Antichi e
Moderni.
Per una giusta
lettura degli scritti di Tomas Tyn.
In particolare
la sua dottrina della Giustificazione
Chi ha
dimestichezza con gli scritti del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, si sarÃ
certamente accorto di come egli, soprattutto nelle sue opere di filosofia e
teologia, faccia frequente uso di due categorie largamente adoperate dai
tomisti preconciliari e non solo da loro, ma dallo stesso Magistero della
Chiesa: gli «Antichi» e i «Moderni», guardando con ammirazione ed approvazione
agli Antichi, e invece con disapprovazione e rifiuto ai «Moderni». Che
cosa intende dire esattamente Padre Tyn con questi appellativi? Occorre fare
attenzione, perché c’è il rischio dell’equivoco, che intendo appunto dissipare
in questo articolo.
Se qualcuno
interpretasse questo linguaggio di Padre Tomas come se fosse un segno di
arretratezza o conservatorismo, sbaglierebbe di grosso e dimostrerebbe di
fraintenderlo gravemente. Se infatti osserviamo attentante, nel contesto
tyniano, a chi precisamente Tyn si riferisce, vedremo facilmente che gli
Antichi sono i massimi filosofi greci, Socrate, Platone ed Aristotele, mentre i
Moderni si assommano in quella che i discepoli di Cartesio hanno chiamato con
tanta sicumera, insistenza e purtroppo capacità persuasiva «filosofia moderna»
il sistema del loro maestro, sicchè sono riusciti ad imporre questa
denominazione agli stessi storici della filosofia, spesso cartesiani essi
stessi, sicchè oggi come oggi anche storici non cartesiani chiamano «filosofia
moderna» il cartesianismo.
Padre Tomas
assume questo linguaggio allora comune tra i tomisti degli anni del
preconcilio. Abbiamo visto chi fossero per lui Antichi e Moderni. Chi
dunque non verificasse con esattezza a chi Padre Tomas si riferiva
precisamente, potrebbe avere l’impressione di un culto feticistico per
l’Antichità , per giunta pagana; mentre l’opposizione ai moderni potrebbe
sembrare una condanna globale ed indiscriminata, per la quale la modernitÃ
appare, come si esprime S.Pio X, la «somma di tutte le eresie», senza che si
salvi la benchè minima ombra di verità .
Invece, il
linguaggio di Tyn, che, come vedremo, è del tutto innocente, si oppone a quello
che già da prima del Concilio era proprio di alcuni tomisti e che ha avuto
largo successo a partire dalla teologia postconciliare, ossia la preferenza
data ai cosiddetti «moderni», sottintendendo una forte antipatia per la
teologia scolastica, considerata superata e la simpatia per l’idealismo moderno,
secondo il modulo dei modernisti condannati da S.Pio X.
Così nella
prima metà del secolo scorso si cominciò a credere possibile non un tomismo
scolastico, come quello raccomandato dai documenti di Leone XIII fino a quelli
di Pio XII, ma un tomismo cartesiano, kantiano o hegeliano, legato al
luteranesimo, con l’idea che un tomismo siffatto potesse servire al dialogo col
pensiero moderno e all’ecumenismo.
Nel contempo,
però, restava tra i tomisti conservatori un’opposizione eccessiva alla teologia
postcartesiana e protestante. Si profilò inoltre sempre più negli anni 30-40,
soprattutto tra i Domenicani francesi, la necessità di una fedeltà a Tommaso
tale da realizzare un’assunzione critica del pensiero moderno. Sotto questo
aspetto ha molti meriti la Scuola di Le Saulchoir, dove insegnarono
Chenu, Congar e Gardeil. Questo progetto è stato poi fatto ufficialmente
proprio dall’Ordine domenicano nelle Costituzioni del 1968.
Ora, bisogna
notare che il giovane studente di teologia Tomas Tyn, Frate domenicano da pochi
anni, venne invece a sperimentare negli anni fine 60 in Germania un
tentativo di rinnovamento tomista modernista e filoprotestante nello Studio
Teologico Domenicano di Walberberg, che sarebbe stato chiuso di lì a pochi anni
per queste tendenze.
E lì Fra Tomas
ebbe come docente il Padre Otto Pesch, uscito poi dall’Ordine, il quale, sulla
base di uno studio accuratissimo sia di Tommaso che di Lutero, credeva di poter
sostenere che la dottrina luterana della giustificazione non era eretica, ma
assimilabile alla concezione tomista. Il giovane Tomas si accorse dell’inganno,
ma non riuscendo ad imporsi sull’ambiente infetto di modernismo, chiese ed
ottenne dal Maestro dell’Ordine, l’allora ottimo Padre Aniceto Fernandez, di
proseguire e terminare la sua formazione teologica nello Studio
bolognese, per addottorarsi pochi anni dopo all’Angelicum di Roma
proprio con una tesi che criticava il concetto luterano di giustificazione in
base a quello tomista.
Questo tema
della giustificazione resta fondamentale anche oggi nel dialogo ecumenico. Al
riguardo, tutti conosciamo la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della
giustificazione tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana mondiale
a cura del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei
cristiani del 1999.
Questo
documento aggiorna sugli ultimi risultati del dialogo ecumenico sull’argomento,
ma non è un testo del Magistero. È un semplice parere consultivo (“Consiglio”)
e quindi non costituisce magistero vincolante. In esso sono ribaditi i
punti dottrinali sui quali siamo d’accordo con i luterani, punti che peraltro
già il Concilio di Trento aveva notato.
Ma da parte
luterana non appare segno che le correzioni, distinzioni e precisazioni del
Concilio di Trento siano state recepite: l’esistenza del libero arbitrio, il
giustificato non è solo dichiarato giusto, ma è realmente giusto; la natura è
ferita e non totalmente corrotta, la distinzione fra il peccato e la
concupiscenza, la necessità delle opere, il merito soprannaturale, la grazia
non è esterna, ma inerente all’anima, l’incompatibilità fra lo stato di peccato
e lo stato di grazia, il dovere di ascoltare il Magistero della Chiesa.
Nei suoi
scritti sulla giustificazione, Padre Tyn espone con ampiezza e stringente
argomentazione questi punti di dottrina. A questo articolo seguirà uno stralcio
della bozza inedita della tesi di licenza in teologia di Padre Tyn presso lo
Studio bolognese, dedicata appunto al confronto fra la concezione tomista e
quella luterana della Giustificazione.
Questi scritti
di Padre Tyn hanno uno stretto rapporto con l’attività ecumenica, che non
può esaurirsi, come ordina lo stesso documento conciliare sull’ecumenismo,
nella presa d’atto dei punti in comune, ma questa presa d’atto è solo la base
il punto di partenza per far presenti ai fratelli separati quei punti di
dottrina. che essi devono accogliere, se vogliono entrare nella piena
comunione con la Chiesa Romana, che costituisce il fine ultimo dell’ecumenismo[1].
Padre Tomas
insiste in modo particolare nel sottolineare che la grazia della
giustificazione, benché lasci nella vita presente l’uomo nella sua tendenza al
peccato («concupiscenza»), conseguente alla colpa originale, toglie effettivamente
e realmente la colpa del peccato attuale, per cui l’uomo, collaborando per
mezzo della virtù morale della giustizia, ossia le buone opere, con
l’azione della grazia, viene a partecipare della stessa giustizia di Cristo, la
cui giustizia, certamente, in quanto divina, trascende la nostra; e tuttavia,
giustificati da Cristo, partecipiamo della sua stessa giustizia, che pertanto
diventa, come dice il Concilio di Trento, «inerente all’anima» (Denz.1547).
La falsa
filosofia moderna di Cartesio
Per quanto
riguarda la denominazione «filosofia moderna» per dire filosofia cartesiana,
c’è da notare che, prima del Concilio, questa ingannevole denominazione era
stata fatta propria persino dai tomisti, i quali, pertanto, apparivano od erano
presentati come avversari della «filosofia moderna», dandosi così la zappa sui
piedi col far la figura di sorpassati reazionari, nemici della «filosofia
moderna».
In realtÃ
questi tomisti combattevano l’idealismo cartesiano e i suoi derivati fino ad
Hegel e Gentile. Ma essi non si accorgevano di fare un favore agli avversari
riassumendo in essi la «filosofia moderna» e facendo così la figura di
combattere la filosofia moderna, mentre in realtà ne combattevano gli errori.
Dimenticavano
che la vera filosofia moderna, ben altra da quella inventata ad usum
Cartesii, conteneva anche dei valori. Non tenevano conto inoltre del fatto
che la modernità , come tutti i grandi fenomeni culturali, conteneva valori
accanto ad errori. Avrebbero dovuto pertanto parlare di errori della filosofia
moderna, salvandone i valori, e precisare che quella che i cartesiani chiamano
«filosofia moderna», è quella inventata da Cartesio, che non ha affatto
modernizzato, ossia fatto progredire la filosofia, ma l’ha fatta retrocedere ai
tempi della sofistica presocratica, come notò anche Heidegger, che pur non
mancava di simpatia per Cartesio.
Cartesio ha
voluto presentarsi come correttore di Aristotele, come se lo Stagirita non
avesse fondato già lui la filosofia su basi inconcusse, e fosse invece lui, Cartesio,
a donare finalmente all’umanità , dopo secoli e millenni di buio e di
incertezza, il saldo fondamento della scienza e della conoscenza.
Ma quello che è
più scandaloso in Cartesio è il fatto che egli si considerava cattolico e
allora vorremmo chiedergli, a parte il suo stolto rifiuto di Aristotele, tutto
sommato, un pagano, come ha potuto avere la presunzione di fondare finalmente
lui un sapere razionale certo e definitivo, partendo dal presupposto che fino
ad allora l’umanità non aveva raggiunto la certezza razionale, e quindi
mettendo in dubbio le certezze razionali di tutti i sapienti che lo avevano
preceduto, degli autori della Sacra Scrittura, di Gesù Cristo e degli Apostoli,
nonchè di tutto il Magistero della Chiesa fino a lui. Allora Gesù Cristo non ha
avuto una ragione salda come la sua?
Si comprende
come la Chiesa nel 1663 mise all’Indice le opere di questo grande millantatore.
Volendo mettere le cose al loro posto, potremmo chiederci che razza di
cattolicesimo è stato quello di Cartesio, nel farsi superare in fatto di
certezza razionale da un pagano come Aristotele? E come hanno potuto tanti
cattolici lasciarsi abbindolare da Cartesio, piuttosto che stare con
Aristotele, soprattutto nell’interpretazione che ne dà S.Tommaso d’Aquino? Ma Padre
Tyn non fa parte di questa schiera infinita di gnostici stolti e
presuntuosi, che sono stati la rovina dell’intelligenza filosofica moderna.
È chiaro che
Padre Tomas riconosce il progresso filosofico avvenuto con l’avvento del
cristianesimo fino a Tommaso d’Aquino. Riconosce anche il progresso avvenuto
fino ai nostri giorni grazie ai discepoli e commentatori dell’Aquinate.
Riconosce ovviamente il progresso operato dal Magistero della Chiesa nella
comprensione del deposito rivelato, fino ai documenti del Concilio Vaticano II
e al Papa allora regnante, S.Giovanni Paolo II.
«Io ho
ricostruito ciò che era distrutto» (Ez 36,36)
In ogni caso la
nota o preoccupazione predominante del pensiero di Padre Tyn non è tanto quella
progressista, non è tanto quella di far avanzare il pensiero filosofico e
teologico, quanto quella di segnalare la decadenza della filosofia e della
teologia avvenuta per l’influsso degli errori moderni e quindi di ricordare ai
nostri contemporanei, spesso frastornati da un ritorno di paganesimo, molti
grandi valori dimenticati, appartenenti non solo al mondo classico, ma anche
alla sapienza medioevale.
Padre Tomas
vuol ricondurre i suoi lettori a ritrovare ciò che è stato smarrito o perduto,
a ricostruire ciò che è stato distrutto, a rimettere in onore ciò che è stato
disprezzato, a illuminare nuovamente ciò che è stato oscurato, a ridar forma a
ciò che è stato deformato. Si nota che egli esce da un’esperienza sociale che
fu quella di una Chiesa oppressa dal regime comunista, per cui il progresso
teologico era stato bloccato e tutto quello che la Chiesa era riuscita a fare
era stato di conservare almeno i testi della produzione teologica, alla quale
si era giunti al momento dell’instaurazione del regime comunista.
Quindi a Padre
Tomas, più che far avanzare un pensiero teologico, quale quello che in Italia
aveva potuto essere prodotto nei decenni precedenti in regime di libertà della
Chiesa, dopo il Concilio, interessava riprendere le fila col lavoro teologico
interrotto con l’avvento del comunismo cinquant’anni prima; ma nel contempo si
era accorto che in Italia, col pretesto del rinnovamento conciliare, c’era il
rischio di dimenticare quel patrimonio teologico, che era stato prodotto
prima del Concilio e che la Chiesa cecoslovacca aveva gelosamente custodito e
difeso durante il regime comunista. La stessa Messa Vetus Ordo era stato
il simbolo di questa resistenza alla dittatura comunista.
Queste
considerazioni debbono servirci per spiegare l’apparenza di un certo
conservatorismo, che può dare ad uno sguardo superficiale il pensiero teologico
di Padre Tyn. In realtà egli non propone, come male alcuni hanno inteso, un
«ritorno al passato», ma semmai un ritorno alle radici, secondo la
felice espressione recentemente usata da Papa Francesco.
L’attenzione a
Padre Tyn, proveniente da ambienti lefevriani, per quanto animata da retta
intenzione, mostra che il Servo di Dio è stato frainteso e non favorisce, ma
compromette la sua fama di santità e certamente egli stesso avrebbe respinto
come inopportuna tale attenzione, ammiratore com’era delle dottrine del
Concilio e fedelissimo ai Papi del postconcilio.
È chiaro dunque
che quando Padre Tyn attacca i «moderni» e il «pensiero moderno», non si rifà a
una categoria semplicemente storico-positiva, ma si riferisce al cartesianismo
e ai suoi derivati successivi, fino al panteismo e all’ateismo tedesco dell’
‘800, fino ai nostri giorni. Ciò che Tyn chiama «moderno» sconfina quindi col
modernismo, l’idolatria del moderno, un moderno che non è vagliato dalla sana
ragione e dal Vangelo, ma che pretende di stare al di sopra della ragione e del
Vangelo.
Discorso simile
vale per gli «Antichi». Padre Tyn sa benissimo che tutti gli errori dei
filosofi moderni si trovano già negli Antichi, ma quando porta gli Antichi come
esempio e modello di sapienza, certo non pensa ai naturalisti, ai sofisti, agli
scettici, ai cinici ed agli epicurei, ma, come abbiamo detto, ai grandi saggi
come Socrate, Platone ed Aristotele e semmai anche agli stoici.
Peraltro, non
esiste effettivamente in Padre Tyn una preoccupazione di modernità . Apprezza
indubbiamente l’indagine teologica e le nuove scoperte o ipotesi della teologia
nel corso dei secoli, soprattutto l’originalità e la novità del pensiero di
Tommaso rispetto ai teologi precedenti. Ha capito ed apprezza il fatto che il
Concilio vuol far progredire la teologia. Ma Padre Tomas si rende conto che il
problema e quindi il compito più urgente ed importante del teologo di oggi non
è tanto quello di mirare a nuove scoperte, quanto piuttosto quello di
conservare e recuperare un patrimonio teologico millenario che sta
periclitando, per il luccichìo del moderno sotto il miraggio di chissaquale
palingenesi della teologia messa in giro dal rinato modernismo postconciliare.
Padre Tomas ha
un fiuto speciale nello svelare l’inganno modernistico, evoluzionistico e
storicistico di quei teologi, da lui chiamati «teologastri», i quali col
pretesto del progresso, cambiano il senso dei dogmi o relativizzano i princìpi
della teologia, della metafisica, dell’antropologia e della morale.
Nessun
progresso si costruisce se le basi non sono solide. Non si avanza nella veritÃ
se non si è fondati nella verità . C’è un passato morto, che non può e non deve
tornare. E c’è un passato che, per la sua carica di vita e la sua potenzialitÃ
di sviluppo, di rinnovamento e di progresso, è garanzia del futuro.
Quest’ultimo è il passato caro a Padre Tyn.
Testo di
Tomas Tyn[1]
L’AZIONE
DIVINA NELLA GIUSTIFICAZIONE
Introduzione
Tommaso, prima di
affrontare il tema dell’azione divina per mezzo dell’infusione della grazia, si
chiede se la giustificazione è la remissione dei peccati, mettendo così in
risalto il legame esistente tra la giustificazione e il peccato dell’uomo. Ora,
questa disposizione della materia del trattato ha due motivi. Il primo e più ovvio è quello di far
precedere il trattato nel suo insieme dalla definizione del suo oggetto: in
questo caso, dalla definizione della giustificazione. Infatti, il Santo
Dottore, rispondendo alla domanda se la giustificazione sia la remissione dei
peccati, si sforza di definire appunto quel che è la giustificazione in se
stessa e nel concreto della storia della salvezza secondo i diversi stati in
cui l’uomo si trova davanti al suo Dio. Ma oltre all’esigenza di premettere una
definizione al trattato vero e proprio vi è un altro motivo, che traspare dal modo in cui viene posta la domanda.
Chiedere se la giustificazione è remissione dei peccati vuol dire mettere a
confronto queste due realtà così da far apparire il legame che vi è tra di
loro.
