero, del quale Dio nella sua onniscienza, sappia il perchè. No. Si tratta di un qualcosa di intrinsecamente inintellegibile, sicché neppure un intelletto divino infinito può capirne la causa.

Essa ripugna totalmente all’intelletto umano o divino che sia. Essa, non avendo causa, assomiglia pertanto ad una divinità. Infatti di Dio non ci chiediamo perchè esiste e da dove viene. Esiste e basta. Si deve soltanto prenderne atto e non dobbiamo porci delle domande sul perchè esiste. Ma ecco il punto: è possibile togliere ciò di cui si conosce la causa. Vediamo le conseguenze.

Già Aristotele aveva capito almeno che il male e la sofferenza non sono sostanze, ma accidenti – la steresis: privatio boni debiti in subiecto bono -. Ora l’accidente di per sé si può togliere. I buonisti, con la loro irrazionale sostanzializzazione della sofferenza, non capiscono neanche questo.

Per loro infatti, come abbiamo visto, succede che neppure Dio conosce la causa della sofferenza per la semplice ragione che non ha causa. Ma ecco la conseguenza terribile che deriva dal buonismo: neppure Dio può porre rimedio alla sofferenza. E difatti Barzaghi non dice che Dio toglie la sofferenza, ma che vive accanto alla sofferenza.

Il buonista ammette l’esistenza della sofferenza, ma, rifiutando l’idea che provenga da Dio, e che possa essere utilizzata a fin di bene, è costretto a porla come nemica assoluta, esistente o sussistente in sé assolutamente per conto proprio indipendentemente da Dio, benché contro la sua volontà, perché Dio è buono.

Dio allora, per il buonista, è buono, ma non è onnipotente: non può togliere la sofferenza e quindi non può liberarci dalla sofferenza. E quindi la sofferenza non può servire a togliere la sofferenza, sia pur quella di Cristo. Tuttavia anche nella sofferenza vale il principio che è la vita che toglie sofferenza. Solo che qui è la vita divina che mediante la sofferenza può togliere la sofferenza.

Chiedere a Dio di liberarci dal male per il buonista è chiedergli troppo. Ci risponderebbe: «Figliolo, non ce la faccio. Non è in mio potere. L’unica cosa che puoi fare è aver compassione per i sofferenti, curarli, aiutarli, combattere la sofferenza, e sopportare, come ha fatto mio Figlio». Tutto quello che Dio può fare è soffrire con noi. Il che è appunto, come abbiamo visto, l’interpretazione che il buonista dà dell’Incarnazione.

Da qui discende un’altra conseguenza conturbante. Che ne è della vita eterna e della beatitudine eterna promessa al cristiano? Teniamo presente che per il buonista il vero male non è il peccato, ma la sofferenza. Se dunque per non soffrire può essere utile o necessario peccare, ben venga il peccato. E se per non peccare occorre soffrire, è meglio peccare piuttosto che soffrire. Il che desta in noi il sospetto che al di là di tutti i discorsi mistici rahneriani o barzaghiani dell’«uomo in Dio» o di «Dio nell’uomo», dell’«esperienza di Dio», dell’«uomo teofania di Dio», quello che conta non è il prepararsi mediante il sacrificio della croce ad un al di là eternamente libero dalla sofferenza, ma l’assicurarsi un posto al sole nell’al di qua, godendo il più possibile e soffrendo il meno possibile, senza sensi di colpa, certi della divina misericordia e della salvezza futura.

Uno però potrebbe dire: capisco il buonismo hegeliano storicista e immanentista di Rahner, che disprezza l’immutabile e l’eterno. Ma che dire del buonismo barzaghiano, che esalta l’eternità? Sì, ma come? Non abbiamo visto che per Barzaghi tutto è adesso, tutto va bene qui così com’è? Che tutto è compiuto? Che l’escatologia è già realizzata? Che non abbiamo nulla da attendere perché siamo beati già adesso? E naturalmente nella sofferenza, perché Dio stesso vive accanto alla sofferenza. O vogliamo essere più felici di Dio?

Quindi l’«eternità» barzaghiana è un’eternità fasulla, è una truffa. Da che cosa lo ricaviamo? Dal suo assioma che «tutto è eterno». Vale a dire che è eterno non solo l’Eterno, cioè Dio, ma anche il temporale, cioè il mondo. Del resto, lo abbiamo visto, per Barzaghi come per Hegel, il mondo è Dio e Dio è il mondo.

