Il concetto di Dio da Kant a Feuerbach - Da Dio come idea della ragione a Dio come alienazione della ragione - Prima Parte (1/5)

 Il concetto di Dio da Kant a Feuerbach

Da Dio come idea della ragione a Dio come alienazione della ragione

 Prima Parte (1/5)

La negazione dell’esistenza di Dio

è la conseguenza logica

di una falsa dimostrazione dell’esistenza di Dio

Lo scopo che mi propongo in questo articolo è di dimostrare che l’ateismo di Feuerbach è la conseguenza estrema del falso teismo di Kant, basato sul cogito cartesiano, per cui, per trovare le radici prime dell’ateismo moderno, bisogna arrivare al cogito di Cartesio[1].

Infatti, tanto la res cogitans quanto la res extensa sono princìpi di ateismo: la prima, in quanto ragione autosussistente non bisognosa di essere creata; la seconda, in quanto, come già notava lo stesso Voltaire[2], non ammette una vera realtà corporale esterna all’uomo, ma pone un mondo meramente meccanico sistemato dalla ragione matematica, sicchè vien meno la domanda di chi lo ha creato se non la ragione umana.

Così a partire da Cartesio, apparentemente così preoccupato di dimostrare l’esistenza di Dio ed anzi di offrire prove superiori a tutte le precedenti, il concetto di Dio subisce una graduale degenerazione del suo significato proprio, tale da perdere progressivamente il riferimento al suo soggetto reale appropriato, ossia Dio stesso ed essere trasferito e attribuito, questo significato, al soggetto umano, mentre per converso il concetto di Dio viene progressivamente svuotato del suo senso proprio e degradato per il conferimento di attributi umani in modo tale che gradualmente Dio diventa sempre meno importante, mentre acquista una esorbitante importanza la natura umana che gradualmente  attribuisce a sé ciò che appartiene a Dio sottraendolo a Dio.

Alla fine del processo l’esistenza umana è divenuta talmente autoconsistente ed autosufficiente e la natura divina si è talmente illanguidita e svaporata, che l’uomo basta a se stesso e non ha bisogno di alcun Dio che lo crei, mentre per converso Dio si è talmente svuotato di significato, da perdere totalmente la sua esistenza. Ed ecco l’ateismo.

Ma per giungere a questa tappa finale l’evoluzione del concetto di Dio è passata in Kant dall’essere di Dio all’idea di Dio: Dio non è più altro che l’immagine e il simbolo dell’ideale trascendentale della ragione, la somma idea razionale che raccoglie in unità sistematica tutte le idee e i concetti della ragione, insomma, un’apoteosi della ragione umana. Ed era logico che tale concetto di ragione scaturisse dal concetto cartesiano di res cogitans, che contiene già in germe la divinizzazione della ragione umana. Il Dio di Cartesio, certo, esiste in se stesso, ben distinto dalla ragione umana, ad essa trascendente e creatore della ragione.

Ma a quale prezzo! Questo Dio, per esistere, ha dovuto ottenere il permesso da Cartesio, perchè non esiste in forza della sua esistenza indipendentemente da quella di Cartesio. Infatti lo stesso Cartesio esiste perché si pensa, non si pensa perché esiste; ma poiché Cartesio, possedendo già per conto suo l’idea di Dio, in base a questa idea si è degnato di attribuire a Dio l’esistenza, alla fine non è Cartesio che esiste perché esiste Dio, ma Dio esiste perché esiste Cartesio che lo ha pensato e ideato. Se Cartesio non avesse avuto l’idea di Dio, come Dio avrebbe potuto esistere?

Il problema dell’esistenza di Dio è il problema dell’esistenza dell’origine, del fondamento, del principio e del perché primo e radicale delle cose e dell’intera realtà, sperimentata dai sensi e conosciuta dalla ragione. È il problema dell’esistenza di un assoluto a cui tutto sia relativo. È il problema di sapere come si giustifica l’esistenza del contingente, del diveniente, del corruttibile, del transeunte, del finito.

