Antichi e Moderni. Per una giusta lettura degli scritti di Tomas Tyn. In particolare la sua dottrina della Giustificazione




Antichi e Moderni.

Per una giusta lettura degli scritti di Tomas Tyn.
In particolare la sua dottrina della Giustificazione

Chi ha dimestichezza con gli scritti del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, si sarà certamente accorto di come egli, soprattutto nelle sue opere di filosofia e teologia, faccia frequente uso di due categorie largamente adoperate dai tomisti preconciliari e non solo da loro, ma dallo stesso Magistero della Chiesa: gli «Antichi» e i «Moderni», guardando con ammirazione ed approvazione agli Antichi, e invece con disapprovazione e rifiuto ai «Moderni».  Che cosa intende dire esattamente Padre Tyn con questi appellativi? Occorre fare attenzione, perché c’è il rischio dell’equivoco, che intendo appunto dissipare in questo articolo.

Se qualcuno interpretasse questo linguaggio di Padre Tomas come se  fosse un segno di arretratezza o conservatorismo, sbaglierebbe di grosso e dimostrerebbe di fraintenderlo gravemente. Se infatti osserviamo attentante, nel contesto tyniano, a chi precisamente Tyn si riferisce, vedremo facilmente che gli Antichi sono i massimi filosofi greci, Socrate, Platone ed Aristotele, mentre i Moderni si assommano in quella che i discepoli di Cartesio hanno chiamato con tanta sicumera, insistenza e purtroppo capacità persuasiva «filosofia moderna» il sistema del loro maestro, sicchè sono riusciti ad imporre questa denominazione agli stessi storici della filosofia, spesso cartesiani essi stessi, sicchè oggi come oggi anche storici non cartesiani chiamano «filosofia moderna» il cartesianismo.

Padre Tomas assume questo linguaggio allora comune tra i tomisti degli anni del preconcilio. Abbiamo visto chi fossero per lui Antichi e Moderni. Chi dunque  non verificasse con esattezza a chi Padre Tomas si riferiva precisamente, potrebbe avere l’impressione di un culto feticistico per l’Antichità, per giunta pagana; mentre l’opposizione ai moderni potrebbe sembrare una condanna globale ed indiscriminata, per la quale la modernità appare, come si esprime S.Pio X, la «somma di tutte le eresie», senza che si salvi la benchè minima ombra di verità.

Invece, il linguaggio di Tyn, che, come vedremo, è del tutto innocente, si oppone a quello che già da prima del Concilio era proprio di alcuni tomisti e che ha avuto largo successo a partire dalla teologia postconciliare, ossia la preferenza data ai cosiddetti «moderni», sottintendendo una forte antipatia per la teologia scolastica, considerata superata e la simpatia per l’idealismo moderno, secondo il modulo dei modernisti condannati da S.Pio X. 

Così nella prima metà del secolo scorso si cominciò a credere possibile non un tomismo scolastico, come quello raccomandato dai documenti di Leone XIII fino a quelli di Pio XII, ma un tomismo cartesiano, kantiano o hegeliano, legato al luteranesimo, con l’idea che un tomismo siffatto potesse servire al dialogo col pensiero moderno e all’ecumenismo.

Nel contempo, però, restava tra i tomisti conservatori un’opposizione eccessiva alla teologia postcartesiana e protestante. Si profilò inoltre sempre più negli anni 30-40, soprattutto tra i Domenicani francesi, la necessità di una fedeltà a Tommaso tale da realizzare un’assunzione critica del pensiero moderno. Sotto questo aspetto ha molti meriti la Scuola di Le Saulchoir, dove insegnarono  Chenu, Congar e Gardeil. Questo progetto è stato poi fatto ufficialmente proprio dall’Ordine domenicano nelle Costituzioni  del 1968.

Ora, bisogna notare che il giovane studente di teologia Tomas Tyn, Frate domenicano da pochi anni,  venne invece a sperimentare negli anni fine 60 in Germania un tentativo di rinnovamento tomista modernista e filoprotestante nello Studio Teologico Domenicano di Walberberg, che sarebbe stato chiuso di lì a pochi anni per queste tendenze. 

E lì Fra Tomas ebbe come docente il Padre Otto Pesch, uscito poi dall’Ordine, il quale, sulla base di uno studio accuratissimo sia di Tommaso che di Lutero, credeva di poter sostenere che la dottrina luterana della giustificazione non era eretica, ma assimilabile alla concezione tomista. Il giovane Tomas si accorse dell’inganno, ma non riuscendo ad imporsi sull’ambiente infetto di modernismo, chiese ed ottenne dal Maestro dell’Ordine, l’allora ottimo Padre Aniceto Fernandez, di proseguire e terminare la sua formazione teologica nello Studio  bolognese, per addottorarsi pochi anni dopo all’Angelicum di Roma proprio con una tesi che criticava il concetto luterano di giustificazione in base a quello tomista.

Questo tema della giustificazione resta fondamentale anche oggi nel dialogo ecumenico. Al riguardo, tutti conosciamo la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana mondiale a cura del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani  del 1999. 

Questo documento aggiorna sugli ultimi risultati del dialogo ecumenico sull’argomento, ma non è un testo del Magistero. È un semplice parere consultivo (“Consiglio”) e quindi non costituisce magistero vincolante.  In esso sono ribaditi i punti dottrinali sui quali siamo d’accordo con i luterani, punti che peraltro già il Concilio di Trento aveva notato. 

Ma da parte luterana non appare segno che le correzioni, distinzioni e precisazioni del Concilio di Trento siano state recepite: l’esistenza del libero arbitrio, il giustificato non è solo dichiarato giusto, ma è realmente giusto; la natura è ferita e non totalmente corrotta, la distinzione fra il peccato e la concupiscenza, la necessità delle opere, il merito soprannaturale, la grazia non è esterna, ma inerente all’anima, l’incompatibilità fra lo stato di peccato e lo stato di grazia, il dovere di ascoltare il Magistero della Chiesa.

Nei suoi scritti sulla giustificazione, Padre Tyn espone con ampiezza e stringente  argomentazione questi punti di dottrina. A questo articolo seguirà uno stralcio della bozza inedita della tesi di licenza in teologia di Padre Tyn presso lo Studio bolognese, dedicata appunto al confronto fra la concezione tomista e quella luterana della Giustificazione.

Questi scritti di Padre Tyn  hanno uno stretto rapporto con l’attività ecumenica, che non può esaurirsi, come ordina lo stesso documento conciliare sull’ecumenismo, nella presa d’atto dei punti in comune, ma questa presa d’atto è solo la base il punto di partenza per far presenti ai fratelli separati quei punti di dottrina. che essi devono accogliere, se vogliono entrare nella piena comunione con la Chiesa Romana, che costituisce il fine ultimo dell’ecumenismo[1]

Padre Tomas insiste in modo particolare nel sottolineare che la grazia della giustificazione, benché lasci nella vita presente l’uomo nella sua tendenza al peccato («concupiscenza»), conseguente alla colpa originale, toglie effettivamente e realmente la colpa del peccato attuale, per cui l’uomo, collaborando per mezzo della virtù morale della giustizia, ossia le buone opere,  con l’azione della grazia, viene a partecipare della stessa giustizia di Cristo, la cui giustizia, certamente, in quanto divina, trascende la nostra; e tuttavia, giustificati da Cristo, partecipiamo della sua stessa giustizia, che pertanto diventa, come dice il Concilio di Trento, «inerente all’anima» (Denz.1547). 

La falsa filosofia moderna di Cartesio

Per quanto riguarda la denominazione «filosofia moderna» per dire filosofia cartesiana, c’è da notare che, prima del Concilio, questa ingannevole denominazione era stata fatta propria persino dai tomisti, i quali, pertanto, apparivano od erano presentati come avversari della «filosofia moderna», dandosi così la zappa sui piedi col far la figura di sorpassati reazionari, nemici della «filosofia moderna».

In realtà questi tomisti combattevano l’idealismo cartesiano e i suoi derivati fino ad Hegel e Gentile. Ma essi non si accorgevano di fare un favore agli avversari riassumendo in essi la «filosofia moderna» e facendo così la figura di combattere la filosofia moderna, mentre in realtà ne combattevano gli errori.

Dimenticavano che la vera filosofia moderna, ben altra da quella inventata ad usum Cartesii, conteneva anche dei valori. Non tenevano conto inoltre del fatto che la modernità, come tutti i grandi fenomeni culturali, conteneva valori accanto ad errori. Avrebbero dovuto pertanto parlare di errori della filosofia moderna, salvandone i valori, e precisare che quella che i cartesiani chiamano «filosofia moderna», è quella inventata da Cartesio, che non ha affatto modernizzato, ossia fatto progredire la filosofia, ma l’ha fatta retrocedere ai tempi della sofistica presocratica, come notò anche Heidegger, che pur non mancava di simpatia per Cartesio.

Cartesio ha voluto presentarsi come correttore di Aristotele, come se lo Stagirita non avesse fondato già lui la filosofia su basi inconcusse, e fosse invece lui, Cartesio, a donare finalmente all’umanità, dopo secoli e millenni di buio e di incertezza, il saldo fondamento della scienza e della conoscenza.

Ma quello che è più scandaloso in Cartesio è il fatto che egli si considerava cattolico e allora vorremmo chiedergli, a parte il suo stolto rifiuto di Aristotele, tutto sommato, un pagano, come ha potuto avere la presunzione di fondare finalmente lui un sapere razionale certo e definitivo, partendo  dal presupposto che fino ad allora l’umanità non aveva raggiunto la certezza razionale, e quindi mettendo in dubbio le certezze razionali di tutti i sapienti che lo avevano preceduto, degli autori della Sacra Scrittura, di Gesù Cristo e degli Apostoli, nonchè di tutto il Magistero della Chiesa fino a lui. Allora Gesù Cristo non ha avuto una ragione salda come la sua? 

Si comprende come la Chiesa nel 1663 mise all’Indice le opere di questo grande millantatore. Volendo mettere le cose al loro posto, potremmo chiederci che razza di cattolicesimo è stato quello di Cartesio, nel farsi superare in fatto di certezza razionale da un pagano come Aristotele? E come hanno potuto tanti cattolici lasciarsi abbindolare da Cartesio, piuttosto che stare con Aristotele, soprattutto nell’interpretazione che ne dà S.Tommaso d’Aquino? Ma Padre Tyn non fa parte  di questa schiera infinita di gnostici stolti e presuntuosi, che sono stati la rovina dell’intelligenza filosofica moderna.

È chiaro che Padre Tomas riconosce il progresso filosofico avvenuto con l’avvento del cristianesimo fino a Tommaso d’Aquino. Riconosce anche il progresso avvenuto fino ai nostri giorni grazie ai discepoli e commentatori dell’Aquinate. Riconosce ovviamente il progresso operato dal Magistero della Chiesa nella comprensione del deposito rivelato, fino ai documenti del Concilio Vaticano II e al Papa allora regnante, S.Giovanni Paolo II.

«Io ho ricostruito ciò che era distrutto» (Ez 36,36)

In ogni caso la nota o preoccupazione predominante del pensiero di Padre Tyn non è tanto quella progressista, non è tanto quella di far avanzare il pensiero filosofico e teologico, quanto quella di segnalare la decadenza della filosofia e della teologia avvenuta per l’influsso degli errori moderni e quindi di ricordare ai nostri contemporanei, spesso frastornati da un ritorno di paganesimo, molti grandi valori dimenticati, appartenenti non solo al mondo classico, ma anche alla sapienza medioevale.

Padre Tomas vuol ricondurre i suoi lettori a ritrovare ciò che è stato smarrito o perduto, a ricostruire ciò che è stato distrutto, a rimettere in onore ciò che è stato disprezzato, a illuminare nuovamente ciò che è stato oscurato, a ridar forma a ciò che è stato deformato. Si nota che egli esce da un’esperienza sociale che fu quella di una Chiesa oppressa dal regime comunista, per cui il progresso teologico era stato bloccato e tutto quello che la Chiesa era riuscita a fare era stato di conservare almeno i testi della produzione teologica, alla quale si era giunti al momento dell’instaurazione del regime comunista.

Quindi a Padre Tomas, più che far avanzare un pensiero teologico, quale quello che in Italia aveva potuto essere prodotto nei decenni precedenti in regime di libertà della Chiesa, dopo il Concilio, interessava riprendere le fila col lavoro teologico interrotto con l’avvento del comunismo cinquant’anni prima; ma nel contempo si era accorto che in Italia, col pretesto del rinnovamento conciliare, c’era il rischio di dimenticare quel patrimonio teologico,  che era stato prodotto prima del Concilio e che la Chiesa cecoslovacca aveva gelosamente custodito e difeso durante il regime comunista. La stessa Messa Vetus Ordo era stato il simbolo di questa resistenza alla dittatura comunista. 