Ora, la remissione dei peccati è un effetto dell’azione salvifica
di Dio nella giustificazione del peccatore e, siccome la distruzione della
forma precedente è prima della generazione della forma susseguente in un
soggetto, secondo l’ordine della causa dispositiva, che è l’ordine più vicino
al nostro modo di conoscere fondato sull’esperienza, per conseguenza è giusto
far precedere la questione riguardante l’infusione della grazia dalla
considerazione di un’eventuale remissione dei peccati nell’ambito della stessa
giustificazione.
Ma la remissione dei peccati a sua volta è un effetto della grazia
divina infusa nell’anima, anzi l’ultimo effetto, al quale termina la
giustificazione secondo l’ordine della causalità efficiente, finale e formale.
Proprio per questo ritornerà ancora un’altra volta sotto un’angolatura diversa
la questione se della remissione dei peccati fa parte della giustificazione
dopo la considerazione dell’infusione della grazia e del moto del libero
arbitrio[2].
La giustificazione è la remissione
dei peccati in quanto ogni moto è denominato dal suo termine ad quem e la remissione dei peccati a
sua volta fa parte della
giustificazione in quanto il termine di un moto fa parte del moto stesso.
Seguendo quest’ordine ci chiederemo
prima quale sia il legame tra la giustificazione e il peccato dell’uomo, per
poi considerare quell’azione divina che è la causa della giustificazione, tra
gli effetti della quale rientra poi a sua volta la remissione dei peccati.
La
grazia di Dio e il peccato dell’uomo nella giustificazione.
Dio Può conferire la grazia giustificante con il suo effetto, che
è la giustizia soprannaturale anche ad un uomo che non ha mai commesso un
peccato, sempre però in modo tale da escludere il peccato. La grazia e la
giustizia, la santità e la novità della vita secondo lo Spirito escludono
infatti il peccato come il loro contrario e quindi anche nell’ipotesi di una
giustificazione senza peccato previo, la grazia sarebbe conferita con
l’esclusione del peccato. Ma in questo caso la giustizia sarebbe prodotta
nell’anima non a modo di un moto dal contrario al contrario, ma secondo
l’analogia di una generazione che è dalla privazione della forma alla forma
stessa.
Una tale giustificazione rimane però soltanto ipotetica, ipotesi
del tutto legittima, anzi necessaria per capire la sovrana libertà di Dio nel
conferimento della grazia giustificante, ma sempre soltanto un’ipotesi. Di
fatto la giustificazione è stata preceduta dal peccato ed è quindi per la
remissione dei peccati che l’uomo diventa partecipe della giustizia nello stato
presente dell’economia della salvezza.
La giustizia originale di Adamo escludeva il peccato, ma gli fu
data nella creazione senza un peccato
previo, da cui avrebbe dovuto essere liberato, come una forma presente nella
sua anima; e se non avesse peccato, Dio avrebbe potuto congiungerlo a Sè come
fine ultimo soprannaturale della vita umana in un modo perfetto, senza doverlo
prima salvare dal peccato secondo un modo conosciuto solo dalla sapienza
divina. Di fatto le cose sono andate diversamente.
L’uomo ha peccato e ha perso la giustizia in cui è stato creato,
ma oltre alla giustizia persa vi è in lui anche qualcosa di reale opposto alla
giustizia, opposto al suo ordine a Dio come fine ultimo, ossia la colpa del
peccato, la quale, pur essendo in se stessa una mera privazione, è rispetto
all’atto umano in cui si trova qualcosa di reale e di permanente, come un
continuo essere distolti da Dio. Se la grazia giustificante si oppone per
natura sua al peccato, è necessario che l’uomo, diventando partecipe per libera
donazione divina del dono soprannaturale della giustizia, sia liberato allo stesso
tempo dal peccato. Infatti è impossibile che una forma perfezioni il soggetto
se non viene distrutta la forma precedente che vi si oppone. Nello stato
presente in cui l’uomo si trova rispetto alla sua salvezza la giustificazione
avviene sempre con la remissione del peccato come moto dal peccato alla
giustizia, ossia come moto da un termine contrario ad un altro.
Ed è proprio in questo stato che
l’uomo ha un bisogno particolare della mediazione di Cristo Salvatore per
essere erede di Dio. L’attento esame della Sacra Scrittura infatti ci
suggerisce uno stretto legame tra la missione di Cristo e il peccato dell’uomo.
Prima di tutto occorre perciò esaminare il rapporto tra il peccato e la giustificazione
nella presente economia della salvezza.
Poi, dopo aver constatato il ruolo
del peccato nella storia della salvezza e in modo particolare nello stato
presente, per meglio valutare l’importanza della remissione dei peccati nel
processo della giustificazione, sarà opportuno esaminare che cosa sia il
peccato in se stesso. Da parte dell’oggetto si può dire che il peccato è un
male e in questo senso una privazione del bene. In modo particolare è un male
morale, che consiste nella privazione del dovuto ordine alla legge morale. Da
parte del soggetto si tratta di un atto umano per mezzo del quale l’uomo
sceglie un bene particolare al di là [3]
o addirittura contro il bene sommo ed universale. Sarà quindi necessario vedere
nel peccato dell’uomo i suoi due aspetti fondamentali – l’avversione da Dio[4],
fine ultimo, e la conversione disordinata ai beni finiti e particolari.
Il
peccato è una realtà estremamente complessa e ricca di significato, perché in
esso si ripercuote la stessa complessità del rapporto della persona umana con
il suo Dio. Sarà quindi utile determinare bene quale sia la differenza tra il
peccato originale, dal quale Cristo ci ha principalmente liberati nella sua
Incarnazione, e il peccato personale, in cui sarà necessario distinguere tra la
colpa e la pena dovuta per essa. Inoltre i peccati si diversificano secondo la
loro gravità perché non tutti i beni finiti sono ugualmente opposti alla scelta
del fine ultimo soprannaturale e non sempre l’adesione a tali beni è ugualmente
disordinata dalla parte del peccatore.
Dopo la considerazione del peccato nella giustificazione,
bisognerà inquadrarlo in un modo più ampio, ossia nel progetto della
provvidenza divina, mettendo in risalto come Dio vuole la salvezza di tutti gli
uomini, ma vuole anche permettere l’esistenza del peccato per un bene maggiore
dell’universo. Infine occorre esaminare attentamente la liberazione dal peccato
nella giustificazione, così come avviene nell’agire concreto di Dio verso gli
uomini per mezzo della grazia e della conversione dell’uomo a Dio.
La
giustificazione e il peccato.
Nell’economia presente
della salvezza la giustificazione si identifica con la remissione dei peccati o
è almeno sempre accompagnata da essa. Vediamo ora il legame tra la
giustificazione e il peccato, da cui essa ci libera riassumendo l’insegnamento
di San Tommaso nelle sue tesi principali.
La
giustificazione ha il suo nome dalla giustizia che ordina l’uomo a Dio.
Per indicare la funzione della remissione dei peccati nel processo
della giustificazione S. Tommaso definisce prima la stessa giustificazione. In
genere si può dire che la giustificazione racchiude nella sua stessa essenza un
moto verso la giustizia: “iustificatio de sui ratione importat motum ad
iustitiam”[5].
Si può distinguere la giustificazione attiva, cioè lo stesso atto con cui Dio
conferisce la giustizia, dalla giustificazione passiva, che è il risultato,
l’effetto di una tale azione divina nell’uomo.
Ed è in questo secondo senso che la giustificazione significa il moto
della giustizia, come la “calefactio” è un moto verso il calore.[6]
L’esempio scelto da S.Tommaso mette in risalto la somiglianza
etimologica delle due parole “iustificare” (iustum
facere) e “calefacere” (calidum
facere). In entrambi i casi si tratta di un moto verso un termine preciso e
la denominazione avviene proprio da questo termine che specifica il moto. Nella
stessa giustificazione passive accepta
il Santo Dottore distingue ulteriormente due altri significati: “iustificari”
come giustificazione in fieri e
“iustificatum esse” come giustificazione in
facto esse. Nella prima accezione la giustificazione dice il moto verso la giustizia; nella
seconda invece indica l’effetto formale della stessa giustizia[7].
La passio che è il costitutivo
formale dell’effetto come effetto è quindi questo “essere giustificati”, che si
predica passivamente del soggetto umano. Il moto della giustificazione termina
alla giustizia come al suo termine, il quale è a sua volta la causa formale
dell’essere giustificati, come la bianchezza è la causa formale della parete
bianca[8].
La giustificazione può essere perciò sia il moto verso la
giustizia, sia il suo effetto e la giustizia a sua volta può essere sia il
termine della giustificazione, intesa come moto, sia la sua causa, se per
giustificazione si intende l’essere giustificati. La giustificazione come moto
porta alla giustizia come al suo termine e questa a sua volta è all’origine
della ricezione passiva della giustificazione nel suo soggetto.
In ogni caso la giustificazione assume il suo nome dalla
giustizia, che ne è il termine in linea di causalità efficiente e la causa in
linea di causalità formale. Il moto si denomina infatti dal suo termine e
l’azione dalla forma che ne è l’origine. L’oggetto specifica gli atti, gli
abiti e le potenze e siccome il moto è ordinato all’oggetto come al suo fine e perciò
l’oggetto ne è il termine e l’effetto, si può dire che ogni moto è specificato
dal suo termine ed è per conseguenza giusto che assuma il suo nome dallo stesso
termine. Così la giustificazione come
moto verso la giustizia trae il suo nome dalla stessa giustizia che ne è il
termine.
Ora, la giustizia si può intendere
in diversi modi. Si dice prima di tutto della rettitudine negli atti umani e
così si parla della giustizia come di una virtù particolare, che regola i
rapporti tra i singoli uomini. Vi è poi una giustizia più generale, che si
estende anche agli atti di altre virtù, ma sempre in un modo tale che li ordina
al bene comune della società . In questo senso si parla della giustizia legale[9].
Ma si può parlare della giustizia in un senso non proprio, ma metaforico,
quando l’ordine retto che è della stessa natura della giustizia, non riguarda
l’uguaglianza tra ciò che è dovuto ai singoli né il rapporto al bene comune
della società , ma la disposizione
interiore dell’uomo stesso.
Questa giustizia è detta
“metaforica”, perché nel suo significato proprio la giustizia comprende
essenzialmente l’alterità cioè il rapporto ad
alterum e questo non è il caso quando si dice “giustizia” volendo indicare la
rettitudine dell’ordine nella disposizione interiore di un uomo[10].
I tre modi di parlare della giustizia si distinguono tra di loro secondo un
diverso grado di universalità . La giustizia intesa come virtù speciale riguarda
gli scambi e le distribuzioni dei beni comunicabili necessari per la vita e
questo è il modo più concreto e particolare di parlare di “giustizia”.
La
giustizia legale invece riguarda generalmente ogni virtù dirigente l’atto al
bene comune, secondo le direttive della legge. Anche la giustizia che consiste
nella rettitudine della disposizione interna dell’uomo riguarda generalmente
tutte le virtù, perchè esige la subordinazione delle singole parti dell’uomo
tra di loro e di tutte insieme rispetto a Dio, ragion per cui si chiama “metaforica”,
perché le singole parti dell’anima umana e dell’essere umano in genere sono
considerate metaforicamente, cioè in un senso non proprio, come delle persone
diverse che sono tra di loro in rapporti di giustizia.
Ma l’universalità della giustizia legale
è diversa da quella “metaforica”: la prima infatti riguarda le virtù nel loro
insieme come un tutto universale; la
seconda invece comprende generalmente tutte le virtù come un tutto integrale. Nel primo caso le virtù sono quasi tutte delle “specie”
di giustizia intesa come il loro “genere” lontano; nel secondo caso invece la
giustizia consiste nell’insieme delle virtù considerate come sue parti
integrali[11].
La giustizia legale comprende le virtù come un tutto potenziale
univoco, mentre la giustizia “metaforica” è rispetto alle virtù un tutto
attuale quasi-integrale[12].
Le parti integrali nel senso proprio sono quantificabili (ad esempio una casa è
fatta dal tetto, dalle mura, dalle fondamenta, ecc.) e quindi si dicono di un
tutto composto da parti materiali, mentre le virtù sono una realtà spirituale,
morale, ma anche loro sono in qualche modo “quantificabili”, in quanto si
distinguono tra di loro e si possono enumerare come parti di un tutto.
Così, precisando il termine “giustizia”, risulta più precisa anche
la definizione della giustificazione, la quale si deve intendere come moto
verso quella giustizia che consiste nella retta disposizione dell’ordine
interiore dell’uomo e si chiama “giustizia” non nel senso proprio (perché non
implica una relazione ad alterum),
bensì nel senso metaforico (perché le singole parti della persona umana
ordinate dalla “giustizia” si possono considerare quasi come delle persone
separate, a se stanti, capaci di entrare in rapporti reciproci di alterità e
quindi in questo senso di “giustizia” ).
San Tommaso considera questa
giustizia come opposta al peccato, in quanto il peccato la distrugge, mentre la
grazia la restaura; con il peccato perdiamo la “giustizia”; con la grazia
invece la riacquistiamo. Ora, in un
certo senso, tutte le accezioni della giustizia si oppongono al peccato, ma
diversamente e per conseguenza non si distinguono tra di loro solo secondo la
loro natura e secondo la loro universalità rispetto alla virtù, ma secondo la loro contrarietà rispetto al
peccato. La giustizia, intesa come virtù speciale non si oppone ad ogni
peccato, ma solo a quei peccati che si oppongono al bene specifico di questa
virtù, cioè i peccati riguardanti gli scambi e le distribuzioni dei beni
esterni, come può essere un furto, una rapina o qualcosa di simile.
La giustizia legale invece non è una
virtù speciale, ma è in qualche modo ogni virtù e ogni virtù è a sua volta in
qualche modo nel genere della giustizia. La giustizia però, intesa come
giustizia legale, non riguarda ogni atto di virtù, ma solo quell’atto che è
ordinabile al bene comune, in quanto tale (e non sotto un altro eventuale
aspetto). Una virtù infatti appartiene alla giustizia legale, se ordina il suo
atto al bene comune secondo la legge e per conseguenza ogni virtù appartiene
alla giustizia legale, perché ogni virtù ha degli atti ordinabili al bene
comune, ma ciò che vale di ogni virtù presa globalmente, non necessariamente
vale di ogni suo atto: vi potrebbero infatti essere degli atti non direttamente
ordinabili al bene comune di una società .
Vi sono quindi dei peccati che non
si oppongono alla giustizia legale, perché vi sono degli atti virtuosi non
ordinabili al bene comune e un peccato contro tale atto non si oppone alla
giustizia legale, anche se vi si oppone sempre un abito vizioso opposto ad una
determinata virtù presa nel suo insieme. Infine la giustizia significa uno
stato proprio in cui si trova l’uomo secondo l’ordine dovuto rispetto a Dio,
rispetto al prossimo e rispetto a se stesso. Un tale ordine implica la perfetta
subordinazione delle singole parti dell’uomo tra di loro e rispetto a Dio e per
conseguenza esige la presenza di tutte le virtù con tutti i loro atti. Ogni
singolo peccato infatti distruggerebbe questo ordine della disposizione
interiore e perciò solo la giustizia
metaforica si oppone ad ogni singolo peccato[13].
La giustizia, dalla quale la giustificazione trae il suo nome come
dal suo termine, è per conseguenza la giustizia metaforica, cioè quella che
consiste nel retto ordine interiore dell’uomo in se stesso e davanti a Dio. Una
tale giustizia comprende in sè tutte le virtù e quindi non è una virtù speciale
come la giustizia particolare, né riguarda l’ordine delle virtù e dei loro atti
al bene comune come la giustizia legale, ma si riferisce a tutte le virtù in
quanto l’insieme delle virtù è richiesto per una retta disposizione interiore
dell’uomo.
E’ proprio per questo che l’osservanza dei comandamenti della
legge rientra nella ragione della giustificazione. E’ infatti giusto che l’uomo
obbedisca a Dio come al suo legislatore supremo e quindi è impossibile
conservare il retto ordine a Dio, se non si vuole allo stesso tempo osservare
la sua legge, espressione della sua volontà . Perciò è giusto osservare la legge
di Dio. Inoltre i comandamenti, i precetti della legge, comandano gli atti
della virtù, i quali sono tutti richiesti secondo le circostanze opportune per
essere rettamente ordinati rispetto a Dio, al prossimo e a se stessi.
Perciò può avere la retta disposizione interiore ed essere così
“giusto” solo colui che osserva la legge morale, perché è giusto che tutte le
parti dell’uomo siano ordinate secondo la ragione conformandosi così alle
virtù. Infatti la retta vita morale non è nient’altro che esse secundum rationem[14].
Così la giustizia metaforica, alla quale termina il moto della giustificazione,
comprende tutte le virtù come un tutto integrale, cosicchè nessuna può mancare
né presa globalmente come abito, né rispetto ai suoi singoli atti (i quali
ovviamente sono richiesti solo secondo le circostanze particolari in cui ci si
trova) .
La giustizia metaforica,
comprendendo in sé tutte le virtù, esclude il peccato. Infatti ogni peccato si
oppone al bene di qualche virtù e per conseguenza anche alla giustizia che
consiste nel retto ordine della disposizione interiore, in quanto un tale
ordine implica i beni di tutte le virtù e viene meno se si distrugge un
qualsiasi bene particolare di una virtù speciale: bonum ex causa integra, malum ex quocumque defectu. Così ogni
peccato si oppone alla giustizia metaforica, perché ogni peccato distrugge
qualcosa del suo ordine[15].