Abituati come siamo nell’esperienza quotidiana a supporre che ogni fenomeno abbia bensì una causa, ma questa a sua volta causata, non è di immediata evidenza la necessità di porre una causa prima. Benché già Aristotele invece se ne fosse accorto col suo principio ananke stenai, «bisogna fermarsi».

La conclusione atea circa l’origine e il fondamento della realtà non è ragionevole. Essa risponde a un cattivo uso della ragione, la quale frustra se stessa, bloccando irragionevolmente il procedimento a ritroso nella determinazione delle cause. La risposta atea impedisce alla ragione di raggiungere la sua piena soddisfazione e di acquietarsi in essa. È il cor inquietum di agostiniana memoria, il quale, se non giunge a riposare in Dio, resta eternamente ed irresolubilmente inquieto. Non diciamo che l’ateo non esibisca apparenti ragioni del suo ateismo; solo che non sono ragioni vere, le quali alla fine lo avvolgono nell’assurdo dell’io che vuol sostituirsi a Dio. In fondo l’ateismo è il paravento teoretico che copre la vera intenzione del soggetto, che è la semplice volontà dell’uomo di fare la propria volontà e non quella di Dio. Non è che l’ateo non sappia che Dio esiste o sia convinto delle sue dimostrazioni. Semplicemente vuol farsi la sua vita per conto suo indipendentemente da Dio.

D’altra parte, come evitare di chiedersi: ha senso una scala di valori se non esiste un valore massimo che faccia da misura? Il perseguire un fine limitato spiega sufficientemente il perché dell’azione diretta a un fine? Potrebbero esistere cose vere e buone se non esistesse la verità e la bontà?

Una causa a sua volta causata spiega sufficientemente l’esistenza dell’effetto? È soddisfacente spiegazione della realtà presente una retrocessine delle sue cause all’infinito? L’esistente, per esempio l’uomo, ha in sé la ragione sufficiente della sua esistenza o rimanda ad una causa? La moltitudine delle cose ha un’origine unica? Tende allo stesso fine? Essa ha origine da un unico principio o bisogna ammettere più princìpi? Sorge dallo spirito o dalla materia o dalla materia-spirito? L’ente che non ha l’essere da sé, come fa ad esistere? L’ente che non è da sé, da dove viene? Se ogni ente partecipa dell’essere, esiste un essere per essenza?

La totalità della realtà è l’insieme delle cose dipendenti da un principio unico ed unite ad esso o è un unico ente, che sintetizza in sé tutte le perfezioni delle cose? Il mondo e l’uomo sono causati nel loro essere da una causa prima creatrice o sono il molteplice divenire o apparire e scomparire fenomenico dell’unico Ente necessario, eterno, Essere assoluto, che è la totalità del reale?

Tutte le cose sono in movimento, nascono e periscono, si generano e si corrompono, mutano e si alterano. Il divenire sembra contradditorio, il vero si oppone al falso, il bene al male. Il principio di tutto potrà essere uno, semplice ed identitario o non sarà sintetico e contradditorio? È la contraddizione che suppone l’identità o è l’identità che nasce dalla contraddizione? Che cosa c’è all’inizio? L’uno o il due? La semplicità o l’opposizione? Il principio primo è una tesi che respinge l’antitesi o è sintesi di tesi e antitesi?

Il bisogno che sentiamo di spiegare l’esistenza, l’origine, il perché e lo scopo delle cose può trovare piena soddisfazione? Come mai l’aumento del nostro sapere non hai mai limite, ma cresce continuamente? D’altra parte, come mai non riusciamo a volte a trovare quello che cerchiamo? Perchè tante cose ci sfuggono? Perché certe cose non riusciamo a comprenderle? C’è qualcosa che supera le capacità della nostra ragione?