Queste considerazioni debbono servirci per spiegare l’apparenza di un certo conservatorismo, che può dare ad uno sguardo superficiale il pensiero teologico di Padre Tyn. In realtà egli non propone, come male alcuni hanno inteso, un «ritorno al passato», ma semmai un ritorno alle radici, secondo la felice espressione recentemente usata da Papa Francesco.

L’attenzione a Padre Tyn, proveniente da ambienti lefevriani, per quanto animata da retta intenzione, mostra che il Servo di Dio è stato frainteso e non favorisce, ma compromette la sua fama di santità e certamente egli stesso avrebbe respinto come inopportuna tale attenzione, ammiratore com’era delle dottrine del Concilio e fedelissimo ai Papi del postconcilio.

È chiaro dunque che quando Padre Tyn attacca i «moderni» e il «pensiero moderno», non si rifà a una categoria semplicemente storico-positiva, ma si riferisce al cartesianismo e ai suoi derivati successivi, fino al panteismo e all’ateismo tedesco dell’ ‘800, fino ai nostri giorni. Ciò che Tyn chiama «moderno» sconfina quindi col modernismo, l’idolatria del moderno, un moderno che non è vagliato dalla sana ragione e dal Vangelo, ma che pretende di stare al di sopra della ragione e del Vangelo.
Discorso simile vale per gli «Antichi». Padre Tyn sa benissimo che tutti gli errori dei filosofi moderni si trovano già negli Antichi, ma quando porta gli Antichi come esempio e modello di sapienza, certo non pensa ai naturalisti, ai sofisti, agli scettici, ai cinici ed agli epicurei, ma, come abbiamo detto, ai grandi saggi come Socrate, Platone ed Aristotele e semmai anche agli stoici.

Peraltro, non esiste effettivamente in Padre Tyn una preoccupazione di modernità. Apprezza indubbiamente l’indagine teologica e le nuove scoperte o ipotesi della teologia nel corso dei secoli, soprattutto l’originalità e la novità del pensiero di Tommaso rispetto ai teologi precedenti. Ha capito ed apprezza il fatto che il Concilio vuol far progredire la teologia. Ma Padre Tomas si rende conto che il problema e quindi il compito più urgente ed importante del teologo di oggi non è tanto quello di mirare a nuove scoperte, quanto piuttosto quello di conservare e recuperare un patrimonio teologico millenario che sta periclitando, per il luccichìo del moderno sotto il miraggio di chissaquale palingenesi della teologia messa in giro dal rinato modernismo postconciliare.

Padre Tomas ha un fiuto speciale nello svelare l’inganno modernistico, evoluzionistico e storicistico di quei teologi, da lui chiamati «teologastri», i quali col pretesto del progresso, cambiano il senso dei dogmi o relativizzano i princìpi della teologia, della metafisica, dell’antropologia e della morale.

Nessun progresso si costruisce se le basi non sono solide. Non si avanza nella verità se non si è fondati nella verità. C’è un passato morto, che non può e non deve tornare. E c’è un passato che, per la sua carica di vita e la sua potenzialità di sviluppo, di rinnovamento e di progresso, è garanzia del futuro. Quest’ultimo è il passato caro a Padre Tyn.


[1] Unitatis redintegratio, n.3.




Testo di Tomas Tyn[1]

L’AZIONE DIVINA NELLA GIUSTIFICAZIONE

Introduzione

 Tommaso, prima di affrontare il tema dell’azione divina per mezzo dell’infusione della grazia, si chiede se la giustificazione è la remissione dei peccati, mettendo così in risalto il legame esistente tra la giustificazione e il peccato dell’uomo. Ora, questa disposizione della materia del trattato ha due motivi. Il primo e più ovvio è quello di far precedere il trattato nel suo insieme dalla definizione del suo oggetto: in questo caso, dalla definizione della giustificazione. Infatti, il Santo Dottore, rispondendo alla domanda se la giustificazione sia la remissione dei peccati, si sforza di definire appunto quel che è la giustificazione in se stessa e nel concreto della storia della salvezza secondo i diversi stati in cui l’uomo si trova davanti al suo Dio. Ma oltre all’esigenza di premettere una definizione al trattato vero e proprio vi è un altro motivo, che traspare dal modo in cui viene posta la domanda. Chiedere se la giustificazione è remissione dei peccati vuol dire mettere a confronto queste due realtà così da far apparire il legame che vi è tra di loro.
Ora, la remissione dei peccati è un effetto dell’azione salvifica di Dio nella giustificazione del peccatore e, siccome la distruzione della forma precedente è prima della generazione della forma susseguente in un soggetto, secondo l’ordine della causa dispositiva, che è l’ordine più vicino al nostro modo di conoscere fondato sull’esperienza, per conseguenza è giusto far precedere la questione riguardante l’infusione della grazia dalla considerazione di un’eventuale remissione dei peccati nell’ambito della stessa giustificazione.
Ma la remissione dei peccati a sua volta è un effetto della grazia divina infusa nell’anima, anzi l’ultimo effetto, al quale termina la giustificazione secondo l’ordine della causalità efficiente, finale e formale. Proprio per questo ritornerà ancora un’altra volta sotto un’angolatura diversa la questione se della remissione dei peccati fa parte della giustificazione dopo la considerazione dell’infusione della grazia e del moto del libero arbitrio[2]. La giustificazione è la remissione dei peccati in quanto ogni moto è denominato dal suo termine ad quem e la remissione dei peccati a sua volta fa parte della giustificazione in quanto il termine di un moto fa parte del moto stesso.
            Seguendo quest’ordine ci chiederemo prima quale sia il legame tra la giustificazione e il peccato dell’uomo, per poi considerare quell’azione divina che è la causa della giustificazione, tra gli effetti della quale rientra poi a sua volta la remissione dei peccati.

La grazia di Dio e il peccato dell’uomo nella giustificazione.

Dio Può conferire la grazia giustificante con il suo effetto, che è la giustizia soprannaturale anche ad un uomo che non ha mai commesso un peccato, sempre però in modo tale da escludere il peccato. La grazia e la giustizia, la santità e la novità della vita secondo lo Spirito escludono infatti il peccato come il loro contrario e quindi anche nell’ipotesi di una giustificazione senza peccato previo, la grazia sarebbe conferita con l’esclusione del peccato. Ma in questo caso la giustizia sarebbe prodotta nell’anima non a modo di un moto dal contrario al contrario, ma secondo l’analogia di una generazione che è dalla privazione della forma alla forma stessa.
Una tale giustificazione rimane però soltanto ipotetica, ipotesi del tutto legittima, anzi necessaria per capire la sovrana libertà di Dio nel conferimento della grazia giustificante, ma sempre soltanto un’ipotesi. Di fatto la giustificazione è stata preceduta dal peccato ed è quindi per la remissione dei peccati che l’uomo diventa partecipe della giustizia nello stato presente dell’economia della salvezza.
La giustizia originale di Adamo escludeva il peccato, ma gli fu data nella creazione  senza un peccato previo, da cui avrebbe dovuto essere liberato, come una forma presente nella sua anima; e se non avesse peccato, Dio avrebbe potuto congiungerlo a Sè come fine ultimo soprannaturale della vita umana in un modo perfetto, senza doverlo prima salvare dal peccato secondo un modo conosciuto solo dalla sapienza divina. Di fatto le cose sono andate diversamente.
L’uomo ha peccato e ha perso la giustizia in cui è stato creato, ma oltre alla giustizia persa vi è in lui anche qualcosa di reale opposto alla giustizia, opposto al suo ordine a Dio come fine ultimo, ossia la colpa del peccato, la quale, pur essendo in se stessa una mera privazione, è rispetto all’atto umano in cui si trova qualcosa di reale e di permanente, come un continuo essere distolti da Dio. Se la grazia giustificante si oppone per natura sua al peccato, è necessario che l’uomo, diventando partecipe per libera donazione divina del dono soprannaturale della giustizia, sia liberato allo stesso tempo dal peccato. Infatti è impossibile che una forma perfezioni il soggetto se non viene distrutta la forma precedente che vi si oppone. Nello stato presente in cui l’uomo si trova rispetto alla sua salvezza la giustificazione avviene sempre con la remissione del peccato come moto dal peccato alla giustizia, ossia come moto da un termine contrario ad un altro.
            Ed è proprio in questo stato che l’uomo ha un bisogno particolare della mediazione di Cristo Salvatore per essere erede di Dio. L’attento esame della Sacra Scrittura infatti ci suggerisce uno stretto legame tra la missione di Cristo e il peccato dell’uomo. Prima di tutto occorre perciò esaminare il rapporto tra il peccato e la  giustificazione nella presente economia della salvezza. 
            Poi, dopo aver constatato il ruolo del peccato nella storia della salvezza e in modo particolare nello stato presente, per meglio valutare l’importanza della remissione dei peccati nel processo della giustificazione, sarà opportuno esaminare che cosa sia il peccato in se stesso. Da parte dell’oggetto si può dire che il peccato è un male e in questo senso una privazione del bene. In modo particolare è un male morale, che consiste nella privazione del dovuto ordine alla legge morale. Da parte del soggetto si tratta di un atto umano per mezzo del quale l’uomo sceglie un bene particolare al di là[3] o addirittura contro il bene sommo ed universale. Sarà quindi necessario vedere nel peccato dell’uomo i suoi due aspetti fondamentali – l’avversione da Dio[4], fine ultimo, e la conversione disordinata ai beni finiti e particolari.
            Il peccato è una realtà estremamente complessa e ricca di significato, perché in esso si ripercuote la stessa complessità del rapporto della persona umana con il suo Dio. Sarà quindi utile determinare bene quale sia la differenza tra il peccato originale, dal quale Cristo ci ha principalmente liberati nella sua Incarnazione, e il peccato personale, in cui sarà necessario distinguere tra la colpa e la pena dovuta per essa. Inoltre i peccati si diversificano secondo la loro gravità perché non tutti i beni finiti sono ugualmente opposti alla scelta del fine ultimo soprannaturale e non sempre l’adesione a tali beni è ugualmente disordinata dalla parte del peccatore. 
Dopo la considerazione del peccato nella giustificazione, bisognerà inquadrarlo in un modo più ampio, ossia nel progetto della provvidenza divina, mettendo in risalto come Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini, ma vuole anche permettere l’esistenza del peccato per un bene maggiore dell’universo. Infine occorre esaminare attentamente la liberazione dal peccato nella giustificazione, così come avviene nell’agire concreto di Dio verso gli uomini per mezzo della grazia e della conversione dell’uomo a Dio.  

La giustificazione e il peccato.

   Nell’economia presente della salvezza la giustificazione si identifica con la remissione dei peccati o è almeno sempre accompagnata da essa. Vediamo ora il legame tra la giustificazione e il peccato, da cui essa ci libera riassumendo l’insegnamento di San Tommaso nelle sue tesi principali.


La giustificazione ha il suo nome dalla giustizia che ordina l’uomo a Dio.