La
giustificazione termina quindi ad una giustizia, la cui natura esclude per se
stessa ogni peccato e perciò la giustificazione consegue il suo termine solo in
un soggetto privo di peccato, sia perché il peccato vi è semplicemente assente,
sia perché la stessa giustificazione lo distrugge ed è in questo senso che la
giustificazione è una remissione del
peccato. Per conseguenza la giustizia legale non può essere il termine
della giustificazione, perché non si oppone ad ogni peccato, ma solo a quei
peccati che sono contrari all’ordine di un atto virtuoso al bene comune di una
società [16].
La giustizia generale intesa come
giustizia metaforica consiste invece nella retta disposizione interiore
dell’uomo e quindi in un perfetto ordine delle potenze dell’anima conforme ai
dettami della ragione. Ora, un tale ordine tra le potenze dell’anima suppone un
ordine interno delle potenze stesse e perciò la giustizia interiore suppone
tutte le potenze dell’anima ordinate dalle rispettive virtù, da tutte le virtù prese insieme a modo di
un tutto integrale. A una tale giustizia si oppone ogni peccato, anche minimo,
direttamente e immediatamente[17].
La giustizia che è il termine della giustificazione è quindi quella che
consiste nel retto ordine interiore, e per conseguenza esclude immediatamente,
per natura sua, ogni peccato. La giustificazione che mira ad una tale giustizia
non può essere senza la remissione dei peccati in un soggetto, in cui si
suppone un peccato previo.
Il termine della giustificazione,
che è remissione dei peccati in un soggetto nel quale il peccato ha preceduto
la giustizia, consiste direttamente nella giustizia e solo indirettamente nella
grazia e nella carità , perché la giustizia, che è l’ordine delle potenze
dell’anima perfezionate in se stesse e tra di loro da tutte le virtù nel loro insieme,
si oppone direttamente e immediatamente
ad ogni peccato.
E’ ovvio che ogni peccato si oppone in qualche modo (diversamente
secondo la sua gravità ) anche alla grazia e alla carità , ma prima ancora si
oppone alla giustizia intesa come rettitudine interiore dell’uomo. Il diverso
modo di opporsi al peccato per quanto riguarda da una parte la giustizia e
dall’altra la grazia con la carità , appare dalla diversità dei rispettivi
soggetti. La grazia è nell’essenza dell’anima, mentre la giustizia è l’insieme
delle virtù che sono nelle singole potenze dell’anima come nel loro soggetto.
Il peccato distrugge prima l’ordine delle potenze perfezionate
dalle virtù e cioè la giustizia e poi, conseguentemente, anche la grazia che è
nell’essenza dell’anima e dalla quale provengono le virtù come le singole
potenze emanano dall’essenza dell’anima. Tra le potenze dell’anima ha un posto
privilegiato la volontà , la quale muove le altre potenze conferendo a loro in
un qualche modo la rettitudine.
La causa più remota della giustizia è la grazia, dalla quale
proviene l’insieme delle virtù; la causa più vicina ne è la carità , la quale a
sua volta ordina perfettamente la volontà al suo fine, rettificando così anche
le altre potenze mosse dalla volontà (perciò la carità costituisce il “vincolo
della perfezione”, nel quale sono connesse tutte le virtù soprannaturali tra di
loro).
Ne risulta l’ordine perfetto tra le potenze dell’anima, nel quale
consiste formalmente quella giustizia che è il termine della giustificazione.
Se però si prende la giustificazione nel senso della ricezione passiva della
giustizia nel soggetto giustificato, allora la giustizia è la causa formale
dell’essere giustificato. L’essere giustificato ha per conseguenza le seguenti
cause secondo questo ordine: la grazia, la carità e la giustizia. La giustizia
è per conseguenza la causa formale prossima della giustificazione intesa come
essere giustificati e la grazia con la carità sono le cause della causa
prossima che è la giustizia. Siccome però ogni realtà desume il suo nome dalla
sua causa prossima, anche la giustificazione, sia come moto, sia come termine
del moto, si denomina dalla sua causa formale prossima che è la giustizia[18].
La giustificazione come moto raggiunge come suo termine prossimo
la giustizia e poi la carità e la
grazia; la giustificazione nel senso dell’essere giustificato è il costitutivo
formale del termine del moto della giustificazione ed è causata prima e più
immediatamente dalla giustizia, poi dalla carità e dalla grazia, come dalle
cause della sua causa prossima.
Secondo San Tommaso la
giustificazione è:
a)
moto verso la giustizia,
la carità , la grazia; ed è anche
b)
l’effetto della grazia, della carità , della giustizia.
Così il termine prossimo della giustificazione come moto è la
giustizia e la sua causa formale prossima è ancora la giustizia. Perciò la
giustificazione, sia come moto, sia come costitutivo formale dell’effetto, si
denomina sempre dalla giustizia metaforica, che ne è rispettivamente il termine
prossimo e la causa formale prossima. Il peccato, opponendosi immediatamente al
bene proprio di ogni singola virtù, si oppone prima alla giustizia e poi alla
carità e alla grazia che ne sono le cause.
Così anche nella remissione del peccato agisce prima la grazia e
la carità come cause più remote e la giustizia come causa prossima della
remissione[19].
La carità ha un posto privilegiato tra le virtù, essendone il vertice, la forma
e il vincolo di connessione; perciò è coestensiva con la grazia e come la
grazia, si oppone ad ogni peccato. Nondimeno non si deve dimenticare che la
carità è una virtù speciale, con il suo fine proprio e distinto da quello delle
altre virtù. Il suo compito specifico è quello di ordinare la volontà umana a
Dio e quindi, anche se raggiunge in qualche modo le altre virtù, questo suo
influsso sulle altre virtù sarà sempre indiretto.
Nel processo della giustificazione svolgono un ruolo particolare
quelle virtù che ordinano le più alte potenze dell’anima umana, cioè
l’intelletto e la volontà a Dio, come al suo fine ultimo, dal quale l’uomo si è
allontanato nel suo peccato e per conseguenza la fede e la carità avranno un
compito di prim’ordine nella distruzione del peccato per mezzo della
giustificazione. Ma si tratta sempre di virtù particolari che raggiungono le
altre virtù solo indirettamente; mentre
la giustizia che è il termine della giustificazione comprende in sé
direttamente tutte le virtù[20].
Per conseguenza anche la fede e la carità rientrano nell’effetto
della giustificazione, ma solo indirettamente. La giustizia invece ne è
l’effetto diretto ed immediato. Ancora una volta San Tommaso rivela il suo
senso acuto per la proprietà , specificità e particolarità delle singole virtù.
La carità può connettere le virtù tra di loro informandole e portandole alla
perfezione, ma lo può fare solo come distinta da loro e quindi come una virtù
speciale con un suo oggetto specifico proprio.
La vita morale si presenta così e come un’unità e come una
diversità . Le virtù sono ordinate tra di loro, ma rimangono distinte (una
riduzione della vita morale ad un’unica potenza operativa fondamentale come
nello stoicismo o delle virtù alla carità come nell’agostinismo estremo è del
tutto aliena dalla mentalità di San Tommaso.
La giustizia, che è il termine prossimo e la causa formale
prossima della giustificazione comprende quindi tutte le virtù e si oppone ad
ogni singolo peccato. Questa opposizione al peccato esclude dal soggetto della
giustificazione la presenza del peccato. Ora, il peccato può essere assente nel
soggetto sia semplicemente in un uomo che non ha mai peccato, sia il peccato una
realtà presente, ma distrutta in seguito alla giustizia di cui il soggetto
diventa partecipe nella giustificazione.
Di per sè la giustificazione non dice direttamente remissione di
peccati, ma solo assenza ed esclusione di peccati. Nel caso però di un uomo
affetto dal peccato, la giustificazione comporta sempre la remissione del
peccato precedente. Per spiegare questa distinzione San Tommaso sottolinea la
natura della giustificazione come quella di un moto verso la giustizia. Ora, il
moto può essere inteso in una duplice maniera: sia come una semplice
generazione, che dalla privazione di una forma arriva alla forma stessa, sia
come un moto che procede da un termine
opposto all’altro che gli
è contrario[21].
Così la giustificazione si può
realizzare sia come semplice ricezione della giustizia in un uomo che non ha
peccato e allora il moto sarà dalla privazione[22]
alla forma. Così Adamo privo e della giustizia[23]
e del peccato, ha ricevuto la giustizia con l’esclusione del peccato, ma senza
la remissione del peccato, perché solo un peccato realmente presente può essere
distrutto, cioè rimesso.
La
giustificazione però si può realizzare anche come un passaggio da una forma ad
un’altra che è contraria rispetto a quella precedente, così che la generazione
della seconda forma implica necessariamente la distruzione della forma
precedente (generatio unius est corruptio
alterius) e questo è il modo in cui il peccatore riceve la giustizia.
Infatti,
affinché il peccatore possa essere giustificato arrivando così alla giustizia
come al termine ad quem, deve prima
essere liberato dal peccato e staccarsi da lui come dal termine a quo. La giustificazione del peccatore non è mai senza la distruzione e la
remissione del peccato. La remissione del peccato però è accidentale
rispetto alla natura della giustificazione, la quale per se si limita solo ad escludere (quocumque modo) il peccato.
Di diritto si potrebbe
parlare della giustificazione anche senza la remissione del peccato; di fatto invece, dato il peccato sia
originale sia personale presente nell’uomo secondo il suo stato attuale, si può
parlare della giustificazione solo come di un
moto dal peccato alla giustizia, in modo tale che essa comprenda sempre e
necessariamente la remissione dei peccati.
La
giustificazione, che di natura sua esclude il peccato, in un modo particolare
si collega con il peccato come col suo opposto nello stato attuale dell’uomo
peccatore, il quale ha bisogno della giustizia non solo per essere congiunto
con Dio, ma anche per ottenere il perdono del peccato tornando al suo Padre
celeste, dal quale si è allontanato.
Il diverso
modo di parlare di “giustizia”.
La giustificazione come moto verso la giustizia, assume il suo
nome dal suo termine, che è la stessa giustizia e non solo ne assume il nome,
ma ne è anche specificata. Ora, per capire bene la natura di una cosa bisogna
considerarne la natura specifica, che si esprime nella definizione. Perciò, per
poter definire esattamente la giustificazione e capire il significato della
stessa definizione, occorre esaminare con attenzione quella giustizia che ne è
il termine specificante.
La giustizia che è il termine della giustificazione indica una
certa rettitudine che è essenziale ad ogni giustizia, ma la rettitudine si può
intendere sia dell’atto dell’uomo, tanto quello ordinato ad un altro uomo
singolo, quanto quello ordinato al bene comune della società , sia dell’ordine
nella disposizione interna dell’uomo. La giustizia propriamente detta è quella
che significa la rettitudine dell’atto umano rispetto agli altri, sia ad una
persona singola (giustizia particolare), sia ad una società (giustizia legale);
la giustizia nel senso metaforico (non proprio) significa invece la
disposizione interna dell’uomo. Ed è solo in questo senso che la giustizia è
termine della giustificazione.
Schematicamente ne risulta la seguente divisione:
GIUSTIZIA:
|
- in quanto
comprende un ordine retto nello stesso atto umano:
-
giustizia particolare: ordina l’atto
dell’uomo secondo la rettitudine nei riguardi di un altro uomo singolo
-
giustizia legale: ordina l’atto dell’uomo
secondo la rettitudine rispetto al bene comune
- in quanto
comprende una certa rettitudine dell’ordine nella stessa disposizione interna
dell’uomo: in quanto cioè la parte suprema dell’uomo è sottomessa a Dio e le
forze inferiori dell’anima sono sottomesse a quella suprema, cioè alla
ragione (giustizia metaforica).
|
La divisione principale della giustizia secondo i diversi
significati è per conseguenza quella in giustizia particolare, giustizia legale
e giustizia cosiddetta “metaforicamente”. Quest’ultima non regola gli atti
particolari né di una virtù speciale, né di tutte le virtù sotto un determinato
aspetto, ma consiste nella rettitudine interiore dell’anima umana ben disposta
secondo la perfezione di tutte le virtù.[24]
Il diverso modo di parlare della giustizia appare di nuovo quando
si tratta di qualificare moralmente gli atti umani come buoni o cattivi,
secondo le differenze di merito o demerito. Infatti il concetto del merito è
legato all’idea della retribuzione secondo la giustizia. Una tale retribuzione
poi è dovuta a ciascuno secondo l’effetto delle sue azioni sugli altri, sia che
si tratti di azioni benefiche, sia che invece si abbiano delle azioni nocive.
Ora il bene o il male del singolo riguarda anche il bene o il male
della società in cui egli vive e quindi le azioni che riguardano gli altri
meriteranno ricompensa o punizione sia dal singolo sia dalla società , ma nella
retribuzione vi può essere un ordine diverso: se l’atto è direttamente ordinato
al singolo e solo indirettamente alla società , la retribuzione spetterà prima
all’individuo e poi alla comunità ; se invece l’atto è direttamente ordinato al
bene comune di tutti, prima dovrà essere retribuito dalla comunità nel suo
insieme e solo in un secondo tempo dai singoli membri della comunità .
Se qualcuno compie un’azione che riguarda direttamente solo il suo
bene o male proprio, allora in qualche modo, ma indirettamente, la retribuzione
spetterà alla comunità , di cui l’uomo in questione è membro; direttamente
invece dovrebbe essere retribuito da se stesso, ma allora non si tratterà di
una giustizia vera e propria, ma di una somiglianza di giustizia che è
dell’uomo nei riguardi di se stesso ed è così che ogni atto umano buono o
cattivo è meritevole o demeritevole.[25]
Evidentemente l’atto del singolo orientato direttamente al bene o
al male di un’altra persona singola corrisponde alla giustizia particolare;
quello ordinato immediatamente al bene della comunità riguarda strettamente la
giustizia legale, ed infine l’atto orientato al bene o al male dello stesso
agente, trova il suo corrispondente nella giustizia “metaforica”, la quale,
essendo dell’uomo nei riguardi di se stesso, è solo una somiglianza della
giustizia, in quanto l’uomo può considerare se stesso come suo debitore.
Sembra che qui San Tommaso ammetta che ogni atto di virtù, nessuno
escluso, possa essere ordinato al bene comune e così diventare oggetto della
giustizia legale, mentre in altri luoghi sostiene che vi sono degli atti
particolari di virtù che non sono ordinabili al bene comune e quindi esulano
dalla ragione di giustizia legale.
Bisogna però distinguere bene una duplice ordinabilità di un atto
virtuoso al bene comune: quella diretta e quella indiretta. Nel primo caso
l’atto per natura sua è orientato al bene comune e qui San Tommaso porta
generalmente l’esempio di un uomo coraggioso che combatte valorosamente per il
bene dello Stato. Un atto simile non è della giustizia come virtù speciale,
bensì della fortezza, ma è per natura sua orientato al bene comune della
società e quindi diventa oggetto di giustizia legale.
Nell’altro caso invece l’ordine dell’atto al bene comune è
indiretto; di natura sua l’atto riguarda il singolo e solo in un secondo tempo,
cioè in quanto il singolo fa parte della società , è ordinabile anche al bene
comune, quasi come per una risonanza (“redundat in totam societatem”) e così si
spiega come in un senso derivato ed indiretto, ogni atto virtuoso riguardi in
qualche modo il bene della società che è quello della giustizia legale.
Parlando della giustizia dell’uomo nei confronti di se stesso il
Santo Dottore afferma che si tratta solo di una “somiglianza di giustizia”,
cioè appunto di una giustzia “metaphorice
dicta”. Infatti quest’ultimo significato di “giustizia” non adempie ad una
proprietà essenziale della giustizia e cioè la relazione “all’altro”[26].
La giustizia consiste infatti in una uguaglianza, la quale è possibile solo tra
due realtà differenti, altrimenti non si dovrebbe parlare di uguaglianza, ma
piuttosto di identità . Ora, siccome la giustizia regola gli atti umani,
l’alterità richiesta non è quella tra due realtà qualsiasi, bensì tra due
soggetti di azione.
Perciò la giustizia nel suo senso proprio regola gli atti di un
uomo nei riguardi di un altro. Siccome però nello stesso agente umano vi sono
differenti principi di azione secondo la diversità delle potenze operative, si
può stabilire una certa somiglianza tra la differenza di un uomo rispetto ad un
altro e la differenza di una potenza operativa rispetto ad un’altra. Così vi è
nello stesso uomo una “giustizia” rispetto a se stesso, in quanto le singole
potenze operative vengono considerate come degli agenti separati.
Una tale considerazione è però impropria, basandosi solamente su
di una somiglianza, perché di fatto le azioni non appartengono alle singole
potenze, ma al loro soggetto, che è la stessa persona umana (actiones sunt suppositorum). Una tale
giustizia all’interno dell’uomo stesso è possibile perché vi è un ordine
naturale tra le potenze che deve essere rispettato. Secondo quest’ordine la
ragione deve governare la parte sensibile e questa deve obbedire ai dettami
della ragione e della volontà . Oltre all’ordine delle potenze tra di loro, vi è
un ordine proprio di ogni potenza secondo la perfezione che le è dovuta. Nell’uomo
virtuoso si realizza quindi la giustizia metaforica in quanto il possesso di
tutte le virtù porta con sé l’ordine delle potenze tra di loro e in vista della
loro propria perfezione.
Oltre all’alterità la giustizia nel senso più stretto della parola
riguarda come sua materia propria le azioni esterne oggettivamente misurabili.
Il rapporto giusto alla legge e al fine delle virtù riguarda comunemente tutte
le virtù e non solo la giustizia come virtù speciale[27].
L’ordine dell’atto umano al bene comune espresso nella legge riguarda la
giustizia in un senso più largo ed è così che si parla della giustizia legale.