Per esser certi che esiste una causa prima delle cose, un ente del quale non se ne possa immaginare uno maggiore, basta formare il concetto dell’id quo nihil maius cogitari potest? Ma come arriviamo a questo concetto? Possiamo servircene per dimostrare che esiste Dio? Ma se lo possediamo, non vuol dire che implicitamente sappiamo che esiste? E allora vogliamo dimostrare qualcosa di cui sappiamo già che esiste?

La mente umana non ha difficoltà o formare il concetto o l’idea di Dio, che lo chiami poi «essere», «infinito», «assoluto», «uno», «totalità», «intero», «eterno» è cosa secondaria. Essa resta così affascinata da questa idea stupenda, che, se essa manca di modestia e ignora la presupposta conoscenza sensibile, è portata a credere che Dio sia l’oggetto primo, iniziale, immediato ed unico di tutto il suo sapere, il quale pertanto, non parte dai sensi, ma parte da Dio.

Questo è stato il difetto dell’ontologismo ottocentesco[3] e lo si ritrova nella teologia di Bontadini, il quale, respingendo la trascendenza dell’essere sul pensiero e fondandosi sul cogito cartesiano, risolve tutto il pensiero e quindi tutto l’essere in quella che egli chiama «unità dell’esperienza», senza precisare esperienza di che cosa, perché si tratta dell’«esperienza dell’esperienza», come a dire della totalità immediatamente presente alla coscienza. Ma allora comprendiamo anche qui che questo tipo di teismo è falso, perché, come in Cartesio e negli idealisti, sotto la parola «Dio» si nasconde l’io. L’io è al posto di Dio. Basterà sopprimere la parola «Dio» e parlare solo dell’assolutezza dell’io e avremo l’ateismo di Feuerbach e di Marx.

Gli idealisti vedono in Sant’Anselmo un loro precursore a causa del famoso argomento ontologico; ma essi trascurano il fatto che Anselmo ammette Dio come realtà extramentale, ed è quindi realista. Anselmo avrebbe considerato blasfemo il risolvere l’essere divino nell’essere pensato e il porre Dio come semplice idea della ragione. Tuttavia egli, per una involontaria svista logica, che San Tommaso notò, non si accorse di fare un discorso che avrebbe fatto comodo agli idealisti e si opponeva al suo realismo[4].

Un'altra forma di teismo sbagliato è il fideismo, ossia la convinzione che l’esistenza di Dio non si dimostra col ragionamento, ma è puro oggetto di fede. È il «sola fides» di Lutero, ossia l’esclusione della ragione nella conoscenza di Dio. È chiaro che qui siamo davanti ad un concetto sbagliato di fede, come se essa fosse un sapere o un sentire immediato, quando invece essa non è altro che il prender per vero ciò che Cristo rivela e la Chiesa propone a credere.

La fede cristiana, quindi, non è l’organo del teismo, ma suppone già dimostrata l’esistenza di Dio, giacchè il credente crede a Cristo perchè è Dio. Se non credo in Dio, come faccio a credere in Cristo che mi parla in quanto Dio? La ragione umana, ferita dal peccato originale, è certo fallibile, ma non è così corrotta al punto da non riuscire a dimostrare che esiste Dio, come ci sono riusciti Platone ed Aristotele, che pure ignoravano la rivelazione biblica.

A Lutero, peraltro, il Dio che interessa, non è Dio nella sua semplice essenza, a prescindere dall’Incarnazione salvifica, ma è solo il Dio incarnato, al punto che sembra che per Lutero il solo vero Dio sia il Dio incarnato e salvatore, Cristo, quello che egli chiamava il «Dio-per-me». Ma qui allora sorge un delicatissimo problema circa il concetto stesso di Dio, giacchè sembra che per Lutero Dio non sia vero Dio se non incarnato. Uno si domanda: ma allora, che ne è di Dio Padre, che non è incarnato? Indubbiamente Lutero era realista e per lui Dio è un ente extramentale. Tuttavia questo concepire Dio in funzione dell’io, lo avvicina indubbiamente al cogito cartesiano. Ecco, del resto, il motivo della fortuna che Cartesio ha avuto presso i luterani e gli idealisti, molto maggiore che presso i cattolici.