Per indicare la funzione della remissione dei peccati nel processo della giustificazione S. Tommaso definisce prima la stessa giustificazione. In genere si può dire che la giustificazione racchiude nella sua stessa essenza un moto verso la giustizia: “iustificatio de sui ratione importat motum ad iustitiam”[5]. Si può distinguere la giustificazione attiva, cioè lo stesso atto con cui Dio conferisce la giustizia, dalla giustificazione passiva, che è il risultato, l’effetto di una tale azione divina nell’uomo.  Ed è in questo secondo senso che la giustificazione significa il moto della giustizia, come la “calefactio” è un moto verso il calore.[6] 
L’esempio scelto da S.Tommaso mette in risalto la somiglianza etimologica delle due parole “iustificare” (iustum facere) e “calefacere” (calidum facere). In entrambi i casi si tratta di un moto verso un termine preciso e la denominazione avviene proprio da questo termine che specifica il moto. Nella stessa giustificazione passive accepta il Santo Dottore distingue ulteriormente due altri significati: “iustificari” come giustificazione in fieri e “iustificatum esse” come giustificazione in facto esse. Nella prima accezione la giustificazione dice il moto verso la giustizia; nella seconda invece indica l’effetto formale della stessa giustizia[7]. La passio che è il costitutivo formale dell’effetto come effetto è quindi questo “essere giustificati”, che si predica passivamente del soggetto umano. Il moto della giustificazione termina alla giustizia come al suo termine, il quale è a sua volta la causa formale dell’essere giustificati, come la bianchezza è la causa formale della parete bianca[8].
La giustificazione può essere perciò sia il moto verso la giustizia, sia il suo effetto e la giustizia a sua volta può essere sia il termine della giustificazione, intesa come moto, sia la sua causa, se per giustificazione si intende l’essere giustificati. La giustificazione come moto porta alla giustizia come al suo termine e questa a sua volta è all’origine della ricezione passiva della giustificazione nel suo soggetto.
In ogni caso la giustificazione assume il suo nome dalla giustizia, che ne è il termine in linea di causalità efficiente e la causa in linea di causalità formale. Il moto si denomina infatti dal suo termine e l’azione dalla forma che ne è l’origine. L’oggetto specifica gli atti, gli abiti e le potenze e siccome il moto è ordinato all’oggetto come al suo fine e perciò l’oggetto ne è il termine e l’effetto, si può dire che ogni moto è specificato dal suo termine ed è per conseguenza giusto che assuma il suo nome dallo stesso termine. Così la giustificazione come moto verso la giustizia trae il suo nome dalla stessa giustizia che ne è il termine.
            Ora, la giustizia si può intendere in diversi modi. Si dice prima di tutto della rettitudine negli atti umani e così si parla della giustizia come di una virtù particolare, che regola i rapporti tra i singoli uomini. Vi è poi una giustizia più generale, che si estende anche agli atti di altre virtù, ma sempre in un modo tale che li ordina al bene comune della società. In questo senso si parla della giustizia legale[9]. Ma si può parlare della giustizia in un senso non proprio, ma metaforico, quando l’ordine retto che è della stessa natura della giustizia, non riguarda l’uguaglianza tra ciò che è dovuto ai singoli né il rapporto al bene comune della società, ma la disposizione interiore dell’uomo stesso.
            Questa giustizia è detta “metaforica”, perché nel suo significato proprio la giustizia comprende essenzialmente l’alterità cioè il rapporto ad alterum e questo non è il caso quando si dice “giustizia” volendo indicare la rettitudine dell’ordine nella disposizione interiore di un uomo[10]. I tre modi di parlare della giustizia si distinguono tra di loro secondo un diverso grado di universalità. La giustizia intesa come virtù speciale riguarda gli scambi e le distribuzioni dei beni comunicabili necessari per la vita e questo è il modo più concreto e particolare di parlare di “giustizia”.
            La giustizia legale invece riguarda generalmente ogni virtù dirigente l’atto al bene comune, secondo le direttive della legge. Anche la giustizia che consiste nella rettitudine della disposizione interna dell’uomo riguarda generalmente tutte le virtù, perchè esige la subordinazione delle singole parti dell’uomo tra di loro e di tutte insieme rispetto a Dio, ragion per cui si chiama “metaforica”, perché le singole parti dell’anima umana e dell’essere umano in genere sono considerate metaforicamente, cioè in un senso non proprio, come delle persone diverse che sono tra di loro in rapporti di giustizia.
            Ma l’universalità della giustizia legale è diversa da quella “metaforica”: la prima infatti riguarda le virtù nel loro insieme come un tutto universale; la seconda invece comprende generalmente tutte le virtù come un tutto integrale. Nel primo caso le virtù sono quasi tutte delle “specie” di giustizia intesa come il loro “genere” lontano; nel secondo caso invece la giustizia consiste nell’insieme delle virtù considerate come sue parti integrali[11].
La giustizia legale comprende le virtù come un tutto potenziale univoco, mentre la giustizia “metaforica” è rispetto alle virtù un tutto attuale quasi-integrale[12]. Le parti integrali nel senso proprio sono quantificabili (ad esempio una casa è fatta dal tetto, dalle mura, dalle fondamenta, ecc.) e quindi si dicono di un tutto composto da parti materiali, mentre le virtù sono una realtà spirituale, morale, ma anche loro sono in qualche modo “quantificabili”, in quanto si distinguono tra di loro e si possono enumerare come parti di un tutto.
Così, precisando il termine “giustizia”, risulta più precisa anche la definizione della giustificazione, la quale si deve intendere come moto verso quella giustizia che consiste nella retta disposizione dell’ordine interiore dell’uomo e si chiama “giustizia” non nel senso proprio (perché non implica una relazione ad alterum), bensì nel senso metaforico (perché le singole parti della persona umana ordinate dalla “giustizia” si possono considerare quasi come delle persone separate, a se stanti, capaci di entrare in rapporti reciproci di alterità e quindi in questo senso di “giustizia” ).
            San Tommaso considera questa giustizia come opposta al peccato, in quanto il peccato la distrugge, mentre la grazia la restaura; con il peccato perdiamo la “giustizia”; con la grazia invece  la riacquistiamo. Ora, in un certo senso, tutte le accezioni della giustizia si oppongono al peccato, ma diversamente e per conseguenza non si distinguono tra di loro solo secondo la loro natura e secondo la loro universalità rispetto alla virtù, ma secondo la loro contrarietà rispetto al peccato. La giustizia, intesa come virtù speciale non si oppone ad ogni peccato, ma solo a quei peccati che si oppongono al bene specifico di questa virtù, cioè i peccati riguardanti gli scambi e le distribuzioni dei beni esterni, come può essere un furto, una rapina o qualcosa di simile.
            La giustizia legale invece non è una virtù speciale, ma è in qualche modo ogni virtù e ogni virtù è a sua volta in qualche modo nel genere della giustizia. La giustizia però, intesa come giustizia legale, non riguarda ogni atto di virtù, ma solo quell’atto che è ordinabile al bene comune, in quanto tale (e non sotto un altro eventuale aspetto). Una virtù infatti appartiene alla giustizia legale, se ordina il suo atto al bene comune secondo la legge e per conseguenza ogni virtù appartiene alla giustizia legale, perché ogni virtù ha degli atti ordinabili al bene comune, ma ciò che vale di ogni virtù presa globalmente, non necessariamente vale di ogni suo atto: vi potrebbero infatti essere degli atti non direttamente ordinabili al bene comune di una società.
            Vi sono quindi dei peccati che non si oppongono alla giustizia legale, perché vi sono degli atti virtuosi non ordinabili al bene comune e un peccato contro tale atto non si oppone alla giustizia legale, anche se vi si oppone sempre un abito vizioso opposto ad una determinata virtù presa nel suo insieme. Infine la giustizia significa uno stato proprio in cui si trova l’uomo secondo l’ordine dovuto rispetto a Dio, rispetto al prossimo e rispetto a se stesso. Un tale ordine implica la perfetta subordinazione delle singole parti dell’uomo tra di loro e rispetto a Dio e per conseguenza esige la presenza di tutte le virtù con tutti i loro atti. Ogni singolo peccato infatti distruggerebbe questo ordine della disposizione interiore e perciò solo la giustizia metaforica si oppone ad ogni singolo peccato[13].
La giustizia, dalla quale la giustificazione trae il suo nome come dal suo termine, è per conseguenza la giustizia metaforica, cioè quella che consiste nel retto ordine interiore dell’uomo in se stesso e davanti a Dio. Una tale giustizia comprende in sè tutte le virtù e quindi non è una virtù speciale come la giustizia particolare, né riguarda l’ordine delle virtù e dei loro atti al bene comune come la giustizia legale, ma si riferisce a tutte le virtù in quanto l’insieme delle virtù è richiesto per una retta disposizione interiore dell’uomo.
E’ proprio per questo che l’osservanza dei comandamenti della legge rientra nella ragione della giustificazione. E’ infatti giusto che l’uomo obbedisca a Dio come al suo legislatore supremo e quindi è impossibile conservare il retto ordine a Dio, se non si vuole allo stesso tempo osservare la sua legge, espressione della sua volontà. Perciò è giusto osservare la legge di Dio. Inoltre i comandamenti, i precetti della legge, comandano gli atti della virtù, i quali sono tutti richiesti secondo le circostanze opportune per essere rettamente ordinati rispetto a Dio, al prossimo e a se stessi.
Perciò può avere la retta disposizione interiore ed essere così “giusto” solo colui che osserva la legge morale, perché è giusto che tutte le parti dell’uomo siano ordinate secondo la ragione conformandosi così alle virtù. Infatti la retta vita morale non è nient’altro che esse secundum rationem[14]. Così la giustizia metaforica, alla quale termina il moto della giustificazione, comprende tutte le virtù come un tutto integrale, cosicchè nessuna può mancare né presa globalmente come abito, né rispetto ai suoi singoli atti (i quali ovviamente sono richiesti solo secondo le circostanze particolari in cui ci si trova) .
            La giustizia metaforica, comprendendo in sé tutte le virtù, esclude il peccato. Infatti ogni peccato si oppone al bene di qualche virtù e per conseguenza anche alla giustizia che consiste nel retto ordine della disposizione interiore, in quanto un tale ordine implica i beni di tutte le virtù e viene meno se si distrugge un qualsiasi bene particolare di una virtù speciale: bonum ex causa integra, malum ex quocumque defectu. Così ogni peccato si oppone alla giustizia metaforica, perché ogni peccato distrugge qualcosa del suo ordine[15].
            La giustificazione termina quindi ad una giustizia, la cui natura esclude per se stessa ogni peccato e perciò la giustificazione consegue il suo termine solo in un soggetto privo di peccato, sia perché il peccato vi è semplicemente assente, sia perché la stessa giustificazione lo distrugge ed è in questo senso che la giustificazione è una remissione del peccato. Per conseguenza la giustizia legale non può essere il termine della giustificazione, perché non si oppone ad ogni peccato, ma solo a quei peccati che sono contrari all’ordine di un atto virtuoso al bene comune di una società[16].
            La giustizia generale intesa come giustizia metaforica consiste invece nella retta disposizione interiore dell’uomo e quindi in un perfetto ordine delle potenze dell’anima conforme ai dettami della ragione. Ora, un tale ordine tra le potenze dell’anima suppone un ordine interno delle potenze stesse e perciò la giustizia interiore suppone tutte le potenze dell’anima ordinate dalle rispettive virtù, da tutte le virtù prese insieme a modo di un tutto integrale. A una tale giustizia si oppone ogni peccato, anche minimo, direttamente e immediatamente[17]. La giustizia che è il termine della giustificazione è quindi quella che consiste nel retto ordine interiore, e per conseguenza esclude immediatamente, per natura sua, ogni peccato. La giustificazione che mira ad una tale giustizia non può essere senza la remissione dei peccati in un soggetto, in cui si suppone un peccato previo.
            Il termine della giustificazione, che è remissione dei peccati in un soggetto nel quale il peccato ha preceduto la giustizia, consiste direttamente nella giustizia e solo indirettamente nella grazia e nella carità, perché la giustizia, che è l’ordine delle potenze dell’anima perfezionate in se stesse e tra di loro da tutte le virtù nel loro insieme, si oppone direttamente e immediatamente ad ogni peccato.
E’ ovvio che ogni peccato si oppone in qualche modo (diversamente secondo la sua gravità) anche alla grazia e alla carità, ma prima ancora si oppone alla giustizia intesa come rettitudine interiore dell’uomo. Il diverso modo di opporsi al peccato per quanto riguarda da una parte la giustizia e dall’altra la grazia con la carità, appare dalla diversità dei rispettivi soggetti. La grazia è nell’essenza dell’anima, mentre la giustizia è l’insieme delle virtù che sono nelle singole potenze dell’anima come nel loro soggetto.
Il peccato distrugge prima l’ordine delle potenze perfezionate dalle virtù e cioè la giustizia e poi, conseguentemente, anche la grazia che è nell’essenza dell’anima e dalla quale provengono le virtù come le singole potenze emanano dall’essenza dell’anima. Tra le potenze dell’anima ha un posto privilegiato la volontà, la quale muove le altre potenze conferendo a loro in un qualche modo la rettitudine.
La causa più remota della giustizia è la grazia, dalla quale proviene l’insieme delle virtù; la causa più vicina ne è la carità, la quale a sua volta ordina perfettamente la volontà al suo fine, rettificando così anche le altre potenze mosse dalla volontà (perciò la carità costituisce il “vincolo della perfezione”, nel quale sono connesse tutte le virtù soprannaturali tra di loro).
Ne risulta l’ordine perfetto tra le potenze dell’anima, nel quale consiste formalmente quella giustizia che è il termine della giustificazione. Se però si prende la giustificazione nel senso della ricezione passiva della giustizia nel soggetto giustificato, allora la giustizia è la causa formale dell’essere giustificato. L’essere giustificato ha per conseguenza le seguenti cause secondo questo ordine: la grazia, la carità e la giustizia. La giustizia è per conseguenza la causa formale prossima della giustificazione intesa come essere giustificati e la grazia con la carità sono le cause della causa prossima che è la giustizia. Siccome però ogni realtà desume il suo nome dalla sua causa prossima, anche la giustificazione, sia come moto, sia come termine del moto, si denomina dalla sua causa formale prossima che è la giustizia[18].
La giustificazione come moto raggiunge come suo termine prossimo la giustizia e poi la carità  e la grazia; la giustificazione nel senso dell’essere giustificato è il costitutivo formale del termine del moto della giustificazione ed è causata prima e più immediatamente dalla giustizia, poi dalla carità e dalla grazia, come dalle cause della sua causa prossima.