L’ordine di un atto virtuoso alla norma della legge riguarda la
giustizia legale, che è comune a tutte le virtù, anche se non regola
direttamente tutti gli atti virtuosi. La perfezione dell’atto virtuoso in
quanto procede dal soggetto secondo un ordine della ragione è l’oggetto della
“giustizia” metaforica, secondo la quale tutte le potenze operative agiscono
nel proprio ordine e nella subordinazione dovuta rispetto alla ragione[28].
Solo in questo senso si può parlare di una giustizia dell’uomo
verso se stesso e solo questa giustizia che consiste nella perfezione di tutta
la persona umana secondo il bene della virtù si oppone ad ogni singolo atto del
peccato. Così ogni atto umano ha ragione di merito o demerito secondo la sua
conformità o meno alla giustizia intesa come la retta disposizione interiore
dell’uomo, perché secondo questa giustizia ogni atto umano e non solo quello
ordinato al bene di un altro uomo o al bene di una società acquista il diritto
ad una possibile retribuzione sia come ricompensa, se si tratta di atti buoni,
sia come punizione, se si tratta di atti cattivi.
La giustizia
consiste in una rettitudine, non essenzialmente, ma come un effetto che deriva
da una causa.
S.Anselmo definisce la giustizia come “la rettitudine della
volontà osservata per se stessa”. Ed infatti in tutti i significati della
giustizia ritroviamo il concetto della rettitudine. La giustizia particolare ha
per oggetto la rettitudine degli atti esterni riguardanti un’altra singola
persona; la giustizia legale ha per oggetto la rettitudine di un atto secondo
il suo rapporto al bene comune espresso nella legge ed infine la giustizia
“metaphorice dicta” ha per oggetto la rettitudine morale di ogni atto umano
secondo la sua conformità al bene della virtù e ai dettami della ragione, che
domina le singole potenze e ne impera gli atti. La rettitudine acquista la sua
estensione più grande nel caso della giustizia intesa come la retta
disposizione dell’anima umana, ma si ritrova anche nella giustizia legale e
nella giustizia particolare intesa come virtù speciale.
La difficoltà consiste nel fissare
il posto della rettitudine nella natura stessa della giustizia. La definizione
secondo cui la giustizia è nel genere della rettitudine della volontà sembra
suggerire che la rettitudine rientra nella stessa essenza della giustizia. Ora,
secondo San Tommaso, la definizione della giustizia come quella della di una
rettitudine della volontà non indica il genere prossimo e quindi una parte
essenziale della giustizia, ma ne rivela piuttosto la causa. La definizione
reale della giustizia, intesa in sensu
stricto della giustizia particolare, è “abito secondo cui si opera e si
vuole rettamente”[29].
In questo senso la giustizia si definirà come “firma et constans
voluntas ius suum unicuique tribuendi”. L’abito della volontà è però causato
formalmente dalla rettitudine e perciò la rettitudine rientra nell’essenza
della giustizia non come una sua parte, bensì come sua causa. Ciò che vale per
la giustizia come virtù speciale si può anche dire delle altre accezioni della
giustizia, estendendone il concetto anche agli altri abiti di virtù.
Così la giustizia legale è l’insieme degli abiti virtuosi secondo
i quali si opera e si vuole rettamente in vista del bene comune e la giustizia
intesa metaforicamente come ordine
interiore dell’essere umano si può applicare all’insieme degli abiti virtuosi,
dai quali procedono rettamente i singoli atti rispetto ai dettami della
ragione. La rettitudine è quindi all’origine
dell’abito virtuoso, da cui procede l’atto secondo il dovuto ordine e
causa perciò la giustizia, la quale a sua volta consiste sia in una virtù
particolare, sia in un insieme di virtù tanto sotto l’aspetto particolare
dell’ordine al bene comune, quanto sotto l’aspetto generale dell’ordine al bene
della ragione in genere.
Distinzione
tra giustizia naturale e giustizia soprannaturale.
La giustizia che consiste nell’insieme delle virtù perfezionanti
le potenze operative dell’uomo può essere intesa e delle virtù acquisite e
delle virtù infuse. Nel primo caso la giustizia sarà imperfetta e sarà fondata
sulla rettitudine puramente naturale; nel secondo caso invece la rettitudine
interiore è perfetta e soprannaturale tanto nei riguardi dell’ordine interiore
delle potenze dell’anima in se stesse e tra di loro, quanto rispetto alla
subordinazione perfetta rispetto a Dio.
La distinzione tra la giustizia naturale e quella soprannaturale
si manifesta soprattutto nella contrapposizione della giustizia al peccato. Se
si tratta della giustizia naturale, il peccato non potrà distruggerla del
tutto, ma la inclinerà in qualche modo al male; se invece si tratta della
giustizia soprannaturale, ogni peccato grave la distrugge completamente
togliendole le cause formali cioè la carità e la grazia[30].
I due tipi di “giustizia” richiedono sempre l’insieme di tutte le
virtù (sia acquisite, sia infuse), ma nel caso della giustizia naturale il
peccato non può distruggere tutto l’insieme delle virtù naturali, anche se lo
danneggia, mentre nel caso della giustizia soprannaturale qualsiasi peccato
grave toglie la grazia e la carità e per conseguenza anche tutte le virtù
infuse emananti dalla grazia e formate dalla carità . Ovviamente anche le virtù
naturali sono in qualche modo connesse tra di loro per mezzo della prudenza
naturale come “recta ratio agibilium”, ma il peccato non può distruggere del
tutto un abito acquisito naturale.
Ogni atto contrario corrompe ovviamente e la virtù acquisita
speciale alla quale si oppone e la prudenza che ordina rettamente i mezzi al
fine di ciascuna virtù, ma pur corrompendo e indebolendo tali abiti buoni, i
singoli atti peccaminosi non sono in grado di toglierli del tutto, perché
l’abito acquisito non si ottiene per un atto solo, bensì per una lunga serie di
atti ripetuti. Inoltre anche nel caso di un vizio abituale, le disposizioni
naturali buone non possono essere mai completamente distrutte, perché la natura
tende di per sè al bene e il male può essere soltanto accidentale rispetto ad
essa.
Anche nei peccatori rimane quindi
almeno una disposizione al bene e nulla proibisce che, pur essendo indeboliti
in un determinato campo della vita morale, essi mantengano delle vere e proprie
virtù acquisite in altri campi. Evidentemente il peccato, opponendosi ad una
determinata virtù naturale, danneggia anche il giudizio della prudenza e quindi
il suo male si ripercuote anche sulle altre virtù naturali, ma questo avviene
solo indirettamente. Differente è invece il caso della giustizia
soprannaturale, che consiste nell’insieme delle virtù infuse, strettamente collegate tra di loro
per mezzo della carità e profluenti spontaneamente dalla grazia, come le potenze
dell’anima provengono dall’essenza della medesima.
Ora, come la separazione dell’anima
dal corpo comporta anche l’assenza delle potenze operative, così la distruzione
della grazia a causa di un peccato mortale ha come conseguenza la distruzione
anche delle singole virtù infuse. E questo proprio a causa del’accidentalità e
della gratuità della grazia rispetto alla natura.
Infatti
la perfezione naturale, essendo dovuta alla natura, non può essere
completamente distrutta, perché in tal caso la privazione nella quale consiste
la ragione del male sarebbe priva di soggetto e il male diventerebbe assoluto,
il che implica contraddizione. Se invece viene meno un bene non dovuto alla
natura come privazione di una perfezione accidentale, un tale male può essere
“completo” perché, tolta la perfezione aggiunta, rimane sempre la bontÃ
naturale del soggetto e quindi, nonostante la totalità della privazione del
bene gratuito, il male che ne segue non potrà mai essere assoluto.
Le virtù acquisite non possono essere corrotte da un unico atto
peccaminoso, perché l’atto si oppone all’atto e non all’abito. Le virtù infuse
invece si possono perdere con un unico atto di peccato, perché ogni peccato
costituisce un ostacolo all’infusione della carità e delle altre virtù da parte
di Dio, in quanto la grazia e la carità implicano una perfetta congiunzione con
Dio fine ultimo soprannaturale della vita umana e quindi ogni grave disordine
contrario al fine ultimo pone un ostacolo all’infusione da parte di Dio[31].
Dopo il peccato rimangono per conseguenza solo le virtù acquisite
e le virtù teologali della fede e della speranza, ma informi e quindi
imperfette. La gratuità della grazia e della carità e la loro dipendenza
dall’infusione da parte di Dio assieme allo stretto legame tra le virtù infuse
nel vincolo della carità e nella dipendenza dalla grazia sono le ragioni per le
quali un unico peccato mortale toglie completamente la grazia, la carità e
insieme con loro tutte le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo.
Indubbiamente la giustizia, alla quale termina la giustificazione
deve intendersi di quella giustizia, alla quale si oppone ogni singolo atto di
peccato e quindi della giustizia
soprannaturale. E’ così che si spiega il legame tra la consecuzione della
giustizia e quella della grazia. La giustificazione porta all’esclusione di
ogni peccato (e perciò, nell’ipotesi di un peccato precedente, implica la
remissione dei peccati), alla consecuzione della grazia santificante, della
carità e di tutte le virtù morali infuse, delle virtù teologali formate e
perfette, dei doni dello Spirito Santo. Nel presente stato dell’economia della
salvezza la giustificazione arriva necessariamente alla giustizia
soprannaturale emanante dalla grazia santificante.
Rimane però la questione della grazia del primo uomo. RATRAMNO[32] sosteneva che Adamo aveva la perfetta
rettitudine del libero arbitrio per iniziare il bene, ma non per portarlo a
compimento. Per proseguire il cammino nell’esercizio delle virtù e per arrivare
al termine avrebbe avuto bisogno di un’altra grazia di Dio sopraggiunta alla
rettitudine originale del libero arbitrio. Cristo, il secondo Adamo, invece ci
dà una grazia tanto per iniziare la retta scelta del libero arbitrio quanto per
portarla al compimento perfetto. Sia l’iniziare che il proseguire nel bene li
riceviamo da colui che ci dà il dono della grazia. Il libero arbitrio in noi
non è più retto, ma rettificato e restaurato dalla stessa grazia.
Qui appare nettamente la distinzione, proveniente dalle dispute
con il pelagianesimo, tra l’inizio e il termine perfetto di un’opera buona:
mentre il primo uomo aveva bisogno solo del compimento, noi abbiamo bisogno
anche dell’inizio, perché la nostra libertà non è più intatta, ma è danneggiata
e inclinata dal peccato. Se perciò Adamo ricevette immediatamente la grazia
senza la remissione del peccato, noi, dopo il peccato, prima dobbiamo essere
liberati dalle nostre cattive inclinazioni per poi poter ricevere anche la
perfezione della grazia.
Interessante in questa posizione è la bontà naturale attribuita
alla libertà umana ante lapsum e la
grazia che vi si aggiunge a quanto sembra non solo secondo l’ordine della
natura, ma anche secondo l’ordine del tempo, così che Adamo non sarebbe creato
in grazia, ma solo nella rettitudine connaturale delle sue facoltà operative e
solo in un secondo tempo avrebbe ricevuto la giustizia strettamente
soprannaturale.
Anche il LOMBARDO[33]
espone una simile opinione secondo cui l’uomo, costituito nella giustizia
originale, avrebbe avuto una rettitudine
preternaturale (integrità della natura) delle sue facoltà operative e
solo in seguito sarebbe stato congiunto perfettamente a Dio per mezzo della
grazia santificante e della giustizia strettamente soprannaturale. Anche la
prima rettitudine, quella dell’integrità naturale, è un dono di grazia, ma solo
la seconda, quella della giustizia soprannaturale, è perfetta. SAN TOMMASO
conosce le tesi di Ratramno e di Lombardo, ma non le condivide.[34]
Secondo lui infatti Adamo fu pienamente giustificato nel primo istante
della sua creazione con una giustizia strettamente soprannaturale, la quale,
oltre all’integrità preternaturale della natura e delle sue facoltà , conteneva
anche un perfetto ordine a Dio, fine ultimo soprannaturale della vita umana.
Nel primo uomo vi fu una natura distinta dalla sua integrità connaturale ma non
dovuta e perciò derivante da un dono preternaturale e dal dono strettamente
soprannaturale della grazia santificante, che ordinava perfettamente in Dio ed
era principio di vero merito soprannaturale. I tre beni distinti secondo la
natura, coincidevano secondo il tempo nello stesso istante della creazione, che
terminava al bene della natura, all’integrità della medesima e al suo ordine
soprannaturale verso Dio, fine ultimo della vita umana.
La giustizia,
che è il termine della giustificazione è originalmente nella volontà come nel
suo soggetto, ma è anche nelle altre potenze dell’anima
in quanto
sono rettificate da essa.
La definizione della giustizia presentata da S. Anselmo e
accettata come autorevole anche da S. Tommaso colloca la giustizia nella
volontà affermando che essa consiste nella “rettitudine della volontà ”. Se però
la giustizia che è il termine del moto della giustificazione esclude ogni
peccato, vuol dire che comprende in sé tutte le virtù a modo di un tutto
integrale, cosicchè, venuta meno una di esse, non si può più parlare della
giustizia soprannaturale. Ora, le singole virtù non perfezionano solo la
volontà , ma tutte le potenze dell’anima e quindi ogni peccato opposto al bene
di una qualsiasi virtù distrugge la giustizia soprannaturale.
La giustificazione non termina soltanto alla rettitudine della
volontà , ma anche a quella di tutte le altre potenze. Questo però sembra
contraddire la sentenza anselmiana. San Tommaso[35]
risponde distinguendo l’origine della giustizia soprannaturale e la sua azione
sulle altre potenze dell’anima. Originariamente essa è nella volontà , ma
rettifica anche le altre facoltà influendo su di esse. E così inerisce non solo
alla volontà ma anche alle altre potenze come ad altrettanti suoi soggetti
secondo le rispettive virtù dalle quali è composta a modo di tutto integrale.
San
Tommaso afferma che originariamente
la giustizia è nella volontà , aggiungendo anche il motivo che la volontà è
principio del merito e del demerito. Ora, affinché la volontà possa meritare
qualcosa a livello soprannaturale, bisogna che sia perfezionata dalla carità ,
che emana immediatamente dalla grazia, che a sua volta si trova nell’essenza
dell’anima.
La
carità poi include tutte le altre virtù soprannaturali formate connettendole
tra di loro. La giustizia soprannaturale deriva quindi dalla grazia che è
nell’essenza dell’anima e raggiunge tutte le sue facoltà per mezzo della caritÃ
che è nella volontà . E’ per questo che la volontà ottiene un posto privilegiato
tra le altre potenze dell’anima.
Inoltre la volontà è in qualche modo
alla base di ogni atto umano moralmente qualificabile e perciò l’atto di una
potenza può dirsi buono o cattivo moralmente solo in quanto è perfettamente
volontario e quindi solo per un certo riferimento alla volontà . Ora, gli atti
volontari sono essenzialmente della volontà stessa, ma per partecipazione sono
di tutte le altre facoltà , in quanto il loro atto può essere imperato dalla
volontà . Con questa idea della partecipazione San Tommaso riesce a rispettare
allo stesso tempo l’unità e la complessità della vita morale.
L’atto morale è fondamentalmente
della volontà , ma per partecipazione può essere direttamente anche di tutte le
altre potenze. La volontà mantiene così un’incontestabile primato tra le altre
facoltà dell’anima per quanto riguarda la vita pratica, ma in nessun modo
distrugge la rispettiva perfezione naturale delle singole potenze, il cui atto,
pur essendo imperato dalla volontà , è direttamente elicito dalla potenza di cui
è l’atto. Così il centro della vita morale è nella volontà , ma la stessa vita
morale si estende a tutte le potenze.
Dopo aver esaminato la caratteristica della giustizia, alla quale
termina il moto della giustificazione, per capirne meglio l’incisività per la
vita quotidiana degli uomini giustificati, bisogna ora considerare la
perfezione degli uomini giusti, se per “giustizia” si intende appunto la
rettitudine interiore e soprannaturale dell’uomo in se stesso e nei confronti
di Dio.
San Tommaso ha una grande stima di una tale giustizia affermando
che i giusti sono:
(a) la più nobile parte dell’universo, al bene della quale
collaborano tutti gli avvenimenti e
(b) coloro che possiedono Dio sia nella speranza della beatitudine
futura, sia nel possesso immediato della beata visione.
I giusti
sono la parte più nobile dell’universo e come tali sono un oggetto particolare
della provvidenza e della predestinazione divina.
La provvidenza divina governa tutto
l’universo, ma in un modo speciale si prende cura degli uomini come creature
razionali, fatte ad immagine di Dio, immortali e destinate ad un fine
soprannaturale che è Dio stesso. Perciò, oltre alla provvidenza comune, gli
uomini diventano oggetto di un progetto divino particolare, secondo il quale
sono mossi verso la consecuzione del loro fine ultimo e questa provvidenza
speciale è la predestinazione. Siccome poi la predestinazione è la ragione
della trasmissione della creatura razionale al suo fine ultimo, ne segue che la
predestinazione riguarda direttamente coloro che di fatto conseguono il loro
fine ultimo soprannaturale e solo indirettamente coloro che di fatto non lo
conseguono[36].
Ora, coloro che arrivano di fatto alla
beatitudine eterna per mezzo della grazia finale sono appunto i “giusti”, cioè
gli uomini che perseverano nel dono della giustizia soprannaturale fino alla
fine della loro vita. La grazia della perseveranza si aggiunge alla grazia
giustificante conseguita durante la vita sulla terra, ma la stessa grazia
giustificante è ordinata come a sua perfezione alla consumazione della
giustizia nella perseveranza finale. La giustizia soprannaturale mantenuta fino
alla fine della vita costituisce un merito equivalente della beatitudine
eterna. In questo senso la predestinazione riguarda immediatamente i giusti e
solo indirettamente, per privazione, i dannati.