Cartesio conduce all’illuminismo della ragione autosufficiente e del meccanicismo materialista. L’illuminismo porta all’idealismo panteista e il panteismo produce l’ateismo. Vedremo brevemente in questo articolo lo svolgersi di questa parabola. La cosa interessante è la pretesa ipocrita, che si nota per esempio in Heidegger, di accusare il realismo di aver generato l’ateismo, mentre l’idealista vanta di essere il vero teista. Come ragiona, infatti, l’idealista? Egli mette il realista alla pari dei materialisti per il fatto che ammette l’essenza di una realtà materiale esterna al pensiero.

Questo grave delitto, secondo l’idealista, avrebbe per conseguenza il fatto di considerare Dio come un semplice ente fra gli altri o una cosa fra le cose; semmai il più importante di tutti. Ma – sentenzia l’idealista – Dio non è un «oggetto»; Dio è «soggetto», Dio è spirito. Bella scoperta! Ma che conseguenza trae l’idealista dal fatto che Dio è spirito? Che Dio è l’autocoscienza o che Dio sono Io.

Secondo Rahner[5] l’uomo d’oggi può persuadersi dell’esistenza di Dio solo se supponiamo già presente in tutti l’esperienza atematica dell’Incomprensibile, la quale, secondo lui, è già esperienza di Dio che comporta il «cristiano anonimo». Quindi non si tratta più di indurre il non-credente a riflettere se esiste o su quale possa essere una causa prima delle cose che si vede attorno, degli altri e di lui stesso, perché questo modo di impostare il problema, secondo Rahner, sarebbe «precritico», ossia precedente a Kant, che avrebbe fatto superare all’umanità l’ingenuità di ammettere cose esterne intellegibili, delle quali ci si può interrogare chi è il creatore.

Invece, per Rahner, che segue Kant, l’impostazione «critica», della quale avrebbe bisogno l’uomo d’oggi richiede che risvegliamo in lui l’esperienza coscienziale originaria atematica dell’Incomprensibile, dalla quale solo si trarrebbero poi i concetti della ragione della fede. Dovrebbe essere evidente che Rahner vuol indurci ad abbracciare quel teismo panteista hegeliano, che è precisamente quello che ha prodotto, come vedremo, l’ateismo marxista.

D’altra parte, Rahner parla di un «ateismo senza colpa» per il fatto che non sarebbe una vera negazione di Dio, ma solo la negazione del concetto «precritico» di Dio, giacchè per Rahner, in forza del cristianesimo anonimo tutti sono credenti in Dio, in modo tematico o atematico, consapevole o inconsapevole. Infatti per Rahner l’uomo è essenzialmente orientato a Dio, per cui un vero rifiuto di Dio non esiste. 

O tutt’al più si riscontra il rifiuto dei concetti insegnati dalla Chiesa; ma questo non ha importanza, perché per Rahner la verità non è data dal concetto, ma dall’esperienza atematica. Secondo Rahner se di ateo si può parlare, questi è proprio il realista, vittima della mentalità precritica che crede ancor che il pensiero sia distinto dall’essere e regolato dall’essere e non ha ancora scoperto che il pensiero è intrascendibile ed identico all’essere.

Osservo invece che la grande disgrazia dell’uomo cartesiano è quella di chiudersi nel proprio io. L’io artesiano non capisce che Dio non è l’io, ma il Tu. È la sostituzione dell’idealismo al realismo. Per usare le parole di Sant’Agostino, mentre il realismo è amor Dei usque ad contemptum sui, l’idealismo l’è amor sui usque ad contemptum Dei. L’ateismo nasce dall’idealismo. L’idealismo parla bensì di Dio, ma questo Dio non è altro che l’io. L’ateo non fa altro che dire apertamente ciò che l’idealista sottintende: Dio non c’è perché Dio sono io. Mentre Santa Teresa  di Gesù dice Dios basta, l’ateo dice basto io.

