Alle radici del Sinodo - Ripensiamo la verità del dogma nel mondo moderno

 

Alle radici del Sinodo

Ripensiamo la verità del dogma nel mondo moderno


Cielo e terra passeranno,

ma le mie parole non passeranno

Mt 24,35

La prima Domanda dei Cardinali

È di particolare interesse teologico la prima domanda dei Cardinali che hanno indirizzato al Papa i Dubia.

 

«Dopo le affermazioni di alcuni vescovi, che non sono state né corrette né ritrattate, si chiede se nella Chiesa la Divina Rivelazione debba essere reinterpretata secondo i cambiamenti culturali del nostro tempo e secondo la nuova visione antropologica che questi cambiamenti promuovono; oppure se la Divina Rivelazione sia vincolante per sempre, immutabile e quindi da non contraddire, secondo il dettato del Concilio Vaticano II, che a Dio che rivela è dovuta "l'obbedienza della fede" (Dei Verbum 5); che quanto è rivelato per la salvezza di tutti deve rimanere "per sempre integro" e vivo, e venire "trasmesso a tutte le generazioni" e che il progresso della comprensione non implica alcun mutamento della verità delle cose e delle parole, perché la fede è stata "trasmessa una volta per sempre" e il Magistero non è superiore alla parola di Dio, ma insegna solo ciò che è stato trasmesso».

Risposta del Santo Padre

«La risposta dipende dal significato che attribuite alla parola "reinterpretare". Se è intesa come "interpretare meglio", l'espressione è valida. In questo senso, il Concilio Vaticano II affermò che è necessario che, con il lavoro degli esegeti - e aggiungo, dei teologi - "maturi il giudizio della Chiesa" (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 12).

Pertanto, se è vero che la divina Rivelazione è immutabile e sempre vincolante, la Chiesa deve essere umile e riconoscere di non esaurire mai la sua insondabile ricchezza e di avere bisogno di crescere nella sua comprensione.

Di conseguenza, cresce anche nella comprensione di ciò che essa stessa ha affermato nel suo Magistero.

I cambiamenti culturali e le nuove sfide della storia non modificano la Rivelazione, ma possono stimolarci a esprimere meglio alcuni aspetti della sua traboccante ricchezza che offre sempre di più.

È inevitabile che ciò possa portare a una migliore espressione di alcune affermazioni passate del Magistero, ed è infatti successo così lungo la storia.

D'altra parte, è vero che il Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma è anche vero che sia i testi delle Scritture che le testimonianze della Tradizione necessitano di un'interpretazione che permetta di distinguere la loro sostanza perenne dai condizionamenti culturali. Questo è evidente, ad esempio, nei testi biblici (come Esodo 21, 20-21) e in alcuni interventi magisteriali che tolleravano la schiavitù (Cfr. Niccolò V, Bolla Dum Diversas, 1452). Non è un argomento secondario dato il suo intimo legame con la verità perenne della dignità inalienabile della persona umana. Questi testi hanno bisogno di un'interpretazione. Lo stesso vale per alcune considerazioni del Nuovo Testamento sulle donne (1 Corinzi 11, 3-10; 1 Timoteo 2, 11-14) e per altri testi delle Scritture e testimonianze della Tradizione che oggi non possono essere ripetuti così come sono.

È importante sottolineare che ciò che non può cambiare è ciò che è stato rivelato "per la salvezza di tutti" (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 7). Perciò la Chiesa deve discernere costantemente ciò che è essenziale per la salvezza e ciò che è secondario o è meno direttamente connesso a questo obiettivo.

Mi interessa ricordare ciò che San Tommaso d’Aquino affermava: «quanto ai princìpi comuni della ragione speculativa e pratica, è la stessa la verità o rettitudine da tutti ugualmente nota. Ma ciò si verifica tanto di meno, quanto più si discende nei casi particolari[1]» (Summa Theologiae, I-II, q. 94, art. 4).

Infine, una sola formulazione di una verità non potrà mai essere adeguatamente compresa se viene presentata solitaria, isolata dal ricco e armonioso contesto dell'intera Rivelazione. La "gerarchia delle verità" implica anche collocare ciascuna di esse in adeguata connessione con le verità più centrali e con l'insieme dell'insegnamento della Chiesa. Ciò può infine portare a diversi modi di esporre la stessa dottrina, anche se “a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo (Evangelii gaudium, 40). Ogni corrente teologica ha i suoi rischi, ma anche le sue opportunità.

Osservazioni alle parole del Santo Padre

La risposta del Papa avrebbe dovuto acquietare le preoccupazioni dei Cardinali, benché non sia del tutto chiara, ed anche se essa sembrerebbe di primo acchito spostare l’attenzione dal problema posto da loro, che è di carattere squisitamente ermeneutico e teoretico, al problema pastorale di come insegnare oggi il dogma.  Ma in realtà il principio di Tommaso, che egli applica a un caso pratico, può essere utilizzato anche per rispondere alla domanda dei Cardinali.

Essi infatti si domandano, evidentemente preoccupati, come sia possibile il tentativo fatto da alcuni Vescovi, evidentemente modernisti, di alterare il contenuto dei dogmi col pretesto di reinterpretarli nelle categorie della filosofia moderna, quando invece dobbiamo ricordare che, senza negare affatto un giusto progresso dogmatico, il  dovere assoluto dei sacri pastori è comunque e anzitutto  quello di conservare integro il deposito della fede, di trasmettere ciò che hanno ricevuto da Cristo per successione apostolica e di mantenere la fedeltà assoluta all’immutabile verità del dogma.

Ora è vero che il passo di San Tommaso citato dal Papa non si riferisce ad un problema di verità speculativa, ma ad un problema di comportamento pratico: «i prestiti vanno sempre restituiti?». Tommaso osserva che non si può rispondere con un sì o un no netto; dipende da chi è e se lo merita colui al quale dovremmo restituire il prestito.

Tuttavia il Papa legittimante applica il principio di San Tommaso per rispondere alla domanda, posta dai Cardinali, se dobbiamo sì o no accordare i dogmi con la filosofia moderna.  Il Papa risponde giustamente non con un semplice sì o no, data la complessità del problema, ma con un discorso articolato.

Infatti dovrebbe esser chiaro che nella filosofia moderna esistono sì valori, ma anche gravi pericoli: se per filosofia moderna intendiamo quella nata dal cogito cartesiano, che, come ha dimostrato abbondantissimamente il Padre Cornelio Fabro[2], ha condotto all’idealismo, all’immanentismo, al panteismo, allo gnosticismo, all’ateismo e al nichilismo, evidentemente il dogma non si può accordare con questo tipo di filosofia moderna, se filosofia si può chiamare o non piuttosto stoltezza.