Secondo San Tommaso la giustificazione è:
a)    moto verso la giustizia, la carità, la grazia; ed è anche
b)    l’effetto della grazia, della carità, della giustizia.  

Così il termine prossimo della giustificazione come moto è la giustizia e la sua causa formale prossima è ancora la giustizia. Perciò la giustificazione, sia come moto, sia come costitutivo formale dell’effetto, si denomina sempre dalla giustizia metaforica, che ne è rispettivamente il termine prossimo e la causa formale prossima. Il peccato, opponendosi immediatamente al bene proprio di ogni singola virtù, si oppone prima alla giustizia e poi alla carità e alla grazia che ne sono le cause.
Così anche nella remissione del peccato agisce prima la grazia e la carità come cause più remote e la giustizia come causa prossima della remissione[19]. La carità ha un posto privilegiato tra le virtù, essendone il vertice, la forma e il vincolo di connessione; perciò è coestensiva con la grazia e come la grazia, si oppone ad ogni peccato. Nondimeno non si deve dimenticare che la carità è una virtù speciale, con il suo fine proprio e distinto da quello delle altre virtù. Il suo compito specifico è quello di ordinare la volontà umana a Dio e quindi, anche se raggiunge in qualche modo le altre virtù, questo suo influsso sulle altre virtù sarà sempre indiretto.
Nel processo della giustificazione svolgono un ruolo particolare quelle virtù che ordinano le più alte potenze dell’anima umana, cioè l’intelletto e la volontà a Dio, come al suo fine ultimo, dal quale l’uomo si è allontanato nel suo peccato e per conseguenza la fede e la carità avranno un compito di prim’ordine nella distruzione del peccato per mezzo della giustificazione. Ma si tratta sempre di virtù particolari che raggiungono le altre virtù solo indirettamente; mentre  la giustizia che è il termine della giustificazione comprende in sé direttamente tutte le virtù[20].
Per conseguenza anche la fede e la carità rientrano nell’effetto della giustificazione, ma solo indirettamente. La giustizia invece ne è l’effetto diretto ed immediato. Ancora una volta San Tommaso rivela il suo senso acuto per la proprietà, specificità e particolarità delle singole virtù. La carità può connettere le virtù tra di loro informandole e portandole alla perfezione, ma lo può fare solo come distinta da loro e quindi come una virtù speciale con un suo oggetto specifico proprio.
La vita morale si presenta così e come un’unità e come una diversità. Le virtù sono ordinate tra di loro, ma rimangono distinte (una riduzione della vita morale ad un’unica potenza operativa fondamentale come nello stoicismo o delle virtù alla carità come nell’agostinismo estremo è del tutto aliena dalla mentalità di San Tommaso.
La giustizia, che è il termine prossimo e la causa formale prossima della giustificazione comprende quindi tutte le virtù e si oppone ad ogni singolo peccato. Questa opposizione al peccato esclude dal soggetto della giustificazione la presenza del peccato. Ora, il peccato può essere assente nel soggetto sia semplicemente in un uomo che non ha mai peccato, sia il peccato una realtà presente, ma distrutta in seguito alla giustizia di cui il soggetto diventa partecipe nella giustificazione.
Di per sè la giustificazione non dice direttamente remissione di peccati, ma solo assenza ed esclusione di peccati. Nel caso però di un uomo affetto dal peccato, la giustificazione comporta sempre la remissione del peccato precedente. Per spiegare questa distinzione San Tommaso sottolinea la natura della giustificazione come quella di un moto verso la giustizia. Ora, il moto può essere inteso in una duplice maniera: sia come una semplice generazione, che dalla privazione di una forma arriva alla forma stessa, sia come un moto che procede  da  un  termine  opposto  all’altro  che  gli  Ã¨  contrario[21].
         Così la giustificazione si può realizzare sia come semplice ricezione della giustizia in un uomo che non ha peccato e allora il moto sarà dalla privazione[22] alla forma. Così Adamo privo e della giustizia[23] e del peccato, ha ricevuto la giustizia con l’esclusione del peccato, ma senza la remissione del peccato, perché solo un peccato realmente presente può essere distrutto, cioè rimesso.
            La giustificazione però si può realizzare anche come un passaggio da una forma ad un’altra che è contraria rispetto a quella precedente, così che la generazione della seconda forma implica necessariamente la distruzione della forma precedente (generatio unius est corruptio alterius) e questo è il modo in cui il peccatore riceve la giustizia.
            Infatti, affinché il peccatore possa essere giustificato arrivando così alla giustizia come al termine ad quem, deve prima essere liberato dal peccato e staccarsi da lui come dal termine a quo. La giustificazione del peccatore non è mai senza la distruzione e la remissione del peccato. La remissione del peccato però è accidentale rispetto alla natura della giustificazione, la quale per se si limita solo ad escludere (quocumque modo) il peccato.
            Di diritto si potrebbe parlare della giustificazione anche senza la remissione del peccato; di fatto invece, dato il peccato sia originale sia personale presente nell’uomo secondo il suo stato attuale, si può parlare della giustificazione solo come di un moto dal peccato alla giustizia, in modo tale che essa comprenda sempre e necessariamente la remissione dei peccati.
            La giustificazione, che di natura sua esclude il peccato, in un modo particolare si collega con il peccato come col suo opposto nello stato attuale dell’uomo peccatore, il quale ha bisogno della giustizia non solo per essere congiunto con Dio, ma anche per ottenere il perdono del peccato tornando al suo Padre celeste, dal quale si è allontanato. 


Il diverso modo di parlare di “giustizia”.

La giustificazione come moto verso la giustizia, assume il suo nome dal suo termine, che è la stessa giustizia e non solo ne assume il nome, ma ne è anche specificata. Ora, per capire bene la natura di una cosa bisogna considerarne la natura specifica, che si esprime nella definizione. Perciò, per poter definire esattamente la giustificazione e capire il significato della stessa definizione, occorre esaminare con attenzione quella giustizia che ne è il termine specificante.
La giustizia che è il termine della giustificazione indica una certa rettitudine che è essenziale ad ogni giustizia, ma la rettitudine si può intendere sia dell’atto dell’uomo, tanto quello ordinato ad un altro uomo singolo, quanto quello ordinato al bene comune della società, sia dell’ordine nella disposizione interna dell’uomo. La giustizia propriamente detta è quella che significa la rettitudine dell’atto umano rispetto agli altri, sia ad una persona singola (giustizia particolare), sia ad una società (giustizia legale); la giustizia nel senso metaforico (non proprio) significa invece la disposizione interna dell’uomo. Ed è solo in questo senso che la giustizia è termine della giustificazione.  

Schematicamente ne risulta la seguente divisione:

GIUSTIZIA:

- in quanto comprende un ordine retto nello stesso atto umano:
-   giustizia particolare: ordina l’atto dell’uomo secondo la rettitudine nei riguardi di un altro uomo singolo
-   giustizia legale: ordina l’atto dell’uomo secondo la rettitudine rispetto al bene comune 

- in quanto comprende una certa rettitudine dell’ordine nella stessa disposizione interna dell’uomo: in quanto cioè la parte suprema dell’uomo è sottomessa a Dio e le forze inferiori dell’anima sono sottomesse a quella suprema, cioè alla ragione (giustizia metaforica).


La divisione principale della giustizia secondo i diversi significati è per conseguenza quella in giustizia particolare, giustizia legale e giustizia cosiddetta “metaforicamente”. Quest’ultima non regola gli atti particolari né di una virtù speciale, né di tutte le virtù sotto un determinato aspetto, ma consiste nella rettitudine interiore dell’anima umana ben disposta secondo la perfezione di tutte le virtù.[24]
Il diverso modo di parlare della giustizia appare di nuovo quando si tratta di qualificare moralmente gli atti umani come buoni o cattivi, secondo le differenze di merito o demerito. Infatti il concetto del merito è legato all’idea della retribuzione secondo la giustizia. Una tale retribuzione poi è dovuta a ciascuno secondo l’effetto delle sue azioni sugli altri, sia che si tratti di azioni benefiche, sia che invece si abbiano delle azioni nocive.
Ora il bene o il male del singolo riguarda anche il bene o il male della società in cui egli vive e quindi le azioni che riguardano gli altri meriteranno ricompensa o punizione sia dal singolo sia dalla società, ma nella retribuzione vi può essere un ordine diverso: se l’atto è direttamente ordinato al singolo e solo indirettamente alla società, la retribuzione spetterà prima all’individuo e poi alla comunità; se invece l’atto è direttamente ordinato al bene comune di tutti, prima dovrà essere retribuito dalla comunità nel suo insieme e solo in un secondo tempo dai singoli membri della comunità.
Se qualcuno compie un’azione che riguarda direttamente solo il suo bene o male proprio, allora in qualche modo, ma indirettamente, la retribuzione spetterà alla comunità, di cui l’uomo in questione è membro; direttamente invece dovrebbe essere retribuito da se stesso, ma allora non si tratterà di una giustizia vera e propria, ma di una somiglianza di giustizia che è dell’uomo nei riguardi di se stesso ed è così che ogni atto umano buono o cattivo è meritevole o demeritevole.[25]
Evidentemente l’atto del singolo orientato direttamente al bene o al male di un’altra persona singola corrisponde alla giustizia particolare; quello ordinato immediatamente al bene della comunità riguarda strettamente la giustizia legale, ed infine l’atto orientato al bene o al male dello stesso agente, trova il suo corrispondente nella giustizia “metaforica”, la quale, essendo dell’uomo nei riguardi di se stesso, è solo una somiglianza della giustizia, in quanto l’uomo può considerare se stesso come suo debitore.
Sembra che qui San Tommaso ammetta che ogni atto di virtù, nessuno escluso, possa essere ordinato al bene comune e così diventare oggetto della giustizia legale, mentre in altri luoghi sostiene che vi sono degli atti particolari di virtù che non sono ordinabili al bene comune e quindi esulano dalla ragione di giustizia legale.
Bisogna però distinguere bene una duplice ordinabilità di un atto virtuoso al bene comune: quella diretta e quella indiretta. Nel primo caso l’atto per natura sua è orientato al bene comune e qui San Tommaso porta generalmente l’esempio di un uomo coraggioso che combatte valorosamente per il bene dello Stato. Un atto simile non è della giustizia come virtù speciale, bensì della fortezza, ma è per natura sua orientato al bene comune della società e quindi diventa oggetto di giustizia legale.
Nell’altro caso invece l’ordine dell’atto al bene comune è indiretto; di natura sua l’atto riguarda il singolo e solo in un secondo tempo, cioè in quanto il singolo fa parte della società, è ordinabile anche al bene comune, quasi come per una risonanza (“redundat in totam societatem”) e così si spiega come in un senso derivato ed indiretto, ogni atto virtuoso riguardi in qualche modo il bene della società che è quello della giustizia legale.
Parlando della giustizia dell’uomo nei confronti di se stesso il Santo Dottore afferma che si tratta solo di una “somiglianza di giustizia”, cioè appunto di una giustzia “metaphorice dicta”. Infatti quest’ultimo significato di “giustizia” non adempie ad una proprietà essenziale della giustizia e cioè la relazione “all’altro”[26]. La giustizia consiste infatti in una uguaglianza, la quale è possibile solo tra due realtà differenti, altrimenti non si dovrebbe parlare di uguaglianza, ma piuttosto di identità. Ora, siccome la giustizia regola gli atti umani, l’alterità richiesta non è quella tra due realtà qualsiasi, bensì tra due soggetti di azione.
Perciò la giustizia nel suo senso proprio regola gli atti di un uomo nei riguardi di un altro. Siccome però nello stesso agente umano vi sono differenti principi di azione secondo la diversità delle potenze operative, si può stabilire una certa somiglianza tra la differenza di un uomo rispetto ad un altro e la differenza di una potenza operativa rispetto ad un’altra. Così vi è nello stesso uomo una “giustizia” rispetto a se stesso, in quanto le singole potenze operative vengono considerate come degli agenti separati.
Una tale considerazione è però impropria, basandosi solamente su di una somiglianza, perché di fatto le azioni non appartengono alle singole potenze, ma al loro soggetto, che è la stessa persona umana (actiones sunt suppositorum). Una tale giustizia all’interno dell’uomo stesso è possibile perché vi è un ordine naturale tra le potenze che deve essere rispettato. Secondo quest’ordine la ragione deve governare la parte sensibile e questa deve obbedire ai dettami della ragione e della volontà. Oltre all’ordine delle potenze tra di loro, vi è un ordine proprio di ogni potenza secondo la perfezione che le è dovuta. Nell’uomo virtuoso si realizza quindi la giustizia metaforica in quanto il possesso di tutte le virtù porta con sé l’ordine delle potenze tra di loro e in vista della loro propria perfezione.   
Oltre all’alterità la giustizia nel senso più stretto della parola riguarda come sua materia propria le azioni esterne oggettivamente misurabili. Il rapporto giusto alla legge e al fine delle virtù riguarda comunemente tutte le virtù e non solo la giustizia come virtù speciale[27]. L’ordine dell’atto umano al bene comune espresso nella legge riguarda la giustizia in un senso più largo ed è così che si parla della giustizia legale.
L’ordine di un atto virtuoso alla norma della legge riguarda la giustizia legale, che è comune a tutte le virtù, anche se non regola direttamente tutti gli atti virtuosi. La perfezione dell’atto virtuoso in quanto procede dal soggetto secondo un ordine della ragione è l’oggetto della “giustizia” metaforica, secondo la quale tutte le potenze operative agiscono nel proprio ordine e nella subordinazione dovuta  rispetto alla ragione[28].
Solo in questo senso si può parlare di una giustizia dell’uomo verso se stesso e solo questa giustizia che consiste nella perfezione di tutta la persona umana secondo il bene della virtù si oppone ad ogni singolo atto del peccato. Così ogni atto umano ha ragione di merito o demerito secondo la sua conformità o meno alla giustizia intesa come la retta disposizione interiore dell’uomo, perché secondo questa giustizia ogni atto umano e non solo quello ordinato al bene di un altro uomo o al bene di una società acquista il diritto ad una possibile retribuzione sia come ricompensa, se si tratta di atti buoni, sia come punizione, se si tratta di atti cattivi.