La provvidenza divina intende
infatti il bene di tutto l’universo e perciò ordina tutti gli avvenimenti al bene
della parte più eccellente di esso. Così i giusti sono oggetto particolare
della predestinazione, perché costituiscono la parte più nobile dell’universo e
per conseguenza tutte le cose contribuiscono al loro bene[37].
Anche il male dei peccatori si volge al
bene dei giusti; i cattivi infatti sono preordinati da Dio al bene dei buoni.
Tutto infatti coopera al loro vantaggio. In qualche modo anche il loro peccato
costituisce un ulteriore motivo della loro gloria.
Il
giusto che si ravvede dopo la sua colpa risorge con una carità ancora più
intensa e soprattutto più solida e più duratura, perché più umile e più
prudente. Il male, infatti, sembra in un primo momento sottrarsi all’ordine
prestabilito da Dio, ma in realtà serve questo stesso ordine della sapienza e
della bontà divina.
L’uomo è provvidente e nello stesso
tempo oggetto di provvidenza. Secondo il primo aspetto si dice buono o cattivo,
giusto o ingiusto, in quanto o osserva la rettitudine o manca rispetto ad essa.
Il secondo aspetto poi corrisponde al primo, cioè, secondo il suo comportamento
nella provvidenza attiva l’uomo diventa passivamente oggetto della provvidenza
divina sia nel bene se è buono, sia nel male se è cattivo. Così la divina
sapienza ha prestabilito che tutto dovrà volgersi al bene dei giusti, che hanno
saputo vivere in conformità alla dignità umana, mentre, per quanto riguarda
coloro che si comportano a modo di bruti animali in modo indegno di creatura
razionale, Dio ordina anche il loro stesso bene (imperfetto e particolare) al
bene (perfetto e universale) dei giusti.
I peccatori esulano dall’ordine
della provvidenza vivendo ingiustamente, ma rientrano nella provvidenza
diventando oggetto della giustizia punitiva (vendicativa) di Dio[38].
Quando il Santo Dottore afferma che il male degli empi si volgerà a bene dei
giusti, non vuol dire che l’infelicità dei peccatori costituisce la felicitÃ
dei santi – un pensiero indegno della bontà divina –, ma si tratta piuttosto di
un’esigenza oggettiva che il male (adesione al bene particolare) sia ordinato
al bene simpliciter (adesione al bene
universale, vero fine ultimo della vita umana).
La provvidenza divina riguarda specialmente i giusti, cioè gli
eletti, proteggendoli dal peccato, soprattutto da un peccato che potrebbe
impedire la loro salvezza finale. Anche in questo caso la giustizia esclude il
peccato e Dio si prende cura dei giusti rendendoli immuni da questo male. La
grazia finale aggiunge qualcosa alla grazia della giustificazione, ma
quest’ultima è data in vista della grazia finale. Ora, se i dannati non
conseguono il fine ultimo soprannaturale e quindi non sono direttamente oggetto
della predestinazione, ciò non vuol dire che siano completamente esclusi dalla
provvidenza, secondo la quale sono conservati nel loro essere e governati nel
loro agire. Quando si dice che Dio abbandona qualcuno, non si vuole indicare
una completa cessazione della provvidenza divina nei riguardi di un tale uomo,
ma solo l’assenza della provvidenza speciale rispetto alla destinazione della
sua vita. Dio non “abbandona” nessuno sottraendogli qualcosa di ciò che gli
spetta, ma talvolta non ordina alla consecuzione del fine ultimo un uomo,
mentre vi ordina positivamente un altro[39].
La giustizia soprannaturale è sempre l’effetto della provvidenza speciale e
della predestinazione, soprattutto quella finale, e l’azione divina nei
confronti dei giusti che sono oggetto della predestinazione consiste
particolarmente nella difesa dal peccato.
I giusti
sono in possesso di Dio,
sia secondo
la speranza, sia secondo la realtà attuale.
I giusti possiedono la rettitudine soprannaturale costituita
dall’insieme delle virtù infuse e formate dalla carità . Ora, queste virtù non
potrebbero esserci se non vi fosse nell’anima la grazia santificante, dalla
quale tutte le virtù infuse emanano. Così il dono della giustizia è
strettamente legato a quello della grazia. Ora, nella grazia ci viene dato lo
stesso Spirito Santo e perciò l’uomo giusto entrando in possesso della grazia
santificante, diventa partecipe di Dio, possiede Dio conoscendolo e amandolo
sopra ogni cosa.
San Tommaso distingue due modi di
parlare di Dio come di “nostro Dio”. Il nome di Dio proviene da un’operazione
anche se è destinato a significare l’essenza o la natura divina. Secondo
un’autorità del DAMASCENO[40]
il nome “Dio” proviene o dal curare tutte le cose (thein) o da ardere (aithein),
in quanto l’ardore di Dio consuma ogni malizia o infine dal considerare tutto (theasthai). Secondo questo significato,
cioè da parte dell’operazione dalla quale è desunto il nome di Dio, è possibile
dire “Dio nostro”. Sarebbe invece impossibile dire “Dio nostro” pensando alla
stessa natura divina.
Ma anche secondo l’operazione Dio è
diversamente Dio di tutti e Dio dei giusti. Solo i giusti sono destinati a conseguire
Dio come il loro fine e perciò si dice specialmente di loro che Dio è “il loro
Dio” in quanto lo possiedono. Tutte le cose provengono da Dio e sono ordinate a
lui e in questo senso Dio è il “Dio di tutte le cose”, ma solo i giusti sono
perfettamente uniti a lui sia per la grazia (durante il cammino di questa vita)
sia per la gloria (nel possesso beato del regno nella patria celeste). Solo i
giusti hanno realmente Dio come la loro eredità e anche a modo di passione (“ad
modum passionis”), cioè di partecipazione reale sia iniziata per grazia sia
consumata per gloria[41].
I giusti sono congiunti con Dio per
mezzo della grazia o della gloria e una simile unione con il fine ultimo
soprannaturale esclude ovviamente ogni allontanamento da un tale fine e per
conseguenza esclude ogni peccato. La caratteristica propria dei giusti è quindi
quella di essere privi di ogni peccato, almeno di ogni peccato grave.
La
giustificazione è un moto della mente, nel quale l’anima è mossa da Dio dallo stato di peccato allo stato della
giustizia.
Se il termine della giustificazione è la giustizia soprannaturale,
che esclude ogni peccato, allora nel caso in cui il peccato precede la
giustizia, la giustificazione come moto verso la giustizia può realizzarsi solo
come moto da un termine contrario all’altro[42].
La giustificazione è per essenza un moto verso la giustizia, ma
potrebbe anche essere una semplice generazione della giustizia nell’anima di un
uomo che ne era privo. Dove invece ha preceduto il peccato, la giustizia può
subentrare solo dopo la sua distruzione reale e per conseguenza porta
necessariamente con sé la remissione dei peccati come la distruzione della
forma precedente mediante l’infusione della forma nuova che è appunto la
giustizia soprannaturale e la grazia santificante.
Il termine del moto della
giustificazione è direttamente la giustizia, che comprende in sé tutte le virtù
e indirettamente la liberazione dal peccato, in quanto un eventuale peccato
esistente nel soggetto si oppone all’insieme delle virtù soprannaturali
costituenti a modo di un tutto integrale la giustizia. Perché la giustizia possa aderire ad un
soggetto, quest’ultimo dev’essere disposto in modo tale da escludere ogni forma
contraria alla giustizia e quindi nella dinamica della giustificazione
considerata da parte del soggetto, prima vi è la remissione dei peccati e poi
l’infusione della grazia santificante assieme alla giustizia che ne deriva
nelle potenze dell’anima.
Questa dinamica del processo della
giustificazione appare chiaramente nella definizione tradizionale ripresa dal
Santo Dottore, secondo la quale la giustificazione dell’uomo nello stato
presente consiste nella “remissione dei peccati e nel compimento delle opere
buone”[43].
San Tommaso, per spiegare questa
affermazione, si serve ancora una volta dell’analogia con il moto. Ogni moto
infatti richiede un allontanarsi da un termine per accedere ad un altro. Sotto
il primo aspetto, cioè in quanto si allontana dal peccato, la giustificazione
si dice “remissione dei peccati”; sotto il secondo aspetto invece, cioè in
quanto si avvicina alla giustizia, la giustificazione è la “compimento delle
buone opere” in quanto le azioni meritevoli scaturiscono dalle virtù
soprannaturali formate dalla carità ed infuse insieme con la grazia
santificante.
Sempre considerando la giustificazione come passaggio da uno stato
(quello del peccato) in un altro (quello della giustizia e della grazia)[44],
il Santo Dottore si chiede quale sia esattamente il rapporto tra la remissione
del peccato e la giustificazione nell’ipotesi di un soggetto affetto dal
peccato e per conseguenza tale che in lui la giustificazione sempre comporti
anche la distruzione del peccato opposto ad essa. Ora, la giustificazione si
può considerare in due modi: sia come un
moto, sia come una mutazione.
Se per giustificazione si intende un moto, allora la stessa
giustificazione coincide realmente con la remissione dei peccati, ma si
distingue da essa secondo una distinzione di ragione fondata sul duplice
rapporto al termine a quo e ad quem. La remissione dei peccati
esplicita di più il distacco dal termine a
quo; la giustificazione invece mette più in risalto l’avvicinarsi al
termine ad quem. Di fatto però la
giustificazione è un moto unico che congloba in sé e il distacco dal peccato e
l’arrivo alla giustizia.
Se invece la giustificazione si considera a modo di una
mutazione, allora vi sono in essa due
mutazioni realmente distinte. Una consiste nella distruzione del peccato,
l’altra invece consiste nella consecuzione della giustizia e della grazia.
Anche in questo caso però le due mutazioni sono strettamente legate tra di loro
e, pur distinguendosi realmente, una non può essere senza l’altra.[45]
San Tommaso insiste sulla necessità della remissione dei peccati
nel processo della giustificazione secondo lo stato presente della natura
umana, la quale, affetta dal peccato, ha bisogno di esserne liberata per poter accedere alla
giustizia e alla grazia, alla comunione di vita con Dio. La ragione di questa necessità è insita nella stessa
giustizia verso la quale l’uomo si muove, mosso da Dio, nel processo della
giustificazione. Questa giustizia infatti si oppone ad ogni singolo peccato e
perciò non può essere in un soggetto affetto dal peccato, ma richiede la
remissione della colpa sia come una parte dello stesso moto della
giustificazione, sia come una mutazione distinta dalla generazione della
giustizia nel soggetto, ma sempre necessariamente compresente con quest’ultima.
Ora, se la colpa del peccato non
fosse qualcosa di reale nell’anima dell’uomo peccatore, allora la
giustificazione coinciderebbe con la remissione del peccato, anche in quanto si
può considerare a modo di mutazione. Così infatti la colpa sarebbe solo
l’assenza della grazia, che si potrebbe togliere immediatamente con l’infusione
della medesima e così la stessa generazione della giustizia nell’anima del
giustificato ipso facto implicherebbe la distruzione della colpa e cioè la
remissione del peccato.
Ma la colpa non è solo l’assenza
della grazia. Quest’ultima è solo una pena che segue alla colpa; la colpa
stessa invece è una privazione del dovuto ordine morale esistente realmente in
un atto concreto. Così il peccato, essendo un male, è una privazione, ma nel
suo atto ha una consistenza reale e così anche se, considerato assolutamente in
se stesso, il peccato è solo una privazione, esso ha un’esistenza reale nel
soggetto che ha peccato in un tale atto concreto e così, da parte dell’atto
disordinato (e non già da parte dello stesso disordine considerato in sé), il peccato
è un’entità reale e permanente nell’uomo. L’assenza della grazia segue poi il
peccato in quanto quest’ultimo costituisce un ostacolo reale alla sua infusione
e perciò, affinché la grazia possa perfezionare l’anima di un peccatore, si
richiede la remissione del peccato come un “removens
prohibens”.
Una volta distrutto il peccato,
subito viene infusa la grazia, la cui assenza non era dovuta ad una sottrazione
da parte dell’agente divino infondente la grazia, bensì all’ostacolo posto
realmente dall’uomo nell’atto del peccato. La remissione del peccato toglie
l’ostacolo e immediatamente subentra l’infusione della grazia da parte di Dio.
Così, secondo la considerazione della giustificazione a modo di una mutazione,
la remissione del peccato è distinta dall’infusione della grazia.
La remissione del peccato infatti
toglie l’ostacolo posto alla grazia, mentre l’infusione della grazia toglie
l’assenza della grazia dovuta alla presenza del peccato ostacolante la sua
infusione[46].
La distruzione del peccato operata dalla remissione della colpa è efficace come
rimozione dell’ostacolo posto dal peccato
nell’anima dell’uomo.
La concezione tomista della
giustificazione come moto verso la giustizia soprannaturale differisce in punti
essenziali dalla concezione luterana e non si può servire bene la causa
dell’ecumenismo minimizzando indebitamente questi fatti. L’unità nella caritÃ
si può costruire solo sulle solide basi della verità . Quest’ultima implica
anche l’esigenza della giustizia verso i singoli autori, i quali devono essere
interpretati secondo il loro proprio pensiero e non “adattati” alle correnti
“di moda”, anche se lodevoli ed apprezzabili[47].
Dall’attento esame dell’insegnamento di S.Tommaso risultano
soprattutto le seguenti differenze nei confronti della concezione luterana
della giustificazione:
a)
A differenza di Lutero San Tommaso non è “amartocentrico”, cioè
prevede senz’altro la possibilità di una giustificazione senza la remissione
dei peccati nell’ipotesi dell’assenza del peccato.
b)
Per San Tommaso il peccato si oppone alla giustizia soprannaturale
in un modo tale che è strettamente impossibile la compresenza di queste due
realtà in un unico soggetto.
c)
Perciò la giustificazione non si può limitare ad una “non
imputazione del peccato”, ma implica necessariamente sia per la sua stessa
essenza (se considerata come un moto), sia per necessaria concomitanza (se
considerata come una mutazione) la reale distruzione del peccato, ovviamente
non così che un peccato passato non vi sia più come passato, perché questo
sarebbe contradditorio, ma così che il
peccato che realmente impediva ed ostacolava l’infusione della grazia è
realmente rimosso come ostacolo.
L’incompatibilità tra il peccato e
la giustizia non solo mette maggiormente in risalto l’efficacia della grazia,
ma prende più “sul serio” la stessa realtà del peccato, realtà tragica ma
sempre una realtà , la cui complessità corrisponde alla stessa complessità della
persona umana come agente morale.
La
remissione del peccato è naturalmente prima nel processo della giustificazione secondo
l’ordine della causa materiale dispositiva.
San Tommaso è molto attento alla
sequenza dei singoli momenti della giustificazione secondo punti di vista
diversi e questo appunto perché la giustificazione è un moto e per conseguenza
una realtà dinamica, ma anche una realtà complessa divisibile in parti più
semplici e più costanti, la cui struttura è comune ad ogni giustificazione
indipendentemente dalle circostanze particolari. Il moto della giustificazione
si può “afferrare” a livello conoscitivo solo attraverso questa struttura
“statica”, che è alla base del suo dinamismo.
Lo studio dell’ordine delle singole
parti della giustificazione sarà di un’importanza decisiva nella considerazione
del rapporto che vi è tra l’azione divina e la volontà umana in vista del
conseguimento della giustizia, ma conviene fare un breve accenno al posto della
remissione dei peccati nella giustificazione per mettere in risalto il legame
tra l’azione divina e la distruzione del peccato nella “remissione”.
Nella giustificazione l’infusione
della grazia muove il libero arbitrio a credere con fede piena e viva in Dio, a
detestare il peccato con perfetta contrizione ed a conseguire così la
remissione dei peccati assieme al dono della grazia santificante. Il peccato è,
nella giustificazione, oggetto dell’azione umana nella contrizione e oggetto
dell’azione divina nella remissione. Ovviamente la stessa azione umana, il moto
del libero arbitrio, è un risultato dell’azione divina, che coinvolge tutto il
dinamismo della giustificazione.
Tra i due atti del libero arbitrio,
quello che riguarda Dio come oggetto di una fede viva precede naturalmente
quello che si svolge contro il peccato detestandolo. La ragione di questo
ordine è semplice: il peccato può essere pianto in una vera e propria
contrizione solo se il motivo del dolore è l’offesa dell’amore divino con il
desiderio di rimettere Dio al posto che gli spetta nella nostra vita, vale a
dire al posto del fine ultimo soprannaturale, come avviene nella virtù della
carità .
La carità ispira quindi la
contrizione e la fede formata precede così il dolore perfetto dei peccati[48].
La penitenza non può essere prima tra le altre virtù secondo natura perché se
le altre virtù sono necessarie per la vita morale per se stesse, la penitenza
lo è solo accidentalmente, cioè se si suppone un peccato preesistente. Inoltre,
sempre secondo l’ordine della natura, la grazia si esprime prima nella carità e
poi nella penitenza perfetta ispirata alla carità . D’altra parte però la
penitenza può essere in qualche modo prima secondo
l’ordine del tempo, come ciò che si incontra per primo nel processo della
giustificazione.
Nella giustificazione quindi vi è un
certo primato della penitenza rispetto alla carità , non già secondo la natura,
bensì secondo il tempo[49].