Ma se dalla enorme e svariatissima produzione della filosofia moderna ricaviamo, con prudente discernimento, gli aspetti o spunti validi, è chiaro che in questo senso la filosofia moderna rende un ottimo servizio alla fede, alla teologia e all’evangelizzazione, per cui può e deve accordarsi col dogma ed anzi renderlo attraente e credibile per gli uomini d’oggi. Questo discorso il Papa non lo fa esplicitamente, ma lo si ricava facilmente dalla sua risposta.

È da notare che i Cardinali hanno formulato un dubbio che non poteva ricevere una risposta netta o sì o no, ma solo una risposta circostanziata come quella che si deve dare, come osserva San Tommaso, alla domanda se si deve sempre restituire un prestito.

Infatti essi in breve hanno impostato il dubbio così: si deve accogliere la filosofia moderna anche a costo di mutare il dogma o si deve conservare il dogma respingendo la filosofia moderna?  Ed è chiaro che i Cardinali si attendevano che il Papa fosse per la seconda alternativa, secondo un’impostazione antimodernista tipica del preconcilio.

Invece il Papa, erede dell’impostazione del Concilio, non si è lasciato incastrare in questa alternativa troppo semplice e in fin dei conti falsa, seguendo una linea che avrebbe potuto, per esser chiara, presentarsi in questi termini, in fondo molto semplici, ma di fondamentale importanza, che non sono altro che quello che i Papi vanno ripetendo da sessant’anni: il dovere evangelizzatore del pastore è quello di conservare il dogma confrontandolo col pensiero moderno ed assumendo da esso solo quello è compatibile col dogma, mentre ciò che è in contrasto dev’essere confutato e respinto avvertendo i fedeli del pericolo.

I Cardinali suppongono evidentemente e giustamente che ogni verità di fede è comprensibile in se stessa e da se stessa, ha un proprio senso e significato determinato, unico, univoco e preciso, indipendentemente dalle altre, senza bisogno di confrontarla con le altre, se non col preciso intento di vederne il rapporto, ma non c’è assolutamente bisogno di conoscere e capire le altre per capire il significato di quella.

La realtà concreta possiede sfumature: la pelle del volto di una donna fotografata o dal vivo, illuminato dalla luce che piove da un lato, presenta un graduale e impercettibile vario e continuo passaggio non concettualizzabile, dalle zone più illuminate a quelle in ombra.

Ma il concetto di femminilità ha una sua unità e precisione univoca, astrae dal concreto, ha caratteri propri universali, essenziali e specifici, contorni netti, orizzonte noetico ben circoscritto e invalicabile, che lo distingue, isola in se stesso  e separa specificamente da quello di mascolinità, pur entrando l’uno come l’altro concetto in quello generico, più ampio, ma anch’esso ben delimitato, di umanità, come un cerchio dentro un cerchio più ampio, dove uomo e donna sono identici e di pari dignità, pur nella diversità.

Il concetto definito, e quindi la proposizione dogmatica, per la sua unità, compattezza, solidità, stabilità, robustezza, durata ed omogeneità, si potrebbe ben comparare a un monolite o, se vogliamo, meglio, a una perla preziosa e luminosa, a un diamante, benché ovviamente, mentre qui siamo nel piano della mutevole materia, col concetto dogmatico o formula dogmatica siamo nel campo immutabile e sovratemporale dello spirito.

Se dico che Gesù è Dio, non occorre che io sappia anche che Dio è Trino, per capire che cosa vuol dire che Gesù è Dio. Semmai mi servirà per capire meglio il concetto cristiano di Dio, ma per capire cosa vuol dire che Gesù è Dio, basta che io abbia il concetto di Gesù e il concetto di Dio. Partendo da qui potrò poi indefinitamente approfondire questa divina verità confrontandola con le altre della divina rivelazione.

Una sola verità di fede può effettivamente essere formulata in modi diversi e migliori. Per esempio, dire che Cristo è una persona in due nature è una formulazione migliore e più approfondita che dire semplicemente che egli è consustanziale al Padre.

La concezione che il Papa ha del dogma, senza negare affatto la sua unità di significato, l’universalità, e l’immutabilità, ama insistere sul dogma come verità aperta alle altre verità della fede e della ragione, verità-in-relazione, aperta verso l’alto della Parola di Dio e del Mistero ineffabile, segno della sapienza sconfinata della Mente divina creatrice, più che sulla sua determinatezza identitaria ed inconfondibile, che lo differenzia dalle altre verità di fede.

Un conto è il contenuto astratto del concetto dogmatico

e un conto è la realtà viva divina significata

Il divenire dell’essere avviene in modo continuo, mentre il divenire del pensiero o del sapere avviene in modo discontinuo, per stacchi netti, per successione di rappresentazioni fisse, che sono i concetti in se stessi immutabili. Un concetto non è distinto da un altro come un ente singolare è distinto da un altro. Un concetto è differente da un altro per qualcosa e identico per altro. Un individuo reale è diverso in tutto da un altro. La bestia è differente dall’uomo dal punto di vista della specie, ossia per il fatto che la prima è irrazionale, mentre l’uomo è razionale; ma essi sono identici per il genere animale.

Due individui non sono distinti per distinzioni formali, così come l’animalità è distinta nello stesso uomo reale, dalla sua razionalità, come credeva Scoto, ma sono distinti per una distinzione reale, siano spirituali o siano materiali, a seconda che si tratti di due persone o due enti subumani.

Noi non possiamo concettualizzare l’individuo. L’animale è certo realmente distinto dall’uomo; ma in Francesco tra animalità e razionalità esiste solo una distinzione di ragione, perché Francesco è identicamente animale e razionale. In lui animalità e razionalità sono la stessa cosa, cioè Francesco.

Invece noi, anche per indicare e pensare il concreto abbiamo bisogno dell’astratto. Così come per converso dobbiamo fare attenzione a non scambiare una proposizione o un’asserzione per qualcosa di concreto. Perderemmo di vista la sua unità, la sua universalità e la sua immutabilità.

Certamente l’essenza singolare di una persona è intellegibile, perché essa possiede realmente una sua propria essenza irripetibile ed inconfondibile, ma non è per noi definibile per genere e differenza, ma solo descrivibile per concetti specifici, per segni sensibili ed immagini visive.