La giustizia consiste in una rettitudine, non essenzialmente, ma come un effetto che deriva da una causa.

S.Anselmo definisce la giustizia come “la rettitudine della volontà osservata per se stessa”. Ed infatti in tutti i significati della giustizia ritroviamo il concetto della rettitudine. La giustizia particolare ha per oggetto la rettitudine degli atti esterni riguardanti un’altra singola persona; la giustizia legale ha per oggetto la rettitudine di un atto secondo il suo rapporto al bene comune espresso nella legge ed infine la giustizia “metaphorice dicta” ha per oggetto la rettitudine morale di ogni atto umano secondo la sua conformità al bene della virtù e ai dettami della ragione, che domina le singole potenze e ne impera gli atti. La rettitudine acquista la sua estensione più grande nel caso della giustizia intesa come la retta disposizione dell’anima umana, ma si ritrova anche nella giustizia legale e nella giustizia particolare intesa come virtù speciale.
            La difficoltà consiste nel fissare il posto della rettitudine nella natura stessa della giustizia. La definizione secondo cui la giustizia è nel genere della rettitudine della volontà sembra suggerire che la rettitudine rientra nella stessa essenza della giustizia. Ora, secondo San Tommaso, la definizione della giustizia come quella della di una rettitudine della volontà non indica il genere prossimo e quindi una parte essenziale della giustizia, ma ne rivela piuttosto la causa. La definizione reale della giustizia, intesa in sensu stricto della giustizia particolare, è “abito secondo cui si opera e si vuole rettamente”[29].
In questo senso la giustizia si definirà come “firma et constans voluntas ius suum unicuique tribuendi”. L’abito della volontà è però causato formalmente dalla rettitudine e perciò la rettitudine rientra nell’essenza della giustizia non come una sua parte, bensì come sua causa. Ciò che vale per la giustizia come virtù speciale si può anche dire delle altre accezioni della giustizia, estendendone il concetto anche agli altri abiti di virtù.
Così la giustizia legale è l’insieme degli abiti virtuosi secondo i quali si opera e si vuole rettamente in vista del bene comune e la giustizia intesa metaforicamente  come ordine interiore dell’essere umano si può applicare all’insieme degli abiti virtuosi, dai quali procedono rettamente i singoli atti rispetto ai dettami della ragione. La rettitudine è quindi all’origine  dell’abito virtuoso, da cui procede l’atto secondo il dovuto ordine e causa perciò la giustizia, la quale a sua volta consiste sia in una virtù particolare, sia in un insieme di virtù tanto sotto l’aspetto particolare dell’ordine al bene comune, quanto sotto l’aspetto generale dell’ordine al bene della ragione in genere.


Distinzione tra giustizia naturale e giustizia soprannaturale.
           
La giustizia che consiste nell’insieme delle virtù perfezionanti le potenze operative dell’uomo può essere intesa e delle virtù acquisite e delle virtù infuse. Nel primo caso la giustizia sarà imperfetta e sarà fondata sulla rettitudine puramente naturale; nel secondo caso invece la rettitudine interiore è perfetta e soprannaturale tanto nei riguardi dell’ordine interiore delle potenze dell’anima in se stesse e tra di loro, quanto rispetto alla subordinazione perfetta rispetto a Dio.
La distinzione tra la giustizia naturale e quella soprannaturale si manifesta soprattutto nella contrapposizione della giustizia al peccato. Se si tratta della giustizia naturale, il peccato non potrà distruggerla del tutto, ma la inclinerà in qualche modo al male; se invece si tratta della giustizia soprannaturale, ogni peccato grave la distrugge completamente togliendole le cause formali cioè la carità e la grazia[30].
I due tipi di “giustizia” richiedono sempre l’insieme di tutte le virtù (sia acquisite, sia infuse), ma nel caso della giustizia naturale il peccato non può distruggere tutto l’insieme delle virtù naturali, anche se lo danneggia, mentre nel caso della giustizia soprannaturale qualsiasi peccato grave toglie la grazia e la carità e per conseguenza anche tutte le virtù infuse emananti dalla grazia e formate dalla carità. Ovviamente anche le virtù naturali sono in qualche modo connesse tra di loro per mezzo della prudenza naturale come “recta ratio agibilium”, ma il peccato non può distruggere del tutto un abito acquisito naturale.
Ogni atto contrario corrompe ovviamente e la virtù acquisita speciale alla quale si oppone e la prudenza che ordina rettamente i mezzi al fine di ciascuna virtù, ma pur corrompendo e indebolendo tali abiti buoni, i singoli atti peccaminosi non sono in grado di toglierli del tutto, perché l’abito acquisito non si ottiene per un atto solo, bensì per una lunga serie di atti ripetuti. Inoltre anche nel caso di un vizio abituale, le disposizioni naturali buone non possono essere mai completamente distrutte, perché la natura tende di per sè al bene e il male può essere soltanto accidentale rispetto ad essa.
            Anche nei peccatori rimane quindi almeno una disposizione al bene e nulla proibisce che, pur essendo indeboliti in un determinato campo della vita morale, essi mantengano delle vere e proprie virtù acquisite in altri campi. Evidentemente il peccato, opponendosi ad una determinata virtù naturale, danneggia anche il giudizio della prudenza e quindi il suo male si ripercuote anche sulle altre virtù naturali, ma questo avviene solo indirettamente. Differente è invece il caso della giustizia soprannaturale, che consiste nell’insieme delle virtù  infuse, strettamente collegate tra di loro per mezzo della carità e profluenti spontaneamente dalla grazia, come le potenze dell’anima provengono dall’essenza della medesima.
            Ora, come la separazione dell’anima dal corpo comporta anche l’assenza delle potenze operative, così la distruzione della grazia a causa di un peccato mortale ha come conseguenza la distruzione anche delle singole virtù infuse. E questo proprio a causa del’accidentalità e della gratuità della grazia rispetto alla natura.
            Infatti la perfezione naturale, essendo dovuta alla natura, non può essere completamente distrutta, perché in tal caso la privazione nella quale consiste la ragione del male sarebbe priva di soggetto e il male diventerebbe assoluto, il che implica contraddizione. Se invece viene meno un bene non dovuto alla natura come privazione di una perfezione accidentale, un tale male può essere “completo” perché, tolta la perfezione aggiunta, rimane sempre la bontà naturale del soggetto e quindi, nonostante la totalità della privazione del bene gratuito, il male che ne segue non potrà mai essere assoluto.
Le virtù acquisite non possono essere corrotte da un unico atto peccaminoso, perché l’atto si oppone all’atto e non all’abito. Le virtù infuse invece si possono perdere con un unico atto di peccato, perché ogni peccato costituisce un ostacolo all’infusione della carità e delle altre virtù da parte di Dio, in quanto la grazia e la carità implicano una perfetta congiunzione con Dio fine ultimo soprannaturale della vita umana e quindi ogni grave disordine contrario al fine ultimo pone un ostacolo all’infusione da parte di Dio[31].
Dopo il peccato rimangono per conseguenza solo le virtù acquisite e le virtù teologali della fede e della speranza, ma informi e quindi imperfette. La gratuità della grazia e della carità e la loro dipendenza dall’infusione da parte di Dio assieme allo stretto legame tra le virtù infuse nel vincolo della carità e nella dipendenza dalla grazia sono le ragioni per le quali un unico peccato mortale toglie completamente la grazia, la carità e insieme con loro tutte le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo.
Indubbiamente la giustizia, alla quale termina la giustificazione deve intendersi di quella giustizia, alla quale si oppone ogni singolo atto di peccato e quindi della giustizia soprannaturale. E’ così che si spiega il legame tra la consecuzione della giustizia e quella della grazia. La giustificazione porta all’esclusione di ogni peccato (e perciò, nell’ipotesi di un peccato precedente, implica la remissione dei peccati), alla consecuzione della grazia santificante, della carità e di tutte le virtù morali infuse, delle virtù teologali formate e perfette, dei doni dello Spirito Santo. Nel presente stato dell’economia della salvezza la giustificazione arriva necessariamente alla giustizia soprannaturale emanante dalla grazia santificante.
Rimane però la questione della grazia del primo uomo. RATRAMNO[32]  sosteneva che Adamo aveva la perfetta rettitudine del libero arbitrio per iniziare il bene, ma non per portarlo a compimento. Per proseguire il cammino nell’esercizio delle virtù e per arrivare al termine avrebbe avuto bisogno di un’altra grazia di Dio sopraggiunta alla rettitudine originale del libero arbitrio. Cristo, il secondo Adamo, invece ci dà una grazia tanto per iniziare la retta scelta del libero arbitrio quanto per portarla al compimento perfetto. Sia l’iniziare che il proseguire nel bene li riceviamo da colui che ci dà il dono della grazia. Il libero arbitrio in noi non è più retto, ma rettificato e restaurato dalla stessa grazia.
Qui appare nettamente la distinzione, proveniente dalle dispute con il pelagianesimo, tra l’inizio e il termine perfetto di un’opera buona: mentre il primo uomo aveva bisogno solo del compimento, noi abbiamo bisogno anche dell’inizio, perché la nostra libertà non è più intatta, ma è danneggiata e inclinata dal peccato. Se perciò Adamo ricevette immediatamente la grazia senza la remissione del peccato, noi, dopo il peccato, prima dobbiamo essere liberati dalle nostre cattive inclinazioni per poi poter ricevere anche la perfezione della grazia.
Interessante in questa posizione è la bontà naturale attribuita alla libertà umana ante lapsum e la grazia che vi si aggiunge a quanto sembra non solo secondo l’ordine della natura, ma anche secondo l’ordine del tempo, così che Adamo non sarebbe creato in grazia, ma solo nella rettitudine connaturale delle sue facoltà operative e solo in un secondo tempo avrebbe ricevuto la giustizia strettamente soprannaturale.
Anche il LOMBARDO[33] espone una simile opinione secondo cui l’uomo, costituito nella giustizia originale, avrebbe avuto una rettitudine  preternaturale (integrità della natura) delle sue facoltà operative e solo in seguito sarebbe stato congiunto perfettamente a Dio per mezzo della grazia santificante e della giustizia strettamente soprannaturale. Anche la prima rettitudine, quella dell’integrità naturale, è un dono di grazia, ma solo la seconda, quella della giustizia soprannaturale, è perfetta. SAN TOMMASO conosce le tesi di Ratramno e di Lombardo, ma non le condivide.[34]  
Secondo lui infatti Adamo fu pienamente giustificato nel primo istante della sua creazione con una giustizia strettamente soprannaturale, la quale, oltre all’integrità preternaturale della natura e delle sue facoltà, conteneva anche un perfetto ordine a Dio, fine ultimo soprannaturale della vita umana. Nel primo uomo vi fu una natura distinta dalla sua integrità connaturale ma non dovuta e perciò derivante da un dono preternaturale e dal dono strettamente soprannaturale della grazia santificante, che ordinava perfettamente in Dio ed era principio di vero merito soprannaturale. I tre beni distinti secondo la natura, coincidevano secondo il tempo nello stesso istante della creazione, che terminava al bene della natura, all’integrità della medesima e al suo ordine soprannaturale verso Dio, fine ultimo della vita umana.