Ora, la priorità secondo il tempo non vuol dire che vi sia un prima e un poi
nel senso temporale, perché il Santo Dottore afferma senza possibilità di
equivoci che i due moti di fede formata e di contrizione perfetta sono contemporanei
(“simul”). L’“ordo temporis” piuttosto, in contrapposizione all’“ordo naturae”
indica l’ordine genetico, secondo il divenire, anche se il divenire è
istantaneo, mentre l’ordine della natura è l’ordine essenziale e di per sè.
L’ordine secondo il tempo
corrisponde nella giustificazione all’ordine secondo la natura da parte del
soggetto distinto dal medesimo ordine, in quanto considerato dalla parte della
forma che è il fine inteso per primo dall’agente[50].
Così, secondo l’ordine del tempo e secondo l’ordine della natura dalla parte
del soggetto, la contrizione per i peccati precede il moto della fede formata e
la remissione dei peccati precede l’infusione della grazia.
Vi è per conseguenza un ordine
diverso dalla parte del Dio giustificante e dalla parte dell’uomo giustificato,
dalla parte dell’agente divino e dalla parte del soggetto umano. Dalla parte di
Dio l’infusione della grazia precede la remissione del peccato, in quanto Dio,
intendendo principalmente l’infusione della grazia, rimette secondariamente
anche i peccati che vi si oppongono. Da parte dell’uomo invece la ricezione
della grazia richiede la disposizione del soggetto e cioè la privazione di ogni
forma contraria e per conseguenza l’assenza dei peccati per remissione.
In questa prospettiva però la giustificazione non appare nella sua
unità di moto, ma sembra una duplice mutazione, nel corso della quale la
remissione della colpa e l’infusione della grazia si precedono e si susseguono
secondo diversi punti di vista. Ma la giustificazione può essere considerata ad modum unius come un solo moto che è
tutto causato da Dio e, come effetto dell’azione divina, implica due termini:
il termine a quo che è la remissione
del peccato e il termine ad quem che
è la consecuzione della grazia abituale[51].
Anche nella giustificazione intesa come un unico moto secondo l’ordine del
divenire, il distacco dal peccato precede l’arrivo al termine della giustizia,
mentre secondo l’ordine della natura è primo il termine specificante del moto
al quale dispone la distruzione del peccato nel soggetto umano.
Il moto della giustificazione
comprende la distruzione del peccato e la generazione della giustizia
soprannaturale nell’anima del giusto. Le due mutazioni sono poi collegate in un
unico moto, nel quale la remissione del peccato precede la consecuzione della
grazia da parte del soggetto, cioè secondo
la causa materiale dispositiva, mentre l’infusione della grazia è causa
della giustificazione secondo l’ordine
della causa formale, efficiente e finale[52].
La disposizione alla forma avviene
infatti nell’ordine della causa materiale; la materia è disposta a ricevere una
forma se è priva di forme contrarie. Il soggetto, cioè la materia, oltre alla
sua stessa essenza, contiene la privazione come entità di ragione ed è la
privazione della forma in un soggetto che lo rende disposto e capace di
ricevere un’altra forma. Da parte della forma stessa invece l’introduzione
della forma causa l’espulsione della forma contraria[53].
La forma viene introdotta nel
soggetto, mentre il soggetto riceve la forma. Così si può dire che
l’introduzione della forma causa l’espulsione della forma contraria, mentre
l’espulsione della forma contraria causa nel soggetto la capacità di conseguire
una determinata forma. L’azione divina causa e l’infusione della grazia e la
remissione del peccato. L’infusione della grazia è la causa formale, efficiente
e finale della remissione dei peccati, mentre la remissione dei peccati è la
causa materiale dispositiva della consecuzione della grazia.
L’effetto
della giustificazione è la remissione della colpa assieme alla novità di vita
per mezzo della grazia.
La remissione della colpa è un effetto distinto dalla consecuzione
della grazia per il semplice motivo che quest’ultima non necessariamente
implica la prima. La remissione del peccato è infatti accidentale rispetto
all’infusione della grazia, ma nella giustificazione del peccatore si
richiedono e l’una e l’altra[54].
L’infusione della grazia abituale santificante, per mezzo della quale l’uomo
diventa partecipe della giustizia soprannaturale, entra in comunione di vita
con Dio e viene rinnovato come nuova
creazione, è quindi un effetto della giustificazione distinto dalla remissione
dei peccati.
L’infusione della grazia è
essenziale alla giustificazione; invece la remissione dei peccati è una
disposizione necessaria alla consecuzione della giustizia in un soggetto
affetto dal peccato. Nella giustificazione dell’empio i due effetti dell’azione
divina sono compresenti: l’uomo liberato dal peccato viene investito della
grazia santificante.
San Tommaso però precisa ancora il
rapporto che vi è tra la remissione del peccato e l’infusione della grazia come
due effetti dell’azione giustificante di Dio. Se la giustificazione dell’empio
si considera come un moto unico, allora tutto il trasferimento del soggetto
umano dal peccato alla giustizia è un unico effetto dell’azione divina, della
giustificazione attiva da parte di Dio. Se invece si considerano i rispettivi oggetti
delle due mutazioni che sono la remissione del peccato e l’infusione della
grazia, allora i due effetti sono realmente distinti[55]47).
Ciò che unisce l’infusione della
grazia e la remissione del peccato è la loro compresenza nella giustificazione
dell’empio, se questa viene considerata come un unico effetto dell’azione
giustificante di Dio. Prese in se stesse queste due parti della giustificazione
si distinguono secondo la diversità del loro oggetto. La remissione del peccato
è necessaria nella giustificazione dell’empio, del peccatore, perché ogni
singolo peccato si oppone alla grazia ed alla giustizia soprannaturale. D’altra
parte però non si può dire che ogni privazione di grazia sia causata dal
peccato. Il peccato causa sempre la privazione della grazia, ma non ogni
soggetto privo[56]
di grazia lo è a causa di un peccato precedente. Se infatti la grazia proviene
da una libera e gratuita donazione da parte di Dio, si può legittimamente
pensare ad uno stato ipotetico in cui la natura umana sarebbe priva di peccato
e di grazia[57]48).
Un uomo può per conseguenza ricevere la grazia senza aver peccato in
precedenza, ma se ha peccato, per riceverla deve essere prima liberato dalla
sua colpa. Ancora una volta viene messo in risalto il carattere accidentale
della remissione dei peccati nella giustificazione.
Di per sè la giustificazione tende a conferire la vita nuova della
grazia; accidentalmente questo dono di grazia richiede, nell’uomo peccatore, la
remissione dei peccati. Per illustrare questo stato di cose il Santo Dottore
usa una bella immagine della vita in grazia come di un matrimonio spirituale.
Il dono della grazia svolge un ruolo analogo a quello della dote nel matrimonio
vero e proprio.[58]
Le doti del matrimonio non solo devono alleviare gli oneri del
medesimo, ma soprattutto hanno la funzione di renderlo più gioioso. Altrettanto
avviene anche nel matrimonio spirituale, dove Dio conferisce all’anima, sua
sposa, i doni di grazia non tanto per assisterla negli eventuali oneri, quanto
piuttosto per portarla alla perfezione della gioia soprannaturale. In questo
modo la remissione dei peccati come removens
prohibens è solo una disposizione a ricevere l’effetto essenziale della
giustificazione : la grazia santificante con l’insieme delle virtù e dei doni.
* La remissione dei peccati è il primo e non l’ultimo effetto della
giustificazione.
La remissione dei peccati precede la consecuzione della grazia da
parte del soggetto, ma la sua funzione è quella di disporre lo stesso soggetto
alla ricezione di doni più alti, tra i quali appunto la grazia santificante,
come una forza di vita soprannaturale che accompagna l’uomo durante il suo
cammino verso Dio fino al perfetto possesso del fine ultimo soprannaturale
nella visione beatifica. La grazia santificante è la causa formale della
remissione dei peccati, ma la sua azione non si esaurisce con questo primo
effetto piuttosto negativo (rimozione di un ostacolo)[59].
La Scrittura parla della grazia e della
pace per indicare appunto il movimento dell’uomo che lo porta dal peccato fino
alla vita eterna[60].
La vita spirituale comincia con la morte al peccato (primo effetto della
grazia), ma non si esaurisce qui, portando l’uomo fino alla perfetta quiete
della sua mente in Dio (pace, riconciliazione con Dio). La santificazione è una
vita con Dio e non solo l’assenza del peccato.
* La colpa non può essere perdonata senza un’azione della grazia da
parte di Dio.
La grazia è strettamente richiesta per la consecuzione della vita
eterna, la quale, essendo infinita, non può essere meritata se non da un agente
dotato di virtù quasi infinita. Allo stesso modo la grazia è necessaria per la
remissione dei peccati. Il peccato mortale infatti implica un allontanamento da
Dio fine ultimo e per conseguenza, offendendo il Bene sommo ed infinito,
anch’esso a sua volta è in qualche modo infinito e quindi, affinché possa
essere tolto di mezzo, si richiede una forza infinita che viene comunicata
all’uomo con la grazia.
Il peccato, una volta commesso, rimane nell’anima secondo il reato
ed ha bisogno di essere espiato. Una tale espiazione poi non si realizza
soltanto per una vita ordinata, perché il reato del peccato precedente rimane
nonostante la rettitudine di condotta morale ripresa in seguito (rettitudine a
livello di virtù acquisite perché la grazia è esclusa dal peccato), ma può
essere ottenuta per mezzo di una virtù in qualche modo infinita che distrugge,
cioè espia e copre, il peccato precedente[61].
In tal modo si può dire che dove c’è la remissione della colpa, c’
è anche la grazia non solo con i suoi effetti negativi, ma anche con quelli
positivi (gli effetti positivi infatti causano in ordine di causalità formale,
efficiente e finale quelli negativi), tra i quali bisogna considerare, oltre
all’effetto finale che è la consecuzione della vita eterna, anche gli effetti
intermedi come la resistenza alle singole tentazioni, in quanto anche un minimo
grado di grazia è sufficiente per resistere a qualsiasi tentazione.
La penitenza che termina alla remissione dei peccati, termina allo
stesso tempo alla grazia santificante con tutto l’insieme delle virtù
soprannaturali che ne deriva. Anche la remissione dei peccati veniali è dovuta
alla grazia in virtù della quale Dio non li imputa all’uomo e perciò, nello
stato di peccato mortale, i peccati veniali non sono rimessi. Solo con la
grazia che rimette il peccato mortale
riconciliandoci con Dio si ottiene di nuovo il perdono di tutti i
peccati compresi quelli veniali[62].
La remissione dei peccati è perciò
strettamente legata all’infusione della grazia e San Tommaso non parla solo
della grazia attuale, ma anche della grazia abituale, dicendo che nella
remissione della colpa la grazia non è un agente intermedio, bensì una forma
contraria al peccato, non è una causa strumentale, ma piuttosto una causa
formale.
Per illustrare la necessità della
grazia abituale San Tommaso si serve di un esempio metafisico: l’essere di un
ente richiede l’essenza, che è la forma naturale secondo la quale ogni cosa
creata riceve la sua esistenza come il principio per mezzo del quale ogni cosa
è quel che è. Ora, l’esempio scelto dal Santo Dottore suggerisce una stretta
necessità , perché l’essere di una cosa finita è impensabile senza un’essenza
precisa che ne è il principio in un tale ente determinato. Nella remissione dei
peccati sembra infatti necessaria l’infusione della grazia abituale, perché il
peccato che consiste nell’allontanamento da Dio fine ultimo, può essere
efficacemente distrutto solo per mezzo di un ristabilimento dell’ordine a
questo fine.
Ora la carità vicendevole,
amichevole, tra Dio e l’uomo è l’ordine dell’uomo al fine ultimo. Il peccatore
che se ne allontana è “odiato” da Dio, in quanto Dio vuole privarlo dell’ultimo
fine dal quale lui stesso ha deviato. Chi invece cessa di essere peccatore, a
chi sono rimessi i peccati, non è più nemico di Dio, ma ama Dio come suo fine
ultimo e ne è amato in quanto Dio stesso lo destina alla consecuzione della
beatitudine perfetta. Perciò la remissione del peccato avviene nella grazia che
implica un’amicizia tra Dio e l’uomo[63]54).
In questa prospettiva la grazia santificante, e non solo quella attuale, sembra
essere strettamente necessaria per la remissione dei peccati come sua causa
(nell’ordine della causalità formale) e come suo effetto immediato (nell’ordine
della causalità dispositiva).
Ci si può chiedere se Dio, de potentia absoluta, non potrebbe
rimettere il peccato senza infondere la grazia santificante[64].
Per la remissione del peccato è necessario il ristabilimento dell’ordine al
fine ultimo e quindi almeno un atto di carità sotto la mozione della grazia
attuale, ma la questione è se Dio potrebbe rimettere il peccato senza il dono
della grazia abituale. Ora, secondo quanto ha detto San Tommaso, sembra che per
lui sia necessaria la grazia abituale. Bisogna però distinguere in essa la sua
azione causale e il suo aspetto di essere un dono soprannaturale abitualmente
presente nell’anima del giusto.
Per quanto riguarda la causalitÃ
formale della grazia santificante nell’anima dei giustificati, essa è
necessaria per la remissione del peccato, ma Dio potrebbe produrre un effetto
simile senza il dono vero e proprio della grazia, rettificando le potenze
dell’anima e conservandole tali per mezzo di un continuo influsso della grazia
attuale, la quale, nel suo effetto, diventerebbe abituale, senza esserlo come
un dono. Per quanto riguarda infatti quell’aspetto della grazia santificante
secondo il quale essa è un dono reale nell’anima del giusto, l’essere dono implica
gratuità e per conseguenza Dio può produrre gli effetti della grazia
santificante senza conferirla come un dono abituale, ma gli stessi effetti
della grazia attuale sarebbero allora abituali, anche se non avrebbero un
essere costante nel soggetto giustificato.
Sarebbe infatti assurdo pensare che
Dio rimetta ad un uomo i suoi peccati senza che esso passi ad uno stato
abituale di amicizia con Dio; è possibile invece che questa amicizia rimanga
solo un influsso attuale continuato da parte di Dio con singoli atti di caritÃ
continuati da parte dell’uomo, senza il dono attuale della grazia. Ma se una
cosa simile potrebbe essere possibile de
potentia absoluta, de potentia
ordinata le cose stanno diversamente. Conviene infatti alla bontà e
sapienza divina di agire nei confronti dell’uomo secondo l’indole propria della
volontà divina, che non si limita a tendere al bene, ma a produrlo realmente
come un effetto costante. Inoltre la remissione dei peccati fa passare l’uomo
ad un altro stato di vita morale nei confronti di Dio ed è quindi conveniente
che ad uno stato corrisponda un vero e proprio abito e non solo una serie
continuata di atti disparati. Si può perciò concludere senza esitazione che
almeno in qualche modo la grazia abituale (sia come effetto, sia anche come
dono) è strettamente richiesta per il perdono dei peccati.
* La salvezza annunciata nel Vangelo comporta la remissione dei
peccati, la grazia santificante e la gloria.
Se la remissione dei peccati non è l’unico effetto della
giustificazione in genere, questo vale ancora di più per la giustificazione che
avviene per mezzo della predicazione del Vangelo. Essa infatti distrugge il
peccato, ma si estende anche ad una vita nuova nella grazia, che nella sua
consumazione perfetta diventa la gloria della beatitudine eterna[65].
La predicazione del Vangelo è ovviamente causa esterna ed assai remota della
giustificazione, ma la parola evangelica contiene in sé una virtù salvifica, la
quale produce i suoi frutti se l’uomo la accoglie nel suo cuore.
La parola del Vangelo rientra interiormente nel dinamismo della
giustificazione del cristiano se si considera la sua esistenza interiore
nell’uomo credente. In questo senso la Sacra Scrittura parla di una “parola che
è stata seminata in voi / cioè cristiani / e che può salvare le vostre anime”
(Gc 1, 21b). La parola accolta nell’anima purifica efficacemente dal peccato:
“voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato” (Gv. 15,3); per mezzo
di essa l’uomo consegue la grazia santificante, in quanto l’intrinseca veritÃ
della Parola santifica l’uomo: “Consacrali (secondo la Vulg. “sanctifica eos”)
nella verità . La tua parola è verità ” (Gv 17, 17); ed infine conduce alla vita
eterna: “Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6, 68). San Tommaso, leggendo
attentamente la Sacra Scrittura, è molto sensibile alla ricchezza degli effetti
della grazia giustificante in un modo tutto particolare nell’ambito dello
stesso Vangelo. Dio non si limita a perdonare i peccati dei cristiani per mezzo
di Cristo, ma li colma dei suoi doni: della grazia in questa vita e della
gloria in patria. ( fine parte del testo di P.Tomas Tyn)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 16 giugno 2019
[1] Testo tratto
dalla Bozza originale della Tesi di Dottorato "L'azione divina e la
libertà umana nel processo della giustificazione secondo la dottrina di San
Tommaso d'Aquino", testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli O.P.
(http://www.arpato.org/).
[2] Summa
Theologiae, I-II, q.113, a.6.
[3] Indipendentemente. Nota mia.
[4] Traduzione impropria
dell’agostiniana aversio a Deo che va
piuttosto tradotta come “allontanamento da Dio”. L’italiano “avversione” viene
bensì da aversio, ma col significato
di “ripugnanza”, “ostilità ”. Nota mia.
[5] Cfr.
IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.
[6] Cfr.
Summa Theologiae I-II, q.113, a.1
c.a.: “iustificatio passive accepta importat motum ad iustitiam; sicut et
calefactio motum ad calorem”.
[7] Cfr.
IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 ad 3:
“Iustificatio potest sumi dupliciter. Vel secundum quod respondet ad iustificari; et sic dicit motum ad
iustitiam predictam. Vel secundum quod sumitur ad iustifucatum esse; et sic est effectus formalis iustitiae
preadictae, quia ea aliquid formaliter iustificatum est, sicut albedine
albatum.
[8] Della bianchezza della parete. Nota mia.
[9] Forse è meglio dire: giustizia sociale. Nota mia.
[10]
Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.: “Cum autem iustitia de sui
ratione importat quamdam rectitudinem ordinis, dupliciter accipi potest. Uno
modo, secundum quod importat ordinem rectum in ipso actu hominis. Et secundum
hoc iustitia ponitur virtus quaedam: sive sit particularis iustitia, quae
ordinat actum hominis secundum rectitudinem in comparatione ad alium singularem
hominem: sive sit iustitia legalis, quae ordinat secundum rectitudinem actum
hominis in comparatione ad bonum commune multitudinis … Alio modo dicitur
iustitia prout importat rectitudinem
quamdam ordinis in ipsa interiori
dispositione hominis prout scilicet supremum hominis subditur Deo, et
inferiores vires animae subduntur supremae, scilicet rationi. Et hanc etiam
dispositionem vocat Philosophus, in V Ethic.,
iustitiam metaphorice dictam.”
[11] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.:
“Iustitia autem secundum Philosophum … tribus modis dicitur. Uno enim modo est specialis virtus
aequalitatem constituens in commutationibus et distributionibus communicabilium
bonorum quae sunt necessaria in vita. Alio
modo est nomen generale ad omnes virtutes, secundum quod actus earum ad
bonum commune ordinat secundum
directionem legis. Tertio modo
importat quemdam statum rectitudinis in homine quantum ad partes ipsius, prout
scilicet aliqua pars animae suo superiori subditur, sive alii parti, sive ipsi
Deo. Et hanc iustitiam nominat Philosophus metaphoricam,
eo quod diversae partes hominis computantur quasi diversae personae.
Haec autem rectitudo per quodlibet
peccatum tollitur, et per gratiam reparatur. Unde haec iustitia generalis etiam dicitur, in quantum
omnes virtutes includit, non quidem per modum totius universalis, sicut
praecedens iustitia; sed generalis dicitur per modum totius integralis. Et ad
hanc iustitiam motus iustificatio dicitur”.
[13]
Cfr. De Verit. q. 28, a.1 c.a.: “Dicitur
autem iustitia tripliciter. Uno
modo secundum quod est quaedam
specialis virtus contra alias cardinales
divisa, prout dicitur iustitia qua homo dirigitur in his quae veniunt in communicationem
vitae, sicut sunt contractus diversi. Haec autem virtus non est omni peccato
contraria, sed tantum illis peccatis quae circa huiusmodi communicationes
fiunt, sicut furtum, rapina, et alia huiusmodi. Unde sic non potest iustitia
hic accipi. Alio modo dicitur iustitia legalis, quae … est omnis virtus sola ratione
a virtute differens. Virtus enim secundum quod actum suum in bonum commune
ordinat, ad quod etiam intendit legislator, iustitia legalis dicitur, quia
legem servat: sicut fortis cum in acie
fortiter confligit propter salutem reipublicae. Sic ergo patet quod
quamvis omnis virtus sit iustitia legalis quodammodo, non tam quilibet actus
virtutis est actus legalis iustitiae, sed ille solus qui est ad bonum commune
ordinatus: quod potest contingere de actu cuiuslibet virtutis; et sic per
consequens nec omnis actus peccati iustitiae legali opponitur. Unde nec a
iustitia legali dici potest iusificatio, quae est remissio peccatorum. Tertio modo iustitia nominat quemdam
statum proprium, secundum quem homo se habet in debito ordine ad Deum, ad
proximum et ad seipsum, ut scilicert in eo inferiores vires superiori subdantur
… Et huic iustitiae omne peccatum opponitur, cum per quodlibet peccatum aliquid
de praedicto ordine corrumpatur. Et ideo ab hac iustitia iustificatio nominatur
sive sicut motus a termine, sive sicut effectus formalis a forma”.
[14]
Cfr.
Summa Theologiae I-II, q.100, a.2 ad
1: “adimpletio mandatorum legis etiam quae sunt de actibus aliarum virtutum,
habet rationem iustificationis, inquantum iustum est quod omnia quae sunt
hominis, rationi subdantur”.
[15]
Cfr. De
Verit. q.28, a.1 c.a.: “huic iustitiae (scil. metaphorice dictae) omne
peccatum opponitur, cum per quodlibet peccatum aliquid de praedicto ordine
corrumpatur. Et ideo ab hac iustitia iustificatio nominatur”.
[16]
Cfr.
ibid.: “non quilibet actus virtutis est actus legalis iustitiae, sed ille solus
qui est ad bene commune ordinatus: quod potest contingere de actu cuiuslibet
virtutis; et sic per consequens nec omnis actus peccati iustitiae legali
opponitur. Unde nec a iustitia legali potest dici iustificatio, quae est
remissio peccatorum”.
[17]
Cfr.
ibid. ad. 2: “iustificatio non dicitur a iustitia legali; quae est omins
virtus; sed a iustitia quae dicit generalem rectitudinem in anima, a qua potius
quam a gratia iustificatio denominatur: quia huic iustitiae directe et
immediate omne peccatum opponitur, cum omnes potentias animae attingat; gratia
vero est in essentia animae”.
[18]
Cfr.
IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.:
“Sicut autem ab essentia animae potentiae fluunt, ita rectitudo
potentiarum a gratia, quae est essentiae
perfectio. Et inter ipsas
potentias voluntas quae alias movet eis rectitudinem quodammodo largitur. Et
ideo praedictae iustitiae causa prima est gratia, et consequenter caritas, quae
voluntatem ad finem perficit, a quo est rectitudo praedicta. Et propter hoc
ipsa iustificatio et peccatorum remissio est effectus iustitiae generalis sicut
causae formalis proximae; sed caritatis et gratiae sicut causarum causae
proximae. Sicut aliquis aequatus dicitur et aequalitate et quantitate quae est
aequalitatis causa. Et quia a proximis causis vel terminis aliquid denominari
debet, ideo praedictus motus vel terminatio motus magis denominatur a iustitia
quam a caritate vel gratia”.
[19]
Cfr. De
Verit. q.28, a.1 ad 3: “caritas dicitur causa remissionis peccatorum, in
quantum per eam homo Deo coniungitur, a quo aversus peccato erat. Non tamen
omne peccatum directe et immediate caritati opponitur, sed praedictae
iustitiae”.
[20] Summa Theologiae I-II, q.113, a.1
ad 2: “fides et caritas dicunt ordinem specialem mentis humanae ad Deum
secundum intellectum vel affectum. Sed iustitia importat
generaliter totam rectitudinem ordinis. Et ideo magis denominatur huiusmodi
transmutatio a iustitia quam a caritate vel fide”.
[21]
Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.: “Haec autem iustitia in
homine potest fieri dupliciter: uno quidem modo per modum simplicis
generationis, qui est ex privazione ad formam, et hoc modo iustificatio posset
competere etiam ei qui non esset in peccato, dum huiusmodi iustitiam a Deo
acciperet, sicut Adam dicitur accepisse originalem iustitiam. Alio modo potest fieri hiusmodi iustitia in
homine secundum rationem motus, qui est de contrario in contrarium; et secundum
hoc iustificatio importat transmutationem quandam de statu iniustitiae ad
statum iustitiae praedictae”.
[22] Adamo nello stato di innocenza
possedeva già una giustizia soprannaturale che però non era ancora quella di
Cristo. Così il fatto che Adamo successivamente abbia ricevuto la
giustificazione cristiana, non supponeva propriamente una privazione, ma una
semplice assenza. Nota mia.
[23] Si intende naturalmente della
giustizia di Cristo, che Dio ha aggiunto ad Adamo dopo il peccato. Adamo prima
del peccato era già giusto, ma non ancora della giusitizia di Cristo. Nota mia.
[24]
Cfr. Summa
Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.; De
Verit. q.28, a.1 c.a.
[25]
Cfr. Summa Theologiae I-II, q. 21,
a.3 c.a.: “meritum et demeritum dicuntur in ordine ad retributionem, quae fit
secundum iustitiam. Retributio autem secundum iustitiam fit alicui ex eo quod
agit in profectum vel nocumentum alterius. Est autem consideradum quod
unusquisque in aliqua societate vivens, est aliquo modo pars et membrum totius
societatis. Quicunque ergo agit aliquid in bonum vel malum alicuius in
societate existentis, hoc redundat in totam societatem: sicut qui laedit manum,
per consequens laedit hominem. Cum ergo aliquis agit in bonum vel malum
alterius singularis personae, cadit ibi dupliciter ratio meriti vel demeriti.
Uno modo, secundum quod debetur ei retributio a singulari persona quam iuvat
vel offendit. Alio modo, secundum quod debetur ei retributio a toto collegio.
Quando vero aliquis ordinat actum suum directe in bonum vel malum totius collegii,
debetur ei retributio primo quidem et principaliter a toto collegio: secundario
vero, ab omnibus collegii partibus. Cum vero aliquis agit quod in bonum
proprium vel malum vergit, etiam debetur ei retributio, inquantum etiam hoc vergit
in commune secundum quod ipse est pars collegii: licet non debeatur et
retributio, inquantum est bonum vel malum singularis personae, quae est eadem
agenti, nisi forte a seipso secundum quandam similitudinem, prout est iustitia
nominis ad seipsum. Sic igitur patet quod actus bonus vel malus habet rationem
laudabilis vel culpabilis, secundum quod est in potestate voluntatis; rationem
vero rectitudinis et peccati secundum ordinem ad finem; rationem vero meriti
vel demeriti, secundum retributionem iustitiae ad alterum”.
[26]
Cfr. Summa
Theologiae I-II, q.58, a.2 c.a.: “cum nomen iustitiae aequalitatem
importet, ex sua ratione iustitia habet quod sit ad alterum: nihil enim est
sibi aequale, sed alteri. Et quia ad iustitiam pertinet actus humanos
rectificare, … necesse est quod alietas
ista quam requirit iustitia, sit diversorum agere potentium … Iustitia ergo
proprie dicta requirit diversitatem suppositorum: et ideo non est nisi unius
hominis ad alium. Sed secundum similitudinem accipiuntur in uno et eodem homine
diversa principia actionum quasi diversa agentia: sicut ratio et irascibilis et
concupiscibilis. Et ideo metaphorice in uno et eodem homine dicitur esse
iustitia, secundum quod ratio imperat irascibili et concupiscibili, et secundum
quod hae oboediunt rationi, et universaliter secundum quod unicuique parti
hominis attribuitur quod ei convenit. Unde Philosophus , in V Ethic., hanc iustitiam appellat secundum metaphoram dictam”.
[27]
Cfr.
Summa Theologiae I-II, q. 55, a.4 ad
4: “iustitiae est propria rectitudo quae constituitur circa res exteriores quae
in usum hominis veniunt, quae sunt propria materia iustitiae … Sed rectitudo
quae importat ordinem ad finem debitum et ad legem divinam, quae est regula
voluntatis humanae … communis est omni virtuti”.
[28]
Cfr. Summa
Theologiae I-II, q.100, a.2 ad 2: “iustitia proprie dicta attendit debitum
unius hominis ad alium: sed in omnibus aliis virtutibus attenditur debitum inferiorum
virium ad rationem. Et secundum rationem huius debiti, Philosophus assignat, in V Ethic., quandam iustitiam metaphoricam”
Cfr. anche Summa Theologiae I-II, q.47, a.7 ad 2: “sicut Philosophus dicit, in
V Ethic., quaedam metaphorica
iustitia et iniustitia est hominis ad seipsum, inquantum scilicet ratio regit
irascibilem et concupiscibilem. Et secundum hoc etiam homo dicitur de seipso vindictam
facere, et per consequens sibi ipsi irasci. Proprie autem et per se, non
contingit aliquem sibi ipsi irasci”.
[29] Cfr. Summa
Theologiae II-II, q.58, a.1 arg. 2 e ad 2: “rectitudo voluntatis non est
voluntas: alioquin, si voluntas esset sua rectitudo, sequeretur quod nulla
voluntas esset perversa. Sed secundum
Anselmum, in libro De Veritate,
iustitia est rectitudo. Ergo iusitia non
est voluntas”; “neque etiam iustitia est essentialiter rectitudo, sed causaliter
tantum: est enim habitus secundum quem aliquis recte operatur et vult ”.
[30]
Cfr.
De Malo, q.2, a.11 ad 14: “habilitas
ad gratiam non est idem quod iustitia naturalis, sed est ordo boni naturalis ad
gratiam. Nec tamen hoc est verum quod iustitia naturalis diminui non possit.
Rectitudo enim secundum hoc diminui potest, quod id quod erat rectum secundum
totum, in aliqua parte curvetur; et hoc modo
iustitia naturalis diminuitur secundum quod in aliquo obliquatur; puta, in eo
qui fornicatur, obliquatur naturalis iustitia quantum ad directionem
concupiscentiarum, et sic de aliis. In nullo tamen iustitia naturalis totaliter
corrumpitur”.
IV Sent.
d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.: “Tertio modo iustitia importat quemdam statum
rectitudinis in homine quantum ad partes ipsius, prout scilicet aliqua pars
animae suo superiori subditur, sive alii parti, sive ipsi Deo … Haec autem
rectitudo per quodlibet peccatum tollitur et per gratiam recuperatur. Unde haec iustitia generalis
etiam dicitur, inquantum omnes virtutes includit … per modum totius
integralis”.
[31] Cfr. Summa
Theologiae II-II, q.24, a.12 c.a.: “Continuatio … habitus in subiecto non
requirit continuitatem actus; unde ex superveniente contrario actu non statim
habitus acquisitus excluditur. Sed caritas, cum sit habitus infusus, dependet
ex actione Dei infundentis; qui sic se habet in infusione et conservatione
caritatis, sicut sol in illuminatione aëris … Et ideo sicut lumen statim cessaret esse in aëre per
hoc quod aliquod obstaculum poneretur illiminationi solis, ita etiam caritas
statim deficit esse in anima, per hoc quod aliquod obstaculum ponitur
influentiae caritatis a Deo in animam. Manifestum est autem quod per quodlibet
mortale peccatum, quod divinis praeceptis contrariatur, ponitur praedictae
infusioni obstaculum; quia ex hoc ipso quod homo eligendo praefert peccatum
dvinae amicitiae, quae requirit ut Dei voluntatem sequamur, consequens est ut
statim per unum actum peccati mortalis habitus caritatis perdatur”.
[32]
RATRAMNUS, De praedestinatione Dei, Lib.I; MPL 121, 61 A: “primus homo habuit
inchoandi boni liberum arbitrium, quod tamen Dei adiutorio perficeretur. Nos
vero et inchoationem liberi arbitrii, et perfectionem de Dei sumimus gratia, quia et incipere et perficere bonum
de ispo habemus, a quo et gratiae donum datum, et liberum arbitrium in nobis
est restauratum”.
[33]
Petrus LOMBARDUS, Sententiarum Liber
II, d.24; MPL 192, 701-2: “collata est / scil. primo homini / potentia per quam
poterat stare, id est, non declinare ab eo quod acceperat; sed non poterat
proficere in tantum, ut per gratiam
creationis sine alia mereri salutem valeret. Poterat quidem per illud
auxilium gratiae creationis resistere modo, sed non perficere bonum … sed non
poterat sine alio gratiae adiutorium spiritualiter vivere, quo vitam mereretur
aetarnam … fuerit illud adiutorum homini datum in creatione, quo poterat manere
si vellet. Illud utique fuit libertas arbitrii ab omni labe et corruptela
immunis, atque voluntatis rectitudo, et omnium naturalium potentiarum animae
sinceritas atque vivacitas”.
[34]
Cfr.
Summa Theologiae I, q.95, a.1 ad 4:
“Magister loquitur secundum opinionem illorum qui posuerunt hominem non esse
creatum in gratia, sed in naturalibus tantum. Vel potest dici quod, etsi homo
fuerit creatus in gratia, non tamen habuit
ex creatione naturae quod posset proficere per meritum, sed ex
superadditione gratiae”. Appare chiaramente la distinzione natura-grazia, la
giustizia strettamente soprannaturale di cui fu dotato il primo uomo dal primo
istante della creazione e il dono della grazia santificante sopraggiunto alla
natura come principio di merito.
[35]
Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 ad 1: “tota ista rectitudo a voluntate
originaliter est, quae est principium merendi et demerendi; se etiam est in
aliis partibus animae quasi rectificatis, sicut in subiecto”.
[36]
Cfr. Summa Theologiae I, q.23, a.7 c.a.: “Inter omnes autem
creaturas, principalius ordinantur ad bonum universi creaturae rationales,
quae, inquantum huiusmodi, incorruptibiles sunt; et potissime illae quae
beatitudinem
consequuntur, quae immediatus attingunt ultimum finem. Unde certus est Deo
numerus praedestinatorum, non solum per modum cognitionis, sed etiam per modum
cuiusdam principalis praedestinationis. Non sic autem omnino est de numero
reproborum; qui videntur esse
praeordinati a Deo in bonum electorum, quibus omnis cooperantur in bonum”.