Hegel si è illuso di poter seguire concettualmente il procedere del divenire parlando di concetti «fluidi», che dovrebbero rappresentare il movimento negando se stessi e riaffermandosi a un livello superire. Ma in realtà egli è obbligato ad esprimere questa sua teoria in concetti e quindi siamo daccapo.

La nostra mente non è capace di rappresentare la pluralità e il movimento nel suo svolgersi. Essa ha bisogno di un oggetto fisso, stabile e immobile: l’essenza. Per rappresentare il divenire e la pluralità noi siamo quindi obbligati a produrre una molteplicità di concetti uno dopo l’altro, ognuno dei quali produce un’istantanea sul reale, come se fosse una macchina fotografica. È chiaro che l’istantanea ferma il movimento, ma non possiamo fare altrimenti.

Esiste un divenire non solo materiale, ma anche spirituale, esiste un’evoluzione dello spirito, esistono mutamenti spirituali, alterazioni, miglioramenti, peggioramenti, progressi, crescite, sviluppi, retrocessioni, involuzioni, degradazioni.

C’è un divenire sensibile un divenire intellegibile. Per cogliere il primo basta l’esperienza dei sensi, che però non riusciamo a concettualizzare e a capire intellettualmente se non astraendo l’universale dal particolare, il che è come dire che sì, cogliamo un’essenza, ma un’essenza fissa, non diveniente, qual è quella reale oggetto del nostro sapere.

Col concetto, che è un ente mentale fisso, cogliamo e rappresentiamo la fissità della cosa, non il suo divenire. Per rappresentare intellettualmente il divenire non basta un solo concetto, ma ne occorrono molti in successione, ognuno dei quali fissa o ferma un istante o un momento o una fase intellegibile e concettualizzabile del divenire.

La nostra mente è quindi come una macchina da ripresa cinematografica: riprende una serie di fotogrammi sul reale in divenire o in movimento con la differenza che, mentre la macchina ci consente mediante il filmato di vedere effettivamente il movimento in atto, così come avviene nella realtà, la nostra mente non è una macchina da proiezione, per cui essa, dopo aver concettualizzato le varie fasi del divenire come fossero momenti fissi, conserviamo la memoria del passato, descriviamo o narriamo quanto è successo e  scriviamo i racconti, i diari e i libri di storia.

Così nel campo delle verità divine rivelate la mente umana, illuminata dal Magistero della Chiesa, nel corso della storia, diacronicamente e sincronicamente, formula sempre nuove proposizioni o dogmi con i quali, in modi diversi – pensiamo alla differenza fra la teologia occidentale e quella orientale - o successivi – pensiamo alla differenza fra la teologia medioevale e quella moderna –, concepisce le medesime immutabili ed universali verità di fede.

Teniamo presente tuttavia che la differenza fra teologia medioevale e quella moderna non va intesa come differenza fra tomismo e rahnerismo, perché questo sarebbe un passaggio dall’ortodossia all’eresia, ma come passaggio fra tomismo medioevale e tomismo moderno.

Così similmente la differenza fra teologia occidentale e orientale non significa accettazione e negazione del Filioque, perché ciò sarebbe differenza fra ortodossia ed eresia, ma differenza tra modo occidentale e modo orientale  di concepire il Filioque. E così via per tutti gli altri contenuti della dogmatica.

Occorre infine distinguere modi diversi di esprimere la verità di fede ufficializzati dalla Chiesa dalle varie correnti teologiche. Qui siamo sul piano delle fallibili opinioni umane, là siamo nel campo immutabile della verità assoluta ed eterna, siamo del campo del dogma.

I teologi, benché la teologia sia una scienza e possa preparare gli enunciati del Magistero, e benché possano legittimamente e liberamente seguire diverse tendenze, progressiste o conservatrici,  che costituiscono le diverse scuole e il pluralismo teologico, formano una ricchezza per la Chiesa, possono tuttavia avere opinioni discutibili, rivedibili, correggibili e soggettive; possono contraddirsi fra loro; possono cadere nell’eresia; il dogma viceversa resta vero e coerente per sempre, identico a se stesso, sempre quello con lo stesso significato, benché sempre meglio conosciuto ed espresso, per tutto il corso della storia; non può essere opinione soggettiva, diventare eresia, essere smentito o mutato. 

Un motivo di speranza

Questo episodio dei Dubia, che ripete in qualche modo l’altro di sette anni fa, allorchè il Papa non rispose, è sintomatico di una situazione ecclesiale di frattura fra filolefevriani e filomodernisti, che però si sta sanando con un confronto aperto, senza emissari aperti e mandatari coperti.

Questa volta è motivo di grande gioia che il Papa si sia personalmente impegnato con molta serietà nel rispondere ai Dubia, per quanto mal posti, rinunciando alle battute sui «pezzi da museo» e sugli indietristi.  D’altra parte la mossa franca dei cinque Cardinali è anch’essa in fondo positiva ed utile per sanare quel doloroso contrasto tra fratelli, che dura da troppo tempo con scandalo dei buoni e perdita di credibilità della Chiesa davanti al mondo.

Da questa mossa dei Cardinali, abbiamo ormai piena contezza di ciò di cui da tempo avevamo il sospetto e cioè che i filolefevriani, e non solo i filomodernisti, hanno punti di riferimento nel Sacro Collegio. Del resto Lefebvre ebbe appoggi cardinalizi fin dai tempi del Concilio. Ecco il senso delle parole di alcune veggenti che sentii qualche decina di anni fa «Cardinali contro Cardinali».

Finora erano i Cardinali filomodernisti a mostrarsi pubblicamente. Adesso sappiamo positivamente che anche i filolefevriani hanno referenze nel Sacro Collegio. Nessuno scandalo. È meglio scoprire le carte. L’agire per interposta persona restando nell’ombra per mantenere una facciata non si addice all’onore dei Prìncipi della Chiesa, che devono avere il coraggio delle loro idee. Il dialogo filolefevriani-filomodernisti sembra essere ormai avviato e sarà certamente uno dei frutti più belli del Sinodo in corso.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 ottobre 2023


Questo episodio dei Dubia, che ripete in qualche modo l’altro di sette anni fa, allorchè il Papa non rispose, è sintomatico di una situazione ecclesiale di frattura fra filolefevriani e filomodernisti, che però si sta sanando con un confronto aperto, senza emissari aperti e mandatari coperti. 

 

Questa volta è motivo di grande gioia che il Papa si sia personalmente impegnato con molta serietà nel rispondere ai Dubia, per quanto mal posti

Immagine da: https://www.synod.va/it/news/al-via-la-xvi-assemblea-generale-ordinaria-del-sinodo-dei-vescov.html



[1] Ho riportato le parole precise di San Tommaso.