La giustizia, che è il termine della giustificazione è originalmente nella volontà come nel suo soggetto, ma è anche nelle altre potenze dell’anima
in quanto sono rettificate da essa.
           
La definizione della giustizia presentata da S. Anselmo e accettata come autorevole anche da S. Tommaso colloca la giustizia nella volontà affermando che essa consiste nella “rettitudine della volontà”. Se però la giustizia che è il termine del moto della giustificazione esclude ogni peccato, vuol dire che comprende in sé tutte le virtù a modo di un tutto integrale, cosicchè, venuta meno una di esse, non si può più parlare della giustizia soprannaturale. Ora, le singole virtù non perfezionano solo la volontà, ma tutte le potenze dell’anima e quindi ogni peccato opposto al bene di una qualsiasi virtù distrugge la giustizia soprannaturale.
La giustificazione non termina soltanto alla rettitudine della volontà, ma anche a quella di tutte le altre potenze. Questo però sembra contraddire la sentenza anselmiana. San Tommaso[35] risponde distinguendo l’origine della giustizia soprannaturale e la sua azione sulle altre potenze dell’anima. Originariamente essa è nella volontà, ma rettifica anche le altre facoltà influendo su di esse. E così inerisce non solo alla volontà ma anche alle altre potenze come ad altrettanti suoi soggetti secondo le rispettive virtù dalle quali è composta a modo di tutto integrale.
            San Tommaso afferma che originariamente la giustizia è nella volontà, aggiungendo anche il motivo che la volontà è principio del merito e del demerito. Ora, affinché la volontà possa meritare qualcosa a livello soprannaturale, bisogna che sia perfezionata dalla carità, che emana immediatamente dalla grazia, che a sua volta si trova nell’essenza dell’anima.
            La carità poi include tutte le altre virtù soprannaturali formate connettendole tra di loro. La giustizia soprannaturale deriva quindi dalla grazia che è nell’essenza dell’anima e raggiunge tutte le sue facoltà per mezzo della carità che è nella volontà. E’ per questo che la volontà ottiene un posto privilegiato tra le altre potenze dell’anima.
            Inoltre la volontà è in qualche modo alla base di ogni atto umano moralmente qualificabile e perciò l’atto di una potenza può dirsi buono o cattivo moralmente solo in quanto è perfettamente volontario e quindi solo per un certo riferimento alla volontà. Ora, gli atti volontari sono essenzialmente della volontà stessa, ma per partecipazione sono di tutte le altre facoltà, in quanto il loro atto può essere imperato dalla volontà. Con questa idea della partecipazione San Tommaso riesce a rispettare allo stesso tempo l’unità e la complessità della vita morale.
            L’atto morale è fondamentalmente della volontà, ma per partecipazione può essere direttamente anche di tutte le altre potenze. La volontà mantiene così un’incontestabile primato tra le altre facoltà dell’anima per quanto riguarda la vita pratica, ma in nessun modo distrugge la rispettiva perfezione naturale delle singole potenze, il cui atto, pur essendo imperato dalla volontà, è direttamente elicito dalla potenza di cui è l’atto. Così il centro della vita morale è nella volontà, ma la stessa vita morale si estende a tutte le potenze.
Dopo aver esaminato la caratteristica della giustizia, alla quale termina il moto della giustificazione, per capirne meglio l’incisività per la vita quotidiana degli uomini giustificati, bisogna ora considerare la perfezione degli uomini giusti, se per “giustizia” si intende appunto la rettitudine interiore e soprannaturale dell’uomo in se stesso e nei confronti di Dio.

San Tommaso ha una grande stima di una tale giustizia affermando che i giusti sono:
(a) la più nobile parte dell’universo, al bene della quale collaborano tutti gli avvenimenti e
(b) coloro che possiedono Dio sia nella speranza della beatitudine futura, sia nel possesso immediato della beata visione.


I giusti sono la parte più nobile dell’universo e come tali sono un oggetto particolare della provvidenza e della predestinazione divina.

            La provvidenza divina governa tutto l’universo, ma in un modo speciale si prende cura degli uomini come creature razionali, fatte ad immagine di Dio, immortali e destinate ad un fine soprannaturale che è Dio stesso. Perciò, oltre alla provvidenza comune, gli uomini diventano oggetto di un progetto divino particolare, secondo il quale sono mossi verso la consecuzione del loro fine ultimo e questa provvidenza speciale è la predestinazione. Siccome poi la predestinazione è la ragione della trasmissione della creatura razionale al suo fine ultimo, ne segue che la predestinazione riguarda direttamente coloro che di fatto conseguono il loro fine ultimo soprannaturale e solo indirettamente coloro che di fatto non lo conseguono[36].
            Ora, coloro che arrivano di fatto alla beatitudine eterna per mezzo della grazia finale sono appunto i “giusti”, cioè gli uomini che perseverano nel dono della giustizia soprannaturale fino alla fine della loro vita. La grazia della perseveranza si aggiunge alla grazia giustificante conseguita durante la vita sulla terra, ma la stessa grazia giustificante è ordinata come a sua perfezione alla consumazione della giustizia nella perseveranza finale. La giustizia soprannaturale mantenuta fino alla fine della vita costituisce un merito equivalente della beatitudine eterna. In questo senso la predestinazione riguarda immediatamente i giusti e solo indirettamente, per privazione, i dannati.
            La provvidenza divina intende infatti il bene di tutto l’universo e perciò ordina tutti gli avvenimenti al bene della parte più eccellente di esso. Così i giusti sono oggetto particolare della predestinazione, perché costituiscono la parte più nobile dell’universo e per conseguenza tutte le cose contribuiscono al loro bene[37].  Anche il male dei peccatori si volge al bene dei giusti; i cattivi infatti sono preordinati da Dio al bene dei buoni. Tutto infatti coopera al loro vantaggio. In qualche modo anche il loro peccato costituisce un ulteriore motivo della loro gloria.
            Il giusto che si ravvede dopo la sua colpa risorge con una carità ancora più intensa e soprattutto più solida e più duratura, perché più umile e più prudente. Il male, infatti, sembra in un primo momento sottrarsi all’ordine prestabilito da Dio, ma in realtà serve questo stesso ordine della sapienza e della bontà divina.
            L’uomo è provvidente e nello stesso tempo oggetto di provvidenza. Secondo il primo aspetto si dice buono o cattivo, giusto o ingiusto, in quanto o osserva la rettitudine o manca rispetto ad essa. Il secondo aspetto poi corrisponde al primo, cioè, secondo il suo comportamento nella provvidenza attiva l’uomo diventa passivamente oggetto della provvidenza divina sia nel bene se è buono, sia nel male se è cattivo. Così la divina sapienza ha prestabilito che tutto dovrà volgersi al bene dei giusti, che hanno saputo vivere in conformità alla dignità umana, mentre, per quanto riguarda coloro che si comportano a modo di bruti animali in modo indegno di creatura razionale, Dio ordina anche il loro stesso bene (imperfetto e particolare) al bene (perfetto e universale) dei giusti.
            I peccatori esulano dall’ordine della provvidenza vivendo ingiustamente, ma rientrano nella provvidenza diventando oggetto della giustizia punitiva (vendicativa) di Dio[38]. Quando il Santo Dottore afferma che il male degli empi si volgerà a bene dei giusti, non vuol dire che l’infelicità dei peccatori costituisce la felicità dei santi – un pensiero indegno della bontà divina –, ma si tratta piuttosto di un’esigenza oggettiva che il male (adesione al bene particolare) sia ordinato al bene simpliciter (adesione al bene universale, vero fine ultimo della vita umana).
La provvidenza divina riguarda specialmente i giusti, cioè gli eletti, proteggendoli dal peccato, soprattutto da un peccato che potrebbe impedire la loro salvezza finale. Anche in questo caso la giustizia esclude il peccato e Dio si prende cura dei giusti rendendoli immuni da questo male. La grazia finale aggiunge qualcosa alla grazia della giustificazione, ma quest’ultima è data in vista della grazia finale. Ora, se i dannati non conseguono il fine ultimo soprannaturale e quindi non sono direttamente oggetto della predestinazione, ciò non vuol dire che siano completamente esclusi dalla provvidenza, secondo la quale sono conservati nel loro essere e governati nel loro agire. Quando si dice che Dio abbandona qualcuno, non si vuole indicare una completa cessazione della provvidenza divina nei riguardi di un tale uomo, ma solo l’assenza della provvidenza speciale rispetto alla destinazione della sua vita. Dio non “abbandona” nessuno sottraendogli qualcosa di ciò che gli spetta, ma talvolta non ordina alla consecuzione del fine ultimo un uomo, mentre vi ordina positivamente un altro[39]. La giustizia soprannaturale è sempre l’effetto della provvidenza speciale e della predestinazione, soprattutto quella finale, e l’azione divina nei confronti dei giusti che sono oggetto della predestinazione consiste particolarmente nella difesa dal peccato.


I giusti sono in possesso di Dio,
sia secondo la speranza, sia secondo la realtà attuale.
    
I giusti possiedono la rettitudine soprannaturale costituita dall’insieme delle virtù infuse e formate dalla carità. Ora, queste virtù non potrebbero esserci se non vi fosse nell’anima la grazia santificante, dalla quale tutte le virtù infuse emanano. Così il dono della giustizia è strettamente legato a quello della grazia. Ora, nella grazia ci viene dato lo stesso Spirito Santo e perciò l’uomo giusto entrando in possesso della grazia santificante, diventa partecipe di Dio, possiede Dio conoscendolo e amandolo sopra ogni cosa.
            San Tommaso distingue due modi di parlare di Dio come di “nostro Dio”. Il nome di Dio proviene da un’operazione anche se è destinato a significare l’essenza o la natura divina. Secondo un’autorità del DAMASCENO[40] il nome “Dio” proviene o dal curare tutte le cose (thein) o da ardere (aithein), in quanto l’ardore di Dio consuma ogni malizia o infine dal considerare tutto (theasthai). Secondo questo significato, cioè da parte dell’operazione dalla quale è desunto il nome di Dio, è possibile dire “Dio nostro”. Sarebbe invece impossibile dire “Dio nostro” pensando alla stessa natura divina.
         Ma anche secondo l’operazione Dio è diversamente Dio di tutti e Dio dei giusti. Solo i giusti sono destinati a conseguire Dio come il loro fine e perciò si dice specialmente di loro che Dio è “il loro Dio” in quanto lo possiedono. Tutte le cose provengono da Dio e sono ordinate a lui e in questo senso Dio è il “Dio di tutte le cose”, ma solo i giusti sono perfettamente uniti a lui sia per la grazia (durante il cammino di questa vita) sia per la gloria (nel possesso beato del regno nella patria celeste). Solo i giusti hanno realmente Dio come la loro eredità e anche a modo di passione (“ad modum passionis”), cioè di partecipazione reale sia iniziata per grazia sia consumata per gloria[41].
            I giusti sono congiunti con Dio per mezzo della grazia o della gloria e una simile unione con il fine ultimo soprannaturale esclude ovviamente ogni allontanamento da un tale fine e per conseguenza esclude ogni peccato. La caratteristica propria dei giusti è quindi quella di essere privi di ogni peccato, almeno di ogni peccato grave.

               
La giustificazione è un moto della mente, nel quale l’anima è mossa da Dio  dallo stato di peccato allo stato della giustizia.
           