[37]
29)
Cfr. In Rm. VIII, l.6, nn.697-698: “Inter
omnes autem partes universi excellunt sancti Dei, ad quorum quemlibet pertinet
quod dicitur Matth. XXV, 23: Super omnia bona sua constituet eum. Ed ideo
quicquid accidit, vel circa ipsos vel alias res, totum in bonum eorum cedit:
ita quod verificatur quod dicitur Prov. XI, 29: Qui stultus est, serviet sapienti,
quia scilicet etiam mala peccatorum in bonum iustorum cedunt. Unde et Deus specialem curam de iustis habere dicitur,
secundum illud Ps. XXXIII, 16: Oculi Domini super
iustos, inquantum scilicet sic de eis curat, quod nihil mali circa eos esse
permittit, quod non in eorum bonum convertat”.
[38]Cfr. De Verit.
q.5, a.7 c.a.: “Ex hoc autem quod provvidendo deficiunt, vel rectitudinem
servant, boni vel mali dicuntur; ex hoc autem quod providentur a Deo, eis bona
vel mala praestantur; et secundum quod ipsi diversimode se habent in
providendo, diversimode providetur eis a Deo. Si autem rectum ordinem in
providendo servant; et in eis divina providentia ordinem servat congruum
humanae dignitati, ut, scilicet, nihil eis eveniat quod in eorum bonum non
cedat; et quod omnia quae eis proveniunt eos in bonum promoveant; secundum
illud quod dicitur Rom VIII, 28:
Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum. Si autem providendo ordinem non
servant, quod congruit creaturae
rationali, sed provvideant secundum
modum brutorum animalium, et divina provvidentia de eis ordinabit secundum
ordinem qui brutis competit; ut scilicet ea quae in eis vel bona vel mala sunt,
non ordinentur in eorum bonum proprium, sed in bonum aliorum, secundum quod in Psalm XLVIII, 13, dicitur: Homo, cum in
honore esset, non intellexit: comparatus est iumentis insipientibus et similis
factus est illis. Ex hoc patet quod altiori modo divina providentia gubernat
bonos quam malos: mali enim dum ab uno ordine providentiae exeunt, ut scilicet
Dei voluntatem non faciant, in alium ordinem dilabuntur, ut scilicet de eis
divina voluntas fiat; sed boni quantum ad utrumque sunt in recto ordine
providentiae”.
[39]
Cfr. Summa
Theologiae I, q.22 , a.2 ad 4: “Hominum autem iustorum quodam
excellentiori modo Deus habet providentiam quam impiorum, inquantum non
permittit contra eos evenire aliquid, quod finaliter impediat salutem eorum:
nam diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum, ut dicitur Rom 8, 28. Sed ex hoc ipso quod impios
non retrahit a malo culpae, dicitur eos dimittere. Non tamen ita, quod
totaliter ab eius providentia excludantur: alioquin in nihilum deciderent, nisi
per eius providentiam conservarentur”.
[40] 32) Cfr. Summa Theologiae I, q.13, a.8 arg.1 e ad
1.
[41]
Cfr.
I Sent. d.18, q.1, a.5 ad 6: “Deus,
quamvis significet essentiam divinam quantum ad id cui imponitur, tamen quantum
ad id a quo imponitur nomen, significat operationem … Et ideo potest dici Deus
noster. Tamen diversimode potest dici Deus omnium et iustorum; Deus enim
dicitur omnium propter relationem principii, inquantum scilicet est creator
omnium; dicitur autem Deus iustorum specialiter, secundum rationem finis quem
contingunt; et ideo dicitur etiam ab eis haberi. Alia enim, licet ordinentur in
ipsum sicut in finem, non tamen consequuntur ipsum nisi iusti, qui coniuguntur
sibi per gratiam et gloriam: et ideo etiam omnium communiter dicitur vel finis
vel aliquid huiusmodi: sed absolute dicitur de iustis quia Deus est eorum, quia
habent ipsum sicut suam haereditatem, et per quemdam modum passionis”.
[42] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.
[43]
IV
Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol: “iustificatio
de sui ratione importat motum ad iustitiam … Haec autem rectitudo per quodlibet
peccatum tollitur, et per gratiam reparatur.
Unde haec iustitia generalis etiam
dicitur, inquantum omnes virtutes includit, non quidem per modum totius
universalis … sed generalis dicitur per modum totius integralis. Et ad hanc
iustitiam motus iustificatio dicitur. In quolibet autem motu est recessus a
termino, et hoc in praedicta assignatione tangitur in hoc quod dicitur:
“remissio peccatorum”; et accessus ad terminum qui tangitur in hoc quod
dicitur: “consummatio bonorum operum”. La definizione proviene dalla GLOSSA in Rm VIII.
[44]
Cfr.
Summa Theologiae I-II, q.113, a.5
c.a.: “iustificatio impii est quidam motus quo humana mens movetur a Deo a
statu peccati in statum iustitiae”. Cfr. ibid.,
a. 6 c.a.: “iustificatio est quidam motus quo anima movetur a Deo a statu
culpae in statum iustitiae”.
[45]
Cfr.
De Verit. q.28, a.1. c.a.: “Si vero
iustificatio accipiatur ut quidam motus,
cum oporteat eumdem motum intelligi quo peccatum aufertur et iustitia
inducitur, idem erit iustificatio,
quod peccatorum remissio, solum ratione differens: prout ambo eumdem motum nominant,
sed unum, secundum respectum ac terminum a quo, aliud vero secundum respectum ad terminum ad quem. Si autem
accipiatur iustificatio per viam mutationis, sic aliam mutationem significat
iustificatio, scilicet iustitiae generationem; et alia peccatorum remissio,
scilicet corruptionem culpae. Sic autem iustificatio et remissio peccatorum non
erunt idem nisi per concomitantiam. Utrolibet autem modo iustificatio
accipiatur, oportet quod a tali iustitia dicatur quae peccato cuilibet opposita
sit: nam, et motus est de contrario in contrarium, et generatio et corruptio
sese concomitantes contrariorum sunt”.
[46]
Cfr.
De Verit. q.28, a.6 c.a.: “si culpa
omnino non est aliquid positive, idem est infusio gratiae et remissio culpae
secundum rem; secundum rationem vero non idem. Si autem culpa aliquid ponit non secundum rationem, sed
re; est aliud remissio culpae et infusio gratiae, si considerentur ut
mutationes, quamvis in ratione motus sint unum … Culpa autem aliquid ponit et
non solam absentiam gratiae. Absentia enim gratiae secundum se considerata
habet tantum rationem poenae, non autem rationem culpae, nisi secundum quod
relinquitur ex actu voluntario praecedente; sicut tenebra non habet rationem
umbrae nisi secundum quod relinquitur ex interpositione corporis opaci. Sicut
ergo ablatio umbrae importat non solum remotionem tenebrae, sed remotionem
corporis impedientis; ita remissio culpae non solum importat ablationem
absentiae gratiae, sed ablationem impedimenti gratiae, quod erat ex actu
peccati praecedente; non ut actus ille non fuerit, quia hoc est impossibile,
sed ut propter illum influxus gratiae non impediatur. Patet igitur quod
remissio culpae et infusio gratiae non sunt idem secundum rem”.
[47]
Cfr.
M. FLICK, SJ, L’attimo della
giustificazione secondo S. Tommaso, Romae 1947, In: Analecta Gregoriana, Series Facultatis Theologicae IX, sectio B,
n.17, p.9: “Vi è il pericolo, e questo pericolo è molto grande specialmente
quando si tratta di S. Tommaso, che ognuno vuole avere per protettore e
alleato, di presentare le proprie concezioni come se fossero quelle dell’autore
di cui si pretende riferire esattamente il pensiero”.
[48]
Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.8 c.a.: “propter hoc enim ille qui
iustificatur, detestatur peccatum, quia est contra Deum: unde motus liberi
arbitrii in Deum praecedit naturaliter motum liberi arbitrii in peccatum, cum
sit causa et ratio eius”.
[49]
Cfr.
Summa Theologiae III, q.85, a.6 c.a.:
“in iustificatione impii simul est motus liberi arbitrii in Deum, qui est actus
fidei per caritatem formatus, et motus liberi arbitrii in peccatum, qui est
actus poenitentiae. Horum autem duorum actuum primus naturaliter praecedit
secundum: nam actus poenitentiae virtutis est contra peccatum ex amore Dei,
unde primus actus est ratio et causa secundi. Sic igitur poenitentia non est
simpliciter prima virtutum, nec ordine temporis, nec ordine naturae: quia
ordine naturae simpliciter praecedunt ipsam virtutes theologicae. Sed quantum
ad aliquid est prima inter ceteras virtutes ordine temporis, quantum ad actum
eius qui primus occurrit in iustificatione impii. Sed ordine naturae videntur
esse aliae virtutes priores, sicut quod est per se prius est eo quod est per
accidens: nam aliae virtutes per se videntur esse necessariae ad bonum hominis;
poenitentia autem supposito quodam, scilicet peccato praeexistenti”.
[50]
Ibid.
ad 2: “in motibus successivis recedere a termino est prius tempore quam
pervenire ad terminum; et prius natura quantum est ex parte subiecti, sive
secundum ordinem causae materialis. Sed secundum ordinem causae agentis et finalis, prius est pervenire ad
terminum: hoc enim est quod primo agens intendit. Et hic ordo praecipue
attenditur in actibus animae”.
[51] Cfr. Summa
Theologiae I-II, q.113, a.8 ad 1: “quia infusio gratiae et remissio culpae
dicuntur ex parte Dei iustificantis, ideo ordine naturae prior est gratiae
infusio quam culpae remissio. Sed si sumantur
ea quae sunt ex parte hominis, iustificati, est e converso: nam prius est
naturae ordine liberatio a culpa quam consecutio gratiae iustificantis. Vel
potest dici quod termini iustificationis sunt culpa sicut a quo, et iustitia sicut
ad quem: gratia vero est causa remissionis culpae, et adeptionis iustitiae”.
[52]
Cfr. I Sent. d.17, q.1, a.4, q.la 1 sol: “Ex parte autem causae materialis
se tenet secundum quandam reductionem
omne illud per quod materia efficitur propria huius formae, sicut
dispositiones et remotiones impedimentorum. Et ideo in generatione naturali, quando corruptio
unius est generatio alterius per hoc quod forma una inducitur et alia
expellitur, remotio formae praeexistentis se tenet ex parte causae materialis.
Et ideo secundum ordinem causae materialis praecedit naturaliter introductionem
alterius formae, sed secundum ordinem causae formalis est e converso. Et quia
forma et finis et agens incidunt in idem numero vel specie, ideo etiam in
ordine causae efficientis introductio formae prior est, quia forma prior
introducta est similitudo formae agentis per quam agens agit. Et similiter in
ordine causae finalis: quia natura principaliter intendit introductionem
formae, et ad hanc ordinat expulsionem omnis eius cum quo non potest stare
formae intentio. Unde, cum gratiae
infusio et remissio culpae … se habeat sicut introductio unius formae et
expulsio alterius, constat quod secundum ordinem causae materialis, remissio culpae
praecedit infusionem gratiae; sed secundum ordinem causae formalis, efficientis
et finalis, infusio gratiae natura prior est. Et propter hoc etiam utrumque
invenitur dici causa alterius. Infusio enim gratiae est causa remissionis
culpae per modum causae formalis; sed extirpatio vitiorum dicitur operari
virtutum ingressum per modum causae materialis”.
[53]Cfr.
De Verit. q.28, a.7 c. a.: “quandocumque
a materia una forma expellitur et alia inducitur, expulsio formae praecedentis
est prior naturaliter in ratione causae materialis:
omnis enim dispositio ad formam reducitur ad causam materialem: denudatio autem materiae a forma
contraria, est quaedam dispositio ad formae susceptionem. Subiectum etiam, id est
materia … numerabilis est: numeratur enim secundum rationem, in quantum in eo
praeter subiecti substantiam invenitur privatio, quae se tenet ex parte
materiae et subiecti. Sed in ratione causae formalis
est prior naturaliter introductio formae; quae formaliter perficit subiectum,
et espellit contrarium … Sic ergo patet quod simpliciter loquendo secundum
ordinem naturae, prior est gratiae infusio quam culpae remissio; sed secundum ordinem
causae materialis est e converso”.
[54]
Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.3, q.la 5 sol: “illa quae per accidens se habent
ad aliquid, non includutur in illo. Remissio autem culpae se habet
accidentaliter ad gratiae infusionem, quia accidit ex subiecto in quo culpam
invenit. Posset enim esse infusio gratiae sine hoc quod culpa remitteretur,
sicut in statu innocentiae fuit, et in Christo homine quantum ad primum instans
suae conceptionis; et ideo infusio gratiae non includit culpae remissionem. Unde
cum ad iustificationem impii de qua loquitur sit necessaria culpae remissio,
oportet quod connumeretur gratiae infusioni”.
[55]
Cfr.
Summa Theologiae I-II, q.113, a.6 ad
2: “gratiae infusio et remissio culpae dupliciter considerari possunt. Uno
modo, secundum ipsam substantiam actus. Et sic idem sunt: eodem enim actu Deus
et largitur gratiam et remittit culpam. Alio
modo possunt considerari ex parte obiectorum. Et sic differunt, secundum
differentiam culpae quae tollitur, et gratiae quae infunditur. Sicut etiam in
rebus naturalibus generatio et corruptio differunt, quamvis generatio unius sit
corruptio alterius”.
[56] Nel quale è assente la grazia
(NdC).
[57]
Cfr.
IV Sent. d.17, q.1, a.3, q.la 5 ad 2:
“peccatum et gratia non se habent sicut affirmatio et negatio, vel sicut
privatio et habitus; quia aliquis potest esse gratia destitutus et tamen non
habebit peccatum: sicut patet de Adam secundum illos qui dicunt eum non fuisse
in gratia creatum, quia peccatum aliquid ponit vel esse vel fuisse in peccante”.
[58]
Cfr.
IV Sent. d. 49, q.4, a.1 ad 3:
“dotibus per se convenit illud quod per dotes efficitur, scilicet solatium
matrimonii; sed per accidens illud quod per eas removetur; scilicet onus
matrimonii, quod per dotes alleviatur; sicut gratiae per se convenit facere
iustum, sed per accidens quod de impio faciat iustum. Quamvis ergo in
matrimonio spirituali non sint aliqua onera, est tamen ibi summa iucunditas; et
ad hanc perficiendam iucunditatem dotes sponsae conferuntur, ut scilicet
delectabiliter per eas sponso coniugatur”.
[59]
50)
Cfr. Summa Theologiae III, q.72, a.7 ad
1: “gratiae gratum facientis est remissio culpae: habet tamen et alios
effectus, quia sufficit ad hoc quod promoveat hominem per omnes gradus usque in
vitam aeternam”.
[60]
51)
Cfr. In Gal. I, lect.1, n.11: “Nullus
… potest esse in vera vita spirituali, nisi prius moriatur peccato. Secundum
est pax, quae est quietatio mentis in fine, quae in Glossa dicitur esse
reconciliatio ad Deum”.
[61]
52) Cfr.
IV Sent. d.17, q.1, a.3, q.la 1 sol.:
“Sicut autem beatitudo futura infinitatem habet ex obiecto, et per consequens
facit actus suos meritorios aliquo modo infinitae virtutis, ut sint tali fini
proportionati; ita offensa in Deum commissa habet quandam infinitatem ex eo in
quem commissa est. Et ideo ad culpae remissionem non sufficit humana natura. Et
proter hoc oportet quod ad eius remissionem sicut ad merendum vitam aeternam
gratia infundatur”. Cfr. ibid. ad 2:
“destructio culpae prius existentis non potest fieri nisi per gratiam; quia
illa innocentiae bonitas quae inter utrumque media videtur, non sufficeret ad
hoc quod dignum redderet immunitate ab infinita offensa commissa prius, quamvis
sufficeret ut dignum redderet illum in quem peccatum non praecessit”.
[62]
53)
Cfr. Summa Theologiae III, q.62, a.6
ad 3, dove S.Tommaso prova come con la circoncisione vengono rimessi i peccati
ed è infusa la grazia con i suoi effetti negativi e positivi. Cfr Summa Theologiae III, q.89, a.1 c.a.
dove S.Tommaso afferma che la penitenza, portando alla remissione dei peccati,
porta anche alla grazia. Per la non-imputazione dei peccati veniali, cfr. Summa Theologiae III, q.87, a.4 c.a.
[63]
54) Cfr.
IV Sent. d.17, q.1, a.3, q.la 1, ad 1:
“gratia in destructione culpae non se habet sicut agens medium, sed sicut causa
formalis, qua peccatum remittitur: sicut ignis frigus aufert calore in subiecto
causato, non sicut instrumento, sed sicut forma contraria; et in creatione
etiam est forma naturalis, qua res creata esse formaliter accipit, vel etiam
ipsum quo est, quidquid sit illud”.
Cfr. Contra Gentes III 157, n.3301: “Offensa non nisi per dilectionem
tollitur. Sed per peccatum mortale homo Dei offensam incurrit: dicitur enim
quod Deus peccatores odit, inquantum vult eos privare ultimo fine, quem his
quos diligit praeparat. Non ergo homo potest a peccato mortali resurgere nisi
per gratiam, per quam fit quaedam amicitia inter Deum et hominem”.
[64] 55) A questo quesito risponde positivamente ad
es. A. GOUDIN, OP, Tractatus Theologici, ed. DUMMERMUTH,
Lovanii, Peeters, 1874, tomus II, quaest. VII, a.2 ,
concl. 2 , pp. 351-352, dove dice che basterebbe per la remissione un atto di carità sotto la mozione della grazia
attuale, senza il dono della grazia abituale.
[65]
Cfr.
In Rm. I, lect.6, n.99: “per verbum
evangelii remittuntur peccata, … per evangelium homo consequitur gratiam
sanctificantem … / evangelium / perducit ad vitam aetenam …”.
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