[2] Introduzione all’ateismo moderno, Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2013.

21 commenti:

  1. "Infatti essi in breve hanno impostato il dubbio così: si deve accogliere la filosofia moderna anche a costo di mutare il dogma o si deve conservare il dogma respingendo la filosofia moderna? Ed è chiaro che i Cardinali si attendevano che il Papa fosse per la seconda alternativa, secondo un’impostazione antimodernista tipica del preconcilio."

    Caro padre Cavalcoli, con tutto il rispetto (e premettendo che il suo articolo è magnifico e molto illuminante!) credo che quello che lei chiama "un’impostazione antimodernista tipica del preconcilio" sia un'espressione che merita di essere chiarita in più dettaglio.
    Se tale espressione si riferisce a un errore anti-modernista presente in molti teologi preconciliari, sono d’accordo.
    Ma se con tale espressione si intendesse riferirsi all’enciclica Pascendi di Papa Pio X, non sono d’accordo.
    È vero che Papa San Pio X, non rispondendo alle valide istanze dei modernisti, e limitandosi a condannarne gli errori, di fatto ha incoraggiato quell’approccio sbagliato. Ma penso che non si possa dire che san Pio X abbia rifiutato in massa la filosofia moderna, ma solo i suoi errori.

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    1. Caro Paolo,
      indubbiamente San Pio X, condannando il modernismo, ha condannato gli errori della filosofia moderna, ma non l’ha condannata in blocco. Semplicemente non ha messo in luce gli aspetti positivi, che viceversa sono stati illuminati soprattutto dai tomisti, che hanno anticipato il Concilio, nella prima metà del secolo scorso.

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  2. "Questo episodio dei Dubia, che ripete in qualche modo l’altro di sette anni fa... [...] Questa volta è motivo di grande gioia che il Papa si sia personalmente impegnato con molta serietà nel rispondere ai Dubia, per quanto mal posti...".

    Riguardo al suo accenno ai Dubia del 2017, quando criticase con una certa asprezza il modo scorretto e non rispettoso del carisma petrino di quella deviante “collocazione” al Romano Pontefice, caro padre Cavalcoli, quali differenze trovi nel modo di formulazione di questi Dubia del 2024, dal momento che lascia intendere anche che essi non siano stati del tutto ben formulati?

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    1. Caro Alessandro,
      nel caso dei dubia del 2017, io effettivamente mostrai un forte dispiacere per il fatto che il Papa non avesse risposto, benchè anche quei dubia non fossero bene impostati, perché, invece di avere il tono tradizionale della semplice domanda, avevano un tono quasi sospettoso nei confronti dell’ortodossia del Papa.

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  3. Caro padre Cavalcoli,
    innanzitutto desidero esprimere la mia gratitudine per un articolo così completo e ben articolato. Analoga considerazione si auspica da parte degli altri quattro Dubia, ma non oso neppure suggerire una richiesta da parte mia, sia perché conosco la loro riluttanza a essere troppo critici nei confronti del Romano Pontefice, sia a dare l'impressione di contestare tutto, o anche per lo sforzo eccessivo che un simile compito implicherebbe.
    Ma quello che voglio dirli è che sono rimasto sorpreso dall’ultimo paragrafo del suo articolo. Usa con disinvoltura il termine “lefebvriano”. Crede davvero che sia corretto definire “lefebvriani” i cardinali Walter Brandmüller, Raymond Leo Burke, Juan Sandoval Íñiguez, Robert Sarah e Joseph Zen Ze-kiun (a cui bisogna aggiungere anche Gerhard Müller, che ha manifestato il suo sostegno alla Dubia)?
    Quando sento "lefebvriani", penso a Lefebvre, ai tre vescovi della FSSPX, e al resto delle loro organizzazioni scismatiche interne, e alle centinaia di sacerdoti da loro ordinati e alle centinaia di migliaia di fedeli che hanno in il mondo. Ma sono tutti lefebvriani, cioè scismatici e sospettati di eresia.
    Si può dire lo stesso dei sei cardinali citati?
    In che senso, dunque, può essere corretto affermare che con questo Sinodo è davvero iniziato il dialogo tra lefebvriani e modernisti? Dà l'impressione che si tratti solo di una bella espressione di desideri (che condivido), ma senza nulla che la sostenga in realtà.

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    1. Caro Ross,
      usando la qualifica di lefevriano, non ho mai inteso riferirmi alla FSSPX, ma semplicemente a certe loro idee che sono in circolazione anche in tanti che non appartengono a quell’Istituto.
      Per questo motivo ho modificato nel testo le qualifiche di lefevriano e di modernista con i termini di filolefevriano e di filomodernista.
      Potrei rifarmi alle parole del Papa: “un bravo arcivescovo, Canestri, diceva che la Chiesa è come un fiume: l’importante è essere dentro il fiume. Se tu sei un po’ più al centro o più a destra o sinistra, ma dentro il fiume: questa è una varietà lecita”.
      Una distinzione terminologica che però vorrei fare è quella tra progressista e modernista: tutti e due si dichiarano per il progresso ecclesiale, solo che il primo è dentro il fiume e l’altro è fuori.
      Similmente io distinguerei tradizionalista e lefevriano o passatista o indietrista, in quanto, benchè entrambi amino la Tradizione, tuttavia il primo si trova dentro il fiume, perché intende la Tradizione non in un senso rigido, ma in un senso evolutivo, invece io considero fuori dal fiume quei tradizionalisti, i quali non accettano le dottrine nuove del Concilio.
      Per quanto riguarda il termine conservatore, esso può avere due significati. Se si tratta dello zelo per conservare il deposito della fede, essere conservatore è una virtù. Se invece per conservatore si intende uno che vuol conservare quello che non serve più, allora è evidente che conservare in questo senso è un vizio o un errore.

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    2. Grazie, Padre Cavalcoli, per la sua risposta dettagliata, sempre generosa.
      Penso che ora il suo testo (con le modifiche apportate) esprima molto meglio ciò che hai cercato di esprimere. Preciso che non ho mai avuto dubbi su ciò che lei cercavi di esprimere, ma proprio per questo il modo in cui lo avevi espresso mi ha scioccato.
      La sua conclusione è interessante, anche se forse non riesco a condividerla appieno. Comunque sia, siamo a livello di opinioni. Lei dice che ora, con questi dubia del 2023, è emerso che i filo-lefebvriani hanno dei punti di riferimento anche nel Sacro Collegio. Se questo è vero, allora lo era anche nel 2017. Dopotutto: due cardinali sono gli stessi del 2017. Nel 2017 erano 4 + Müller, ora sono 5 + Müller. Non mi sembra molto diverso.
      Ora, non vedo che se fosse vera una cosa del genere (il peso filo-lefebvriano nel Sacro Collegio) non credo che potrebbe avere la minima influenza nel Collegio, per l’enorme (apparente) forza filo-modernista negli altri cardinali.
      Anche se siamo sempre in un ambito congetturale.
      Grazie. E buona domenica.