Se il termine della giustificazione è la giustizia soprannaturale, che esclude ogni peccato, allora nel caso in cui il peccato precede la giustizia, la giustificazione come moto verso la giustizia può realizzarsi solo come moto da un termine contrario all’altro[42].  
La giustificazione è per essenza un moto verso la giustizia, ma potrebbe anche essere una semplice generazione della giustizia nell’anima di un uomo che ne era privo. Dove invece ha preceduto il peccato, la giustizia può subentrare solo dopo la sua distruzione reale e per conseguenza porta necessariamente con sé la remissione dei peccati come la distruzione della forma precedente mediante l’infusione della forma nuova che è appunto la giustizia soprannaturale e la grazia santificante.
            Il termine del moto della giustificazione è direttamente la giustizia, che comprende in sé tutte le virtù e indirettamente la liberazione dal peccato, in quanto un eventuale peccato esistente nel soggetto si oppone all’insieme delle virtù soprannaturali costituenti a modo di un tutto integrale la giustizia.  Perché la giustizia possa aderire ad un soggetto, quest’ultimo dev’essere disposto in modo tale da escludere ogni forma contraria alla giustizia e quindi nella dinamica della giustificazione considerata da parte del soggetto, prima vi è la remissione dei peccati e poi l’infusione della grazia santificante assieme alla giustizia che ne deriva nelle potenze dell’anima.
            Questa dinamica del processo della giustificazione appare chiaramente nella definizione tradizionale ripresa dal Santo Dottore, secondo la quale la giustificazione dell’uomo nello stato presente consiste nella “remissione dei peccati e nel compimento delle opere buone”[43].
         San Tommaso, per spiegare questa affermazione, si serve ancora una volta dell’analogia con il moto. Ogni moto infatti richiede un allontanarsi da un termine per accedere ad un altro. Sotto il primo aspetto, cioè in quanto si allontana dal peccato, la giustificazione si dice “remissione dei peccati”; sotto il secondo aspetto invece, cioè in quanto si avvicina alla giustizia, la giustificazione è la “compimento delle buone opere” in quanto le azioni meritevoli scaturiscono dalle virtù soprannaturali formate dalla carità ed infuse insieme con la grazia santificante.
Sempre considerando la giustificazione come passaggio da uno stato (quello del peccato) in un altro (quello della giustizia e della grazia)[44], il Santo Dottore si chiede quale sia esattamente il rapporto tra la remissione del peccato e la giustificazione nell’ipotesi di un soggetto affetto dal peccato e per conseguenza tale che in lui la giustificazione sempre comporti anche la distruzione del peccato opposto ad essa. Ora, la giustificazione si può considerare in due modi: sia come un moto, sia come una mutazione.
Se per giustificazione si intende un moto, allora la stessa giustificazione coincide realmente con la remissione dei peccati, ma si distingue da essa secondo una distinzione di ragione fondata sul duplice rapporto al termine a quo e ad quem. La remissione dei peccati esplicita di più il distacco dal termine a quo; la giustificazione invece mette più in risalto l’avvicinarsi al termine ad quem. Di fatto però la giustificazione è un moto unico che congloba in sé e il distacco dal peccato e l’arrivo alla giustizia.
Se invece la giustificazione si considera a modo di una mutazione,  allora vi sono in essa due mutazioni realmente distinte. Una consiste nella distruzione del peccato, l’altra invece consiste nella consecuzione della giustizia e della grazia. Anche in questo caso però le due mutazioni sono strettamente legate tra di loro e, pur distinguendosi realmente, una non può essere senza l’altra.[45] 
San Tommaso insiste sulla necessità della remissione dei peccati nel processo della giustificazione secondo lo stato presente della natura umana, la quale, affetta dal peccato, ha bisogno  di esserne liberata per poter accedere alla giustizia e alla grazia, alla comunione di vita con Dio. La  ragione di questa necessità è insita nella stessa giustizia verso la quale l’uomo si muove, mosso da Dio, nel processo della giustificazione. Questa giustizia infatti si oppone ad ogni singolo peccato e perciò non può essere in un soggetto affetto dal peccato, ma richiede la remissione della colpa sia come una parte dello stesso moto della giustificazione, sia come una mutazione distinta dalla generazione della giustizia nel soggetto, ma sempre necessariamente compresente con quest’ultima.
            Ora, se la colpa del peccato non fosse qualcosa di reale nell’anima dell’uomo peccatore, allora la giustificazione coinciderebbe con la remissione del peccato, anche in quanto si può considerare a modo di mutazione. Così infatti la colpa sarebbe solo l’assenza della grazia, che si potrebbe togliere immediatamente con l’infusione della medesima e così la stessa generazione della giustizia nell’anima del giustificato ipso facto implicherebbe la distruzione della colpa e cioè la remissione del peccato. 
            Ma la colpa non è solo l’assenza della grazia. Quest’ultima è solo una pena che segue alla colpa; la colpa stessa invece è una privazione del dovuto ordine morale esistente realmente in un atto concreto. Così il peccato, essendo un male, è una privazione, ma nel suo atto ha una consistenza reale e così anche se, considerato assolutamente in se stesso, il peccato è solo una privazione, esso ha un’esistenza reale nel soggetto che ha peccato in un tale atto concreto e così, da parte dell’atto disordinato (e non già da parte dello stesso disordine considerato in sé), il peccato è un’entità reale e permanente nell’uomo. L’assenza della grazia segue poi il peccato in quanto quest’ultimo costituisce un ostacolo reale alla sua infusione e perciò, affinché la grazia possa perfezionare l’anima di un peccatore, si richiede la remissione del peccato come un “removens prohibens”.
            Una volta distrutto il peccato, subito viene infusa la grazia, la cui assenza non era dovuta ad una sottrazione da parte dell’agente divino infondente la grazia, bensì all’ostacolo posto realmente dall’uomo nell’atto del peccato. La remissione del peccato toglie l’ostacolo e immediatamente subentra l’infusione della grazia da parte di Dio. Così, secondo la considerazione della giustificazione a modo di una mutazione, la remissione del peccato è distinta dall’infusione della grazia.
         La remissione del peccato infatti toglie l’ostacolo posto alla grazia, mentre l’infusione della grazia toglie l’assenza della grazia dovuta alla presenza del peccato ostacolante la sua infusione[46]. La distruzione del peccato operata dalla remissione della colpa è efficace come rimozione dell’ostacolo posto dal peccato  nell’anima dell’uomo.
            La concezione tomista della giustificazione come moto verso la giustizia soprannaturale differisce in punti essenziali dalla concezione luterana e non si può servire bene la causa dell’ecumenismo minimizzando indebitamente questi fatti. L’unità nella carità si può costruire solo sulle solide basi della verità. Quest’ultima implica anche l’esigenza della giustizia verso i singoli autori, i quali devono essere interpretati secondo il loro proprio pensiero e non “adattati” alle correnti “di moda”, anche se lodevoli ed apprezzabili[47].

Dall’attento esame dell’insegnamento di S.Tommaso risultano soprattutto le seguenti differenze nei confronti della concezione luterana della giustificazione:
a)    A differenza di Lutero San Tommaso non è “amartocentrico”, cioè prevede senz’altro la possibilità di una giustificazione senza la remissione dei peccati nell’ipotesi dell’assenza del peccato.
b)    Per San Tommaso il peccato si oppone alla giustizia soprannaturale in un modo tale che è strettamente impossibile la compresenza di queste due realtà in un unico soggetto.
c)     Perciò la giustificazione non si può limitare ad una “non imputazione del peccato”, ma implica necessariamente sia per la sua stessa essenza (se considerata come un moto), sia per necessaria concomitanza (se considerata come una mutazione) la reale distruzione del peccato, ovviamente non così che un peccato passato non vi sia più come passato, perché questo sarebbe contradditorio,  ma così che il peccato che realmente impediva ed ostacolava l’infusione della grazia è realmente rimosso come ostacolo.

            L’incompatibilità tra il peccato e la giustizia non solo mette maggiormente in risalto l’efficacia della grazia, ma prende più “sul serio” la stessa realtà del peccato, realtà tragica ma sempre una realtà, la cui complessità corrisponde alla stessa complessità della persona umana come agente morale.


La remissione del peccato è naturalmente prima nel processo della giustificazione secondo l’ordine della causa materiale dispositiva.
           
            San Tommaso è molto attento alla sequenza dei singoli momenti della giustificazione secondo punti di vista diversi e questo appunto perché la giustificazione è un moto e per conseguenza una realtà dinamica, ma anche una realtà complessa divisibile in parti più semplici e più costanti, la cui struttura è comune ad ogni giustificazione indipendentemente dalle circostanze particolari. Il moto della giustificazione si può “afferrare” a livello conoscitivo solo attraverso questa struttura “statica”, che è alla base del suo dinamismo.
            Lo studio dell’ordine delle singole parti della giustificazione sarà di un’importanza decisiva nella considerazione del rapporto che vi è tra l’azione divina e la volontà umana in vista del conseguimento della giustizia, ma conviene fare un breve accenno al posto della remissione dei peccati nella giustificazione per mettere in risalto il legame tra l’azione divina e la distruzione del peccato nella “remissione”.
            Nella giustificazione l’infusione della grazia muove il libero arbitrio a credere con fede piena e viva in Dio, a detestare il peccato con perfetta contrizione ed a conseguire così la remissione dei peccati assieme al dono della grazia santificante. Il peccato è, nella giustificazione, oggetto dell’azione umana nella contrizione e oggetto dell’azione divina nella remissione. Ovviamente la stessa azione umana, il moto del libero arbitrio, è un risultato dell’azione divina, che coinvolge tutto il dinamismo della giustificazione.
            Tra i due atti del libero arbitrio, quello che riguarda Dio come oggetto di una fede viva precede naturalmente quello che si svolge contro il peccato detestandolo. La ragione di questo ordine è semplice: il peccato può essere pianto in una vera e propria contrizione solo se il motivo del dolore è l’offesa dell’amore divino con il desiderio di rimettere Dio al posto che gli spetta nella nostra vita, vale a dire al posto del fine ultimo soprannaturale, come avviene nella virtù della carità.
            La carità ispira quindi la contrizione e la fede formata precede così il dolore perfetto dei peccati[48]. La penitenza non può essere prima tra le altre virtù secondo natura perché se le altre virtù sono necessarie per la vita morale per se stesse, la penitenza lo è solo accidentalmente, cioè se si suppone un peccato preesistente. Inoltre, sempre secondo l’ordine della natura, la grazia si esprime prima nella carità e poi nella penitenza perfetta ispirata alla carità. D’altra parte però la penitenza può essere in qualche modo prima secondo l’ordine del tempo, come ciò che si incontra per primo nel processo della giustificazione.
            Nella giustificazione quindi vi è un certo primato della penitenza rispetto alla carità, non già secondo la natura, bensì secondo il tempo[49]. Ora, la priorità secondo il tempo non vuol dire che vi sia un prima e un poi nel senso temporale, perché il Santo Dottore afferma senza possibilità di equivoci che i due moti di fede formata e di contrizione perfetta sono contemporanei (“simul”). L’“ordo temporis” piuttosto, in contrapposizione all’“ordo naturae” indica l’ordine genetico, secondo il divenire, anche se il divenire è istantaneo, mentre l’ordine della natura è l’ordine essenziale e di per sè.
            L’ordine secondo il tempo corrisponde nella giustificazione all’ordine secondo la natura da parte del soggetto distinto dal medesimo ordine, in quanto considerato dalla parte della forma che è il fine inteso per primo dall’agente[50]. Così, secondo l’ordine del tempo e secondo l’ordine della natura dalla parte del soggetto, la contrizione per i peccati precede il moto della fede formata e la remissione dei peccati precede l’infusione della grazia.
            Vi è per conseguenza un ordine diverso dalla parte del Dio giustificante e dalla parte dell’uomo giustificato, dalla parte dell’agente divino e dalla parte del soggetto umano. Dalla parte di Dio l’infusione della grazia precede la remissione del peccato, in quanto Dio, intendendo principalmente l’infusione della grazia, rimette secondariamente anche i peccati che vi si oppongono. Da parte dell’uomo invece la ricezione della grazia richiede la disposizione del soggetto e cioè la privazione di ogni forma contraria e per conseguenza l’assenza dei peccati per remissione.
In questa prospettiva però la giustificazione non appare nella sua unità di moto, ma sembra una duplice mutazione, nel corso della quale la remissione della colpa e l’infusione della grazia si precedono e si susseguono secondo diversi punti di vista. Ma la giustificazione può essere considerata ad modum unius come un solo moto che è tutto causato da Dio e, come effetto dell’azione divina, implica due termini: il termine a quo che è la remissione del peccato e il termine ad quem che è la consecuzione della grazia abituale[51]. Anche nella giustificazione intesa come un unico moto secondo l’ordine del divenire, il distacco dal peccato precede l’arrivo al termine della giustizia, mentre secondo l’ordine della natura è primo il termine specificante del moto al quale dispone la distruzione del peccato nel soggetto umano.
            Il moto della giustificazione comprende la distruzione del peccato e la generazione della giustizia soprannaturale nell’anima del giusto. Le due mutazioni sono poi collegate in un unico moto, nel quale la remissione del peccato precede la consecuzione della grazia da parte del soggetto, cioè secondo la causa materiale dispositiva, mentre l’infusione della grazia è causa della giustificazione secondo l’ordine della causa formale, efficiente e finale[52].
         La disposizione alla forma avviene infatti nell’ordine della causa materiale; la materia è disposta a ricevere una forma se è priva di forme contrarie. Il soggetto, cioè la materia, oltre alla sua stessa essenza, contiene la privazione come entità di ragione ed è la privazione della forma in un soggetto che lo rende disposto e capace di ricevere un’altra forma. Da parte della forma stessa invece l’introduzione della forma causa l’espulsione della forma contraria[53].
            La forma viene introdotta nel soggetto, mentre il soggetto riceve la forma. Così si può dire che l’introduzione della forma causa l’espulsione della forma contraria, mentre l’espulsione della forma contraria causa nel soggetto la capacità di conseguire una determinata forma. L’azione divina causa e l’infusione della grazia e la remissione del peccato. L’infusione della grazia è la causa formale, efficiente e finale della remissione dei peccati, mentre la remissione dei peccati è la causa materiale dispositiva della consecuzione della grazia.