Quindi alla fine non c’è una sostanziale differenza fra l’escatologia rahneriano-hegeliana e quella severiniano-barzaghiana: nell’uno e nell’altro caso l’Eterno è confuso col tempo: in Hegel la storia è il divenire dell’Assoluto. Per Barzaghi l’Eterno si manifesta come successione di istanti temporali, che segnano l’apparire e lo scomparire degli eterni. In ogni caso Tutto è adesso e Tutto è bene così com’è. I buonisti possono scegliere il sistema preferito.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 1 novembre 2020

 


per San Giovanni la croce è la gloria di Cristo. Ma Cristo nella gloria è libero dalla croce

(immagini da internet)


 

San Giovanni della Croce non è stato solo uno dei più grandi mistici cristiani ma anche un sommo artista sia come poeta che come disegnatore. Un giorno, siamo nel 1575, nella chiesa dell'Incarnazione Giovanni ha una visione. Mentre è appartato in preghiera, in un'angolo che da sul transetto, Cristo gli appare sulla Croce. Ha la testa reclinata sul petto, le braccia sostenute da pesanti chiodi, le gambe piegate sotto il peso del corpo, con un'espressione di assenso totale al sacrificio. Cessata la visione prende carta e penna e riproduce quanto ha visto.

 

 

 

 



[1] Ho già trattato di questo argomento nel mio libro L’eresia del buonismo, Edizioni Chora Books, Hong Kong 2017.

[2] Esempio notevole di questa riduzione dell’amore evangelico alla sola misericordia è il testo del Card. Walter Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo. Chiave della vita cristiana, Queriniana 2015. No, questa riduzione dell’amore evangelico alla misericordia non è cattolica, ma luterana. Cristo dice che il primo comandamento non è la misericordia, che si riferisce solo all’amore per il prossimo, ma è la carità divina.

[3] Monaco tedesco del sec. IX, inventore dell’eresia della doppia predestinazione: al paradiso e all’inferno, condannata dal Concilio di Quierzy dell’853 (Denz.621), destinata ad essere riesumata dai cosiddetti Riformatori del sec. XVI da Calvino dallo stesso Lutero.

[4] Cf Jacques Maritain, Tre Riformatori, Morcelliana, Brescia  1965.

[5] Oltre Dio ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la deità, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna 2000, p.47.

[6] Yoghi Ramacharaka, La suprema sapienza, Fratelli Bocca Editori, Milano 1950; Vivekanenda, Jnana-Yoga. Lo yoga della conoscenza, Ubaldini Editore, Roma 1963; Swami Maharishi Mahesh Yogi, La scienza dell’essere e l’arte di vivere, Casa Editrice Astrolabio, Roma 1970; Mahendranath Sircar, Hindu mysticsm according to the Upanishads, Oriental Books Reprint Corporation, New Dely 1974; Govinda, La conoscenza dell’infinito. Meditazione realizzazione di Dio, Edizioni Fratello Gigliotti, Lamezia Terme (CZ) 1990; Bhaktivedanta Swami Prabhupada, La via della perfezione, Baktivedanta Book Trust Italia, 1990;  Anthony Elenjimittam, Meditazione per la realizzazione del sé, Mursia, Milano 1995; Raphael, Tat tvam asi Tu sei Quello, Edizioni Ashram Vidya, Roma 2001.

[7] Cf CRISTO IN HEGEL E SAN TOMMASO, mio corso di licenza in teologia presso lo STAB, Bologna 1996; Voce GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL, nel DIZIONARIO ELEMENTARE DEL PENSIERO PERICOLOSO, Istituto di Apologetica, Milano 2016.

 

 

[8] Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Edizioni ESD, Bologna 1997, p. 53.

[9] Philosophia. Il piacere di pensare. Edizioni Il Poligrafo, Padova 1999, p.61.

[10] Ibid., p.54.

[11] Ibid., p..60.

[12] Cf Soliloqui sul divino, op.cit., pp.79-80.

[13] Ibid., p.79.

[14] Ibid.

[15] Ibid., p.80.

[16] Oltre Dio, op.cit., p.47.

[17] Ibid.

[18] La geografia dell’Anima. Lo scenario dell’agone cristiano, Edizioni ESD, Bologna 2008, p.215.

[19] Ibid., p.241.

[20] Philosophia, op.cit., p..16.

[21] Ibid. p.33.

[22] Ibid., p..64.

[23] Oltre Dio ovvero omnia in omnibus, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna 2000, p.43.

[24] p.44.

[25] p.43.

[26] P.45.

[27] p.44.

[28] p.46.

[29] p.44.

[30]Ibid.

[31] Ibid.

[32] cf il mio articolo LA DIMENSIONE ESCATOLOGICA DEL TEMPO, Sacra Doctrina, 1,1999, pp.5-46

 

[33]p.46.

[34] p.44.

[35] Ibid.

[36] p.45.

[37] p.43.

[38] Hanno un pallido richiamo alle Lamentazioni di Geremia che si leggono al Venerdì Santo.

[39] Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Edizioni ESD, Bologna 1997, p.93.

[40] Sum. Theol., I, q.15.

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