L’io dell’idealista è un io che non si fida del Tu. Crede che non gli convenga affidare i propri interessi al Tu, che nessuno meglio di lui può curare e garantire i suoi interessi. Per questo egli si convince di potersi fondare su se stesso, di dovere solo a lui il proprio esistere e quindi di non dipendere nell’esistere dal Tu. Il Tu non esiste prima di lui ed indipendentemente da lui, ma al contrario è lui che pone il Tu per il gusto di polemizzare.

Caratteristica infatti dell’io cartesiano è la doppiezza: non il puro sì, ma il sì e il no. Egli in fondo sa che la verità è adeguazione al Tu, ma siccome del Tu non vuol saperne, e d’altra parte non può fare a meno dell’adaequatio, allora sposta l’adaequatio dall’adeguazione al Tu all’adeguazione a se stesso. Per questo l’autocoscienza, il ritorno a sé è più importante, nell’idealismo, che non la scienza, l’adeguazione al Tu; oppure diciamo che la scienza s’identifica con l’autocoscienza. Ma anche qui è evidente la volontà dell’io di sostituirsi a Dio. Solo in Dio infatti l’autocoscienza s’identifica con la scienza, perché per Dio il sapere è sapere sé, mentre per noi la scienza suprema è conoscere Dio. Così è in noi che la nostra autocoscienza è finalizzata alla scienza del Tu divino.

Fine Prima Parte (1/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 18 luglio 2023


 

Il problema dell’esistenza di Dio è il problema dell’esistenza dell’origine, del fondamento, del principio e del perché primo e radicale delle cose e dell’intera realtà, sperimentata dai sensi e conosciuta dalla ragione. È il problema dell’esistenza di un assoluto a cui tutto sia relativo. È il problema di sapere come si giustifica l’esistenza del contingente, del diveniente, del corruttibile, del transeunte, del finito.

Abituati come siamo nell’esperienza quotidiana a supporre che ogni fenomeno abbia bensì una causa, ma questa a sua volta causata, non è di immediata evidenza la necessità di porre una causa prima. Benché già Aristotele invece se ne fosse accorto col suo principio ananke stenai, «bisogna fermarsi».

La conclusione atea circa l’origine e il fondamento della realtà non è ragionevole.

Immagine da Internet: Aristotele


[1] È la tesi sviluppata dall’opera classica fondamentale di Cornelio Fabro, Introduzione all’ateismo moderno.

[2] Cf Scritti filosofici, Editori Laterza, Bari 1962, pp.200-201.

[3] Vedi Alberto Lepidi, Examen philosophicum-thelogicum de ontologismo, Lovanio 1874.

[4] Noi chiamiamo «Dio» quella causa prima la cui esistenza affermiamo partendo dall’esperienza delle cose sensibili. È a questo punto che, chiedendoci quali attributi deve avere questa suprema causa, possiamo dar fondamento realistico a concetti sublimi come ente perfettissimo e necessario, ed essere sussistente, che possiamo aver già formato per conto nostro indipendentemente e prima d’aver dimostrato l’esistenza di Dio. Non possiamo invece pretendere di affermare che Dio esiste fuori di noi per il semplice fatto di formare quei concetti. Le nostre idee, infatti, devono rispecchiare la realtà. Se la nostra idea di Dio non è ricavata dalla realtà, non è oggettiva, ma è invenzione della nostra mente, per quanto bella essa possa essere. Può essere anche giusta; ma non possiamo dire che rappresenta Dio, se non l’abbiamo dedotta dalla dimostrazione della sua esistenza a partire dalle cose fatte da lui.

[5] Chiesa e ateismo, in AA.VV., L’ateismo. Natura e cause, Edizioni Massimo, Milano 1981, pp.165-181.

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