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    3. Caro Ross,
      il sospetto che nutro da tempo è che ci siano dei filo-lefevriani nel Collegio Cardinalizio sin dalla fine del Concilio, allorchè alcuni Cardinali, come Ottaviani, Bacci e Cento rimasero molto scontenti del novus ordo e furono rimproverati da San Paolo VI.
      Indubbiamente Papa Francesco è riuscito ad avere il Collegio Cardinalizio in linea con le sue posizioni progressiste.
      Tuttavia io mi domando come hanno fatto i Lefebvriani della FSSPX, già dall’immediato postconcilio, ad essere così decisi nella loro posizione, ottenendo successi in aumento fino ad oggi, se non avessero sempre avuto un appoggio segreto, per quanto minoritario, nel Collegio Cardinalizio?
      Quello che io vorrei auspicare è che il Papa, prendendo esempio da Benedetto XVI, avesse maggior stima della galassia filo-lefevriana, che egli chiama indietrista. Infatti, senza misconoscere i suoi difetti, dobbiamo però riconoscere che essa ci ricorda dei valori che i modernisti rifiutano o dimenticano o fraintendono.

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    4. Caro Ross,
      se in passato io, davanti a certe tue considerazioni concernenti la Liturgia dei filo-lefevriani, ho interrotto il dialogo con te, ti dissi più volte che non lo facevo perché l’argomento non sia interessante o perché non volessi prendere in considerazione le tue ragioni.
      Al contrario, mi sono accorto che tu, su questo tema della Liturgia, sei più competente di me, per cui, su questo tema, sono io che ho da imparare da te.
      Tuttavia, non essendo io un liturgista, ad un certo punto ho preferito stare nel mio campo, che è quello della teologia dogmatica e della metafisica.
      È sotto questa angolatura che mi sento soprattutto in grado di dare valutazioni riguardo ai lefevriani e ai filo-lefevriani, ed è sotto questa angolatura che ho espresso quelle parole, che tu hai citato all’inizio.

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    5. Carissimo padre Cavalcoli,
      la sua risposta mi mette in imbarazzo, perché non sono affatto un esperto di liturgia, e non sogno nemmeno che lei possa imparare qualcosa da me. Se non il contrario.
      Se ultimamente mi sono preoccupato un po' delle questioni liturgiche, è perché ho voluto notare i rapporti della liturgia con la Teologia Dogmatica e Sistematica (¡del resto esiste anche una Teologia della Liturgia!).
      In questo senso, le radici da cui è nata in me questa preoccupazione di indagare la liturgia sono due:
      1. La distinzione molto netta che ho appreso da voi tra "lex orandi divina" e "lex orandi ecclesiastica o ecclesiale" e, quindi, il rapporto di questa seconda lex orandi con la lex credendi.
      2. D'altra parte, ascoltando i lefebvriani e, specificamente, il loro attuale superiore generale, ripetono continuamente che il problema non è il rito della Messa, ma che il vero problema è ecclesiale, cioè che il rito della Messa manifesta la concezione che abbiamo della Chiesa.
      Nel sollevare queste domande, vedo il rapporto tra liturgia e dogma e/o dottrina di fede. Proprio per questo cerco di discuterne con lei, che sei esperto di metafisica e dogmatica! Lungi da me il tentativo di portarvi al dialogo su questioni canoniche o pastorali. Penso che rimarrò nel loro campo, quello della Teologia Dogmatica e Sistematica.
      Mi rammarico, pertanto, di non aver potuto approfondire con lei quelle che ritengo essere delle aporie teologiche sistematiche nel Summorum pontificum (al di là delle sue aporie canoniche, pastorali e spirituali).
      D'altronde, anche riguardo a questo argomento, mi sarebbe piaciuto parlarvi di padre Tyn. Ebbene, tenendo conto che, già nel 2010 o 2011, dopo i 3 anni di "ad experimentum" di SP e la sua successiva fondazione, sono sorte polemiche e lei ha scritto articoli come quello del bennemerito padre Tomas Tyn come "tradizionalista postconciliare", con evidente intenzione di pcificare le posizioni controverse, noto in esso una certa incoerenza, bisognosa di chiarimenti, se mi permettete di sollevarla.
      Ribadisco quello che ho già detto altre volte: li considero il mio attuale maestro in filosofia e teologia, e non è da me mancarli di rispetto sollevando talvolta qualche obiezione o critica.

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    6. Caro Ross,
      sono d’accordo nel sostenere che c’è sempre un rapporto tra Liturgia e Chiesa. Direi però che questo rapporto ha due aspetti: un aspetto immutabile e un aspetto mutevole. Vale a dire che l’essenza della Chiesa e l’essenza della Liturgia sono immutabili. Tuttavia, siccome esse sono vissute nella storia, si dà una certa evoluzione, per cui l’una e l’altra, per esempio nel Medioevo non sono le stesse che nel periodo della riforma tridentina o nel periodo attuale.
      Temo che i lefevriani seguano la teoria di Amerio, il quale sosteneva che il Concilio ha mutato l’essenza della Chiesa, ma questo è assolutamente insostenibile, perché vorrebbe dire che Cristo non custodisce più la Chiesa.
      Quando si parla dell’essenza della Chiesa ci si riferisce a ciò che Cristo ha voluto per la sua Chiesa. Ora il sospettare che la Chiesa sia mutata, sarebbe come credere che non è più quella che Cristo ha voluto. Ciò a sua volta comporterebbe l’idea impensabile che Cristo, quando ha promesso alla sua Chiesa di rimanere sempre con lei, l’abbia poi abbandonata.
      E’ mai possibile che il Concilio Ecumenico Vaticano II abbia preso una decisione del genere?
      Un esempio di mutamento della natura della Chiesa l’abbiamo invece nella riforma di Lutero e per questo la Chiesa lo considera come eretico. Come Lutero ha cambiato la natura della Chiesa? Per esempio sopprimendo quasi tutti i Sacramenti oppure modificando il canone della Scrittura oppure negando alcuni dogmi.
      Se i lefevriani respingono il novus ordo, perché lo considerano filo-protestante, questo loro giudizio è collegato alla loro idea che il Concilio sia anch’esso filo-luterano. In questo senso anche qui noi vediamo come Liturgia e Chiesa sia in rapporto reciproco.
      Per quanto riguarda Padre Tyn, io l’ho denominato “tradizionalista postconciliare” per distinguerlo dai tradizionalisti preconciliari, che sono i lefevriani. Ciò implica che io distingua un tradizionalismo sano, in linea con le nuove dottrine del Concilio, da un tradizionalismo sbagliato, che è quello che il Papa chiama indietrismo, e che consiste nel tornare indietro anziché avanzare, ossia consiste nel guardare come a prospettiva da realizzare a valori del passato, che hanno esaurito la loro funzione storica, oppure a pratiche circa le quali ci siamo accorti che stavamo sbagliano, come per esempio la pena di morte.
      Invece Padre Tyn, pur rispettando pienamente le nuove dottrine del Concilio, ha sentito dal Signore come una vera e propria missione quella di recuperare valori essenziali che rischiavano di essere dimenticati, come per esempio la nota di eresia data a certe dottrine luterane e il concetto di sacrificio della Santa Messa.
      Ciò lo condusse a ricordarci le condanne fatte dalla Chiesa, non però nel puro e semplice spirito del Concilio di Trento, ma nel clima di ecumenismo avviato dal Concilio Vaticano II. Oltre a ciò fu sensibile anche al progresso teologico, precorrendo la abolizione della dottrina del limbo, che sarebbe stata approvata nel nuovo Catechismo due anni dopo la sua morte.
      Così pure, per quanto riguarda il rapporto tra il vetus ordo e il novus ordo, Padre Tyn si è adeguato pienamente alle disposizioni della Chiesa in ordine al novus ordo, mentre ha mostrato una giusta stima del vetus ordo accogliendo con impegno la richiesta da parte dei Superiori, su incarico del card. Biffi, di celebrare settimanalmente una Messa vetus ordo per la diocesi di Bologna, nella Basilica di San Domenico.
      Ha saputo unire i due riti, offrendo in sacrificio la sua vita per la sua Patria e vivendo, in esilio dalla sua Patria, la sua vita sacerdotale come domenicano teologo e filosofo, insegnando, scrivendo, predicando e testimoniando la sua fede con una vita santa e impegnandosi nello studio per approfondire e fare progredire la teologia.

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    7. Caro padre Cavalcoli,
      dopo più di una settimana torno al nostro dialogo. Sono stati dieci giorni molto impegnativi per me e volevo essere libero di rispondere con calma al suo commento, per il quale li ringrazio sinceramente.
      Premetto, come primo commento, che sono sostanzialmente d'accordo con quanto dici qui, se ho capito bene, e lo spero.
      1. A partire dal suo primo passaggio. Capisco che se c'è sempre un rapporto tra Liturgia e Chiesa, allora siamo d'accordo che non si può trattare la teologia della liturgia (e quindi le sue conseguenze nella disciplina liturgica e nella pastorale liturgica) come un compartimento stagno dell'ecclesiologia. Salvato, poi, l'aspetto immutabile o essenziale sia della Chiesa che della Liturgia, siamo anche d'accordo che, nel loro aspetto umano o mutevole, sia Chiesa che Liturgia devono avere una relazione. Pertanto, senza che l'essenza della Chiesa cambi (come Amerio credeva fosse avvenuto dopo il Concilio Vaticano II, e forse credono i lefebvriani), dobbiamo convenire che oggi non è la stessa Chiesa di cinquecento anni fa. In altre parole, mentre la Chiesa è rimasta la stessa rispetto a ciò che Cristo ha voluto da lei, la Chiesa è cambiata nel tempo. E per noi è cambiato dopo il Concilio Vaticano II e continuerà a cambiare fino alla fine dei tempi. Pertanto, dato il suddetto rapporto, la Liturgia è cambiata insieme alla Chiesa, salvando anche l'essenza della Liturgia (quella che lei talvolta avete chiamato lex orandi divina).
      2. Il rapporto Chiesa-Liturgia, sopra menzionato, è alla base dello scisma lefebvriano. Ho seguito la radicalizzazione delle loro posizioni negli ultimi anni, e loro (Pagliarani soprattutto, come loro voce guida) insistono sul fatto che il loro problema con Roma non è liturgico ma ecclesiologico. I lefebvriani rifiutano il Novus Ordo Missae proprio perché il NOM risponde a una nuova ecclesiologia, che non accettano. In questo senso, si conferma che se li sospettiamo di eresia, è proprio perché non solo rifiutano: a) il NOM come Messa valida, ma anche: b) perché rifiutano il Magistero del Concilio Vaticano II, e c) il Magistero dei Papi del post-concilio. Perché? Proprio perché a) b) e c) non fanno altro che riflettere un'altra Chiesa (nel suo mutevole aspetto umano), che non accettano. Ecco perché sono sospettati di eresia.
      Penso di non sbagliare se possiamo essere sostanzialmente d'accordo su questi primi due punti. È ora sul terzo punto che lei ed io potremmo ancora non essere d'accordo:
      3. Non ho dubbi che Benedetto XVI abbia rispettato la nuova ecclesiologia del Concilio Vaticano II e il Novus Ordo Missae come parte della Riforma liturgica promossa dal Concilio. Ritengo però che con il suo motu proprio Summorum pontificum abbia commesso: a) una grave imprudenza pastorale e disciplinare, e b) un errore sul piano teologico (che, ovviamente, non incide sul suo indefettibile magistero).

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    8. 3. Non ho dubbi che Benedetto XVI abbia rispettato la nuova ecclesiologia del Concilio Vaticano II e il Novus Ordo Missae come parte della Riforma liturgica promossa dal Concilio. Ritengo però che con il suo motu proprio Summorum pontificum abbia commesso: a) una grave imprudenza pastorale e disciplinare, e b) un errore sul piano teologico (che, ovviamente, non incide sul suo indefettibile magistero).
      a) L'imprudenza disciplinare e pastorale è facile da vedere e da dimostrare. Fino al 2007, la magnanimità e la benevolenza della Gerarchia (Papa e ogni Vescovo nella sua diocesi) verso gli addetti al Messale del 1962, si era espressa attraverso l'"indulto", disciplina mantenuta da San Paolo VI e San Giovanni Paolo II, consentendo un Messale che era stato abrogato (come lex orandi ecclesiale) nel 1969, ma che continuò ad essere consentito temporaneamente a gruppi molto limitati fino a quando non poterono accettare la Riforma liturgica del Vaticano II. Inoltre non ho dubbi che per Benedetto XVI il Messale del 1969 sia l'unica lex orandi (ecclesiale). Ma la sua imprudenza è consistita nel non rendersi conto che i "tradizionalisti" (passatisti) non l’avrebbero accettato, e avrebbero mantenuto il loro rifiuto del Messale del 1969 e del Magistero conciliare e dei Papi post-conciliari. La sua imprudenza è consistita nel non accorgersi che sarebbe venuta fuori la consapevolezza di un falso "parallelismo liturgico" tra il Messale del 1969 e quello del 1962, facendo sì che nella coscienza di molti, il Messale del 1969 (e quindi il Vaticano II e il Magistero dei Papi di il post-Concilio) era un "optional", qualcosa di superfluo, e potevano continuare ad essere cattolici come se il Concilio e la Riforma liturgica e le nuove dottrine non fossero mai esistiti. Abbandonando la disciplina dell'"indulto", concedendo tali permessi a ogni singolo sacerdote, e, peggio ancora, togliendo ai Vescovi il potere di poter disciplinare la liturgia nella loro diocesi, Benedetto XVI non si è accorto di promuovere questo falso "parallelismo".
      b) Sul piano della teologia liturgica, l'errore teologico di Benedetto XVI è stato quello di creare la falsa figura delle "due forme dello stesso rito romano", come se la Chiesa di rito romano, che di per sé necessita di un'unica lex orandi (ecclesiale) potrebbe continuare ad essere "una" con due forme rituali che rispondono (lo abbiamo già detto) a due modi di concepire la Chiesa, uno di cinquecento anni fa, e l'altro di oggi.
      Voglio chiarire una cosa: Benedetto ha approvato solo il Summorum pontificum “ad sperimentale”, per tre anni. Nel 2010 è stata effettuata un'indagine presso il Collegio Vescovile, i cui risultati sono stati contrari al mantenimento del SP. Sono però convinto che i passatisti filo-lefebvriani presenti nella Commissione Ecclesia Dei abbiano preso la mano di Benedetto, il quale, travolto dagli attacchi che provenivano dai settori modernisti, non ha avuto più la forza di prendere per mano il toro. e governare bene la Chiesa (o forse pensava che nei passatisti avrebbe acquisito maggiore forza per affrontare i modernisti, non so). Non sarebbe improbabile che attorno al 2010-2011 aleggiasse già intorno a Benedetto la possibilità concreta delle sue dimissioni.

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    9. 4) Per quanto riguarda padre Tyn, sono completamente d'accordo con tutto ciò che dici. Quando in un precedente commento ho parlato di "incoerenza", l'ho fatto rispetto al fatto che nei suoi articoli del 2010-2011 avevi citato il suo esempio di "tradizionalista post-conciliare" in modo incoerente. Per quale ragione? Semplicemente perché padre Tyn morì nel 1990, in un'epoca in cui vigeva la disciplina dell'“indulto” nei confronti del Messale del 1962. Pertanto, se padre Tyn celebrò sporadicamente con il Messale del 1962, fu perché i suoi Superiori glielo chiesero a richiesta dell'Arcivescovo di Bologna, e non altro. Perciò padre Tyn celebrò con il Messale del 1962, suppongo con la stessa intenzione della Chiesa di allora: per magnanimità e benevolenza verso coloro che ancora trovavano difficoltà ad accettare la riforma liturgica del Concilio. Di padre Tyn, conosco solo i suoi articoli e le sue opere, ma data la sua alta saggezza teologica, intuisco che se fosse vissuto nel 2007, avrebbe senza dubbio colto l'aporia teologica implicita in SP, e forse, data la sua anima di pastore, avrebbe messo in guardia dai pericoli pastorali e spirituali di mantenere viva attraverso l'uso indiscriminato del Messale del 1962 una concezione della Chiesa già superata, e, forse, avrebbe anche messo in guardia dall'irregolarità canonica ed ecclesiale del Papa che toglie a ciascun Vescovo della sua diocesi il potere di governare la liturgia. Infatti, insisto, Tyn celebrò con il Messale del 1962, su richiesta del suo Vescovo.

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    10. Caro Ross,
      il SP, a mio modo di vedere, fu troppo liberale dando facoltà ai sacerdoti di celebrare nel VO. È successo allora che i passatisti hanno approfittato slealmente di questo permesso troppo largo per opporsi al NO e rifiutare le nuove dottrine del Concilio. Su questo punto sono d’accordo che Papa Benedetto è stato imprudente.
      Ciò ha provocato lo sdegno di Papa Francesco, il quale ha promulgato il TC, che pone condizioni restrittive per la celebrazione del VO.
      Quello che a me è parso saggio in Benedetto è stata la distinzione tra la forma ordinaria (NO) e forma straordinaria (VO) del Rito della Messa.
      Per quanto riguarda la contraddizione, che lei riscontra tra questa valutazione delle due forme del Rito della Messa e l’appoggio chiaro dato dal Papa alla nuova ecclesiologia del Vaticano II, a me non pare che ci sia questa contraddizione, perché è vero che il Concilio è all’origine del NO, tuttavia Benedetto ha detto chiaramente che il VO ha un suo valore peculiare.
      Qual è il problema del VO? È il fatto che molti cattolici danno tanta importanza a questo rito da vedere con ostilità il NO, che è legato alla nuova ecclesiologia del Vaticano II. Tuttavia ci sono dei cattolici i quali sono pienamente in accordo con la nuova ecclesiologia e quindi sono in piena comunione col Papa. Tuttavia questi cattolici apprezzano il VO. Nel contempo questi cattolici accolgono le direttive di Papa Francesco. Questo concretamente, che cosa vuol dire? Che questi cattolici, nei giorni festivi vanno alla Messa NO ed eventualmente possono accedere al VO fuori dalla parrocchia e in un giorno feriale.
      D’altra parte le novità teologiche del Sacrasanctum Concilium, come tali non dicono assolutamente che il VO debba essere abolito.
      Invece è chiaro che il NO, che è nato dalla nuova ecclesiologia del Concilio Vaticano II, oggi, come dice Papa Francesco, è l’unica lex orandi ufficiale per tutti i cattolici di Rito Romano.

      Possiamo farci queste domande. I cattolici che vogliono partecipare ad una Messa VO, disponibili anche a fare dei lunghi tragitti e a disagi, perché lo fanno? Considerano per caso la Messa NO una Messa invalida, perché appunto legata al Vaticano II? Questi cattolici partecipano alla pastorale della propria parrocchia e diocesi, frequentando tutti gli altri Sacramenti in parrocchia oppure no? Se si autoescludono dalla vita della propria parrocchia, rifugiandosi nel solo rito VO, come appartengono alla Chiesa?
      Invece ci sono dei cattolici, come P. Tyn, che ammirano il VO, ne colgono la bellezza e la ricchezza teologica e culturale, ma accolgono il Vaticano II, ne sviluppano la teologia e partecipano attivamente alla vita ecclesiale della propria parrocchia e della propria diocesi, obbediscono alle direttive e alle norme liturgiche dei Pastori.
      La differenza, e quindi la contraddizione, si trova non in Benedetto, ma negli stessi cattolici, che sono i passatisti.
      Perché Papa Benedetto e P. Tyn hanno ammirato il VO, pur celebrando nel NO? Perché il VO ha alcuni elementi che creano la sacralità liturgica, come il silenzio, soprattutto alla consacrazione, la solennità della musica e del canto, delle vesti sacre, dell’arredo, delle preghiere, dei simboli, che aiutano pedagogicamente a comprendere e a vivere la Messa come Mistero del Sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo.
      Ritengo che Benedetto abbia aperto al VO nella speranza che gli elementi validi del VO potessero influire sul NO, contribuendo a fare argine a molti abusi liturgici. Forse sperava che i sacerdoti, venuti a contatto col VO, potessero poi celebrare con solennità e sacralità il NO.
      Penso anche che il problema potrebbe essere risolto se i Pastori sono zelanti nell’arginale gli abusi e gli scandali liturgici e i sacerdoti sono formati alla celebrazione nel dovuto modo, in modo da ampliare i valori del VO nel NO, completandoli tra loro.
      Forse Benedetto pensava che un ricupero dei valori del VO, e dell’ecclesiologia tridentina, avrebbe dato vitalità al NO e all’ecclesiologia del Vaticano II, frutti di due Concili complementari e non in opposizione.

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  4. Una narrazione più completa delle vicende dei Dubia dovrebbe ricordare che i Dubia dei cinque cardinali furono sollevati il ​​10 luglio. Sorprendentemente, le risposte del Papa arrivarono il giorno successivo, 11 luglio (!!!). La lettera del Papa (che è pubblicata sul sito del Dicastero della Fede) non ha però soddisfatto i cinque cardinali. Poi, il 21 agosto, hanno riformulato i loro Dubia affinché il Papa rispondesse con un sì o con un no, «per ottenere una risposta chiara fondata sulla perenne dottrina e disciplina della Chiesa». Non avendo ricevuto risposta, i cinque cardinali hanno deciso il 2 ottobre di rendere pubblici i loro Dubia. Vista tale pubblicazione da parte dei Dubia, il Dicastero della Fede ha pubblicato le risposte dell'11 luglio.

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    1. Caro Silvano,
      ringrazio per questi ragguagli riguardo le date.
      Tuttavia non ritengo di dover mutare quella valutazione che ho dato alla intera vicenda.

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  5. Caro padre Cavalcoli,
    La risposta data dal Papa è stata alla prima versione della domanda posta dai cinque cardinali.
    La risposta del Papa indica che la Chiesa "può approfondire la sua comprensione della fede". Ma i cardinali non si accontentano, perché si tratta di "questioni essenziali, e non secondarie, per la nostra salvezza, come la confessione di fede, le condizioni soggettive di accesso ai sacramenti e l'osservanza della legge morale", hanno affermato .
    Hanno quindi riformulato il loro dubium: "È possibile che la Chiesa insegni oggi dottrine contrarie a quelle che ha insegnato in precedenza in materia di fede e di morale, sia attraverso il Papa ex cathedra, sia nelle definizioni di un Concilio ecumenico, sia nella magistero ordinario universale dei vescovi sparsi nel mondo (cfr Lumen Gentium, 25)?".
    I cinque cardinali hanno espresso che: "Dopo aver analizzato la sua lettera, che non seguiva la prassi dei responsa ad dubia, abbiamo riformulato i dubia per ottenere una risposta chiara, fondata sulla perenne dottrina e disciplina della Chiesa. Con lettera del 21 agosto 2023 abbiamo sottoposto al Romano Pontefice i dubia riformulati. Ad oggi non abbiamo ricevuto risposta a questi dubia riformulati".

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    1. Caro Pierino,
      stando alle informazioni ufficiali risulta che i Cardinali hanno già ricevuto una risposta sufficiente alla prima interpellanza.
      Al riguardo possiamo osservare che i gravi problemi pastorali, posti dai Cardinali, sono attualmente in discussione al Sinodo, finito il quale attendiamo la sentenza del Santo Padre.
      Quindi ritengo che quei Cardinali non abbiano agito con piena prudenza, pretendendo che il Papa anticipi la risposta che darà alle proposte del Sinodo.
      - https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_risposta-dubia-2023.pdf
      - https://www.synod.va/it.html

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  6. Caro padre Cavalcoli: in linea con le indicazioni che ho dato prima, circa il fatto che i cinque cardinali non erano soddisfatti delle risposte del Papa, e hanno riformulato le loro domande, qui invio un recente articolo, firmato da Andrea Grillo, dove sono riprodotte le cinque nuove domande che i cardinali hanno posto, e alle quali il Papa ancora (per quanto ne so) non ha dato risposta.
    A sua volta, il suddetto teologo prova a dare cinque risposte, che intende essere in accordo con le precedenti risposte del Papa:

    https://www.cittadellaeditrice.com/munera/dubia-riformulati-e-ipotesi-di-risposta-tre-si-e-due-no/

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    1. Caro Pierino,
      conosco Grillo da alcuni anni e ho notato che, accanto a spunti interessanti, il suo pensiero ha una tendenza modernista.
      Ora, con tutta semplicità, vorrei dire che, dopo attento esame e confronto con altri teologi, mi sono già fatto una opinione su quello che, secondo me, è il vero pensiero del Santo Padre.
      D’altra parte sono in corso le discussioni del Sinodo, il quale tratta tra l’altro anche di questi argomenti.
      Allora, secondo me, la cosa più saggia da fare in questo momento, se vogliamo avere una vera certezza e fare una luce definitiva su queste ardue questioni, è bene che attendiamo la parola definitiva del Papa, che ha da Nostro Signore precisamente il compito di porre termine alle questioni per darci la soluzione definitiva.

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