L’effetto della giustificazione è la remissione della colpa assieme alla novità di vita per mezzo della grazia.
           
La remissione della colpa è un effetto distinto dalla consecuzione della grazia per il semplice motivo che quest’ultima non necessariamente implica la prima. La remissione del peccato è infatti accidentale rispetto all’infusione della grazia, ma nella giustificazione del peccatore si richiedono e l’una e l’altra[54]. L’infusione della grazia abituale santificante, per mezzo della quale l’uomo diventa partecipe della giustizia soprannaturale, entra in comunione di vita con Dio e viene rinnovato come  nuova creazione, è quindi un effetto della giustificazione distinto dalla remissione dei peccati.
            L’infusione della grazia è essenziale alla giustificazione; invece la remissione dei peccati è una disposizione necessaria alla consecuzione della giustizia in un soggetto affetto dal peccato. Nella giustificazione dell’empio i due effetti dell’azione divina sono compresenti: l’uomo liberato dal peccato viene investito della grazia santificante.
            San Tommaso però precisa ancora il rapporto che vi è tra la remissione del peccato e l’infusione della grazia come due effetti dell’azione giustificante di Dio. Se la giustificazione dell’empio si considera come un moto unico, allora tutto il trasferimento del soggetto umano dal peccato alla giustizia è un unico effetto dell’azione divina, della giustificazione attiva da parte di Dio. Se invece si considerano i rispettivi oggetti delle due mutazioni che sono la remissione del peccato e l’infusione della grazia, allora i due effetti sono realmente distinti[55]47).
            Ciò che unisce l’infusione della grazia e la remissione del peccato è la loro compresenza nella giustificazione dell’empio, se questa viene considerata come un unico effetto dell’azione giustificante di Dio. Prese in se stesse queste due parti della giustificazione si distinguono secondo la diversità del loro oggetto. La remissione del peccato è necessaria nella giustificazione dell’empio, del peccatore, perché ogni singolo peccato si oppone alla grazia ed alla giustizia soprannaturale. D’altra parte però non si può dire che ogni privazione di grazia sia causata dal peccato. Il peccato causa sempre la privazione della grazia, ma non ogni soggetto privo[56] di grazia lo è a causa di un peccato precedente. Se infatti la grazia proviene da una libera e gratuita donazione da parte di Dio, si può legittimamente pensare ad uno stato ipotetico in cui la natura umana sarebbe priva di peccato e di grazia[57]48). Un uomo può per conseguenza ricevere la grazia senza aver peccato in precedenza, ma se ha peccato, per riceverla deve essere prima liberato dalla sua colpa. Ancora una volta viene messo in risalto il carattere accidentale della remissione dei peccati nella giustificazione.
Di per sè la giustificazione tende a conferire la vita nuova della grazia; accidentalmente questo dono di grazia richiede, nell’uomo peccatore, la remissione dei peccati. Per illustrare questo stato di cose il Santo Dottore usa una bella immagine della vita in grazia come di un matrimonio spirituale. Il dono della grazia svolge un ruolo analogo a quello della dote nel matrimonio vero e proprio.[58]
Le doti del matrimonio non solo devono alleviare gli oneri del medesimo, ma soprattutto hanno la funzione di renderlo più gioioso. Altrettanto avviene anche nel matrimonio spirituale, dove Dio conferisce all’anima, sua sposa, i doni di grazia non tanto per assisterla negli eventuali oneri, quanto piuttosto per portarla alla perfezione della gioia soprannaturale. In questo modo la remissione dei peccati come removens prohibens è solo una disposizione a ricevere l’effetto essenziale della giustificazione : la grazia santificante con l’insieme delle virtù e dei doni.
                       

* La remissione dei peccati è il primo e non l’ultimo effetto della giustificazione.   
           
La remissione dei peccati precede la consecuzione della grazia da parte del soggetto, ma la sua funzione è quella di disporre lo stesso soggetto alla ricezione di doni più alti, tra i quali appunto la grazia santificante, come una forza di vita soprannaturale che accompagna l’uomo durante il suo cammino verso Dio fino al perfetto possesso del fine ultimo soprannaturale nella visione beatifica. La grazia santificante è la causa formale della remissione dei peccati, ma la sua azione non si esaurisce con questo primo effetto piuttosto negativo (rimozione di un ostacolo)[59]. La Scrittura parla della grazia  e della pace per indicare appunto il movimento dell’uomo che lo porta dal peccato fino alla vita eterna[60]. La vita spirituale comincia con la morte al peccato (primo effetto della grazia), ma non si esaurisce qui, portando l’uomo fino alla perfetta quiete della sua mente in Dio (pace, riconciliazione con Dio). La santificazione è una vita con Dio e non solo l’assenza del peccato.

  
* La colpa non può essere perdonata senza un’azione della grazia da parte di Dio.
           
La grazia è strettamente richiesta per la consecuzione della vita eterna, la quale, essendo infinita, non può essere meritata se non da un agente dotato di virtù quasi infinita. Allo stesso modo la grazia è necessaria per la remissione dei peccati. Il peccato mortale infatti implica un allontanamento da Dio fine ultimo e per conseguenza, offendendo il Bene sommo ed infinito, anch’esso a sua volta è in qualche modo infinito e quindi, affinché possa essere tolto di mezzo, si richiede una forza infinita che viene comunicata all’uomo con la grazia.
Il peccato, una volta commesso, rimane nell’anima secondo il reato ed ha bisogno di essere espiato. Una tale espiazione poi non si realizza soltanto per una vita ordinata, perché il reato del peccato precedente rimane nonostante la rettitudine di condotta morale ripresa in seguito (rettitudine a livello di virtù acquisite perché la grazia è esclusa dal peccato), ma può essere ottenuta per mezzo di una virtù in qualche modo infinita che distrugge, cioè espia e copre, il peccato precedente[61].
In tal modo si può dire che dove c’è la remissione della colpa, c’ è anche la grazia non solo con i suoi effetti negativi, ma anche con quelli positivi (gli effetti positivi infatti causano in ordine di causalità formale, efficiente e finale quelli negativi), tra i quali bisogna considerare, oltre all’effetto finale che è la consecuzione della vita eterna, anche gli effetti intermedi come la resistenza alle singole tentazioni, in quanto anche un minimo grado di grazia è sufficiente per resistere a qualsiasi tentazione.        
La penitenza che termina alla remissione dei peccati, termina allo stesso tempo alla grazia santificante con tutto l’insieme delle virtù soprannaturali che ne deriva. Anche la remissione dei peccati veniali è dovuta alla grazia in virtù della quale Dio non li imputa all’uomo e perciò, nello stato di peccato mortale, i peccati veniali non sono rimessi. Solo con la grazia che rimette il peccato mortale  riconciliandoci con Dio si ottiene di nuovo il perdono di tutti i peccati compresi quelli veniali[62].
            La remissione dei peccati è perciò strettamente legata all’infusione della grazia e San Tommaso non parla solo della grazia attuale, ma anche della grazia abituale, dicendo che nella remissione della colpa la grazia non è un agente intermedio, bensì una forma contraria al peccato, non è una causa strumentale, ma piuttosto una causa formale.
            Per illustrare la necessità della grazia abituale San Tommaso si serve di un esempio metafisico: l’essere di un ente richiede l’essenza, che è la forma naturale secondo la quale ogni cosa creata riceve la sua esistenza come il principio per mezzo del quale ogni cosa è quel che è. Ora, l’esempio scelto dal Santo Dottore suggerisce una stretta necessità, perché l’essere di una cosa finita è impensabile senza un’essenza precisa che ne è il principio in un tale ente determinato. Nella remissione dei peccati sembra infatti necessaria l’infusione della grazia abituale, perché il peccato che consiste nell’allontanamento da Dio fine ultimo, può essere efficacemente distrutto solo per mezzo di un ristabilimento dell’ordine a questo fine.
            Ora la carità vicendevole, amichevole, tra Dio e l’uomo è l’ordine dell’uomo al fine ultimo. Il peccatore che se ne allontana è “odiato” da Dio, in quanto Dio vuole privarlo dell’ultimo fine dal quale lui stesso ha deviato. Chi invece cessa di essere peccatore, a chi sono rimessi i peccati, non è più nemico di Dio, ma ama Dio come suo fine ultimo e ne è amato in quanto Dio stesso lo destina alla consecuzione della beatitudine perfetta. Perciò la remissione del peccato avviene nella grazia che implica un’amicizia tra Dio e l’uomo[63]54). In questa prospettiva la grazia santificante, e non solo quella attuale, sembra essere strettamente necessaria per la remissione dei peccati come sua causa (nell’ordine della causalità formale) e come suo effetto immediato (nell’ordine della causalità dispositiva).
            Ci si può chiedere se Dio, de potentia absoluta, non potrebbe rimettere il peccato senza infondere la grazia santificante[64]. Per la remissione del peccato è necessario il ristabilimento dell’ordine al fine ultimo e quindi almeno un atto di carità sotto la mozione della grazia attuale, ma la questione è se Dio potrebbe rimettere il peccato senza il dono della grazia abituale. Ora, secondo quanto ha detto San Tommaso, sembra che per lui sia necessaria la grazia abituale. Bisogna però distinguere in essa la sua azione causale e il suo aspetto di essere un dono soprannaturale abitualmente presente nell’anima del giusto.
            Per quanto riguarda la causalità formale della grazia santificante nell’anima dei giustificati, essa è necessaria per la remissione del peccato, ma Dio potrebbe produrre un effetto simile senza il dono vero e proprio della grazia, rettificando le potenze dell’anima e conservandole tali per mezzo di un continuo influsso della grazia attuale, la quale, nel suo effetto, diventerebbe abituale, senza esserlo come un dono. Per quanto riguarda infatti quell’aspetto della grazia santificante secondo il quale essa è un dono reale nell’anima del giusto, l’essere dono implica gratuità e per conseguenza Dio può produrre gli effetti della grazia santificante senza conferirla come un dono abituale, ma gli stessi effetti della grazia attuale sarebbero allora abituali, anche se non avrebbero un essere costante nel soggetto giustificato.
            Sarebbe infatti assurdo pensare che Dio rimetta ad un uomo i suoi peccati senza che esso passi ad uno stato abituale di amicizia con Dio; è possibile invece che questa amicizia rimanga solo un influsso attuale continuato da parte di Dio con singoli atti di carità continuati da parte dell’uomo, senza il dono attuale della grazia. Ma se una cosa simile potrebbe essere possibile de potentia absoluta, de potentia ordinata le cose stanno diversamente. Conviene infatti alla bontà e sapienza divina di agire nei confronti dell’uomo secondo l’indole propria della volontà divina, che non si limita a tendere al bene, ma a produrlo realmente come un effetto costante. Inoltre la remissione dei peccati fa passare l’uomo ad un altro stato di vita morale nei confronti di Dio ed è quindi conveniente che ad uno stato corrisponda un vero e proprio abito e non solo una serie continuata di atti disparati. Si può perciò concludere senza esitazione che almeno in qualche modo la grazia abituale (sia come effetto, sia anche come dono) è strettamente richiesta per il perdono dei peccati.


* La salvezza annunciata nel Vangelo comporta la remissione dei peccati, la grazia santificante e la gloria. 
           
Se la remissione dei peccati non è l’unico effetto della giustificazione in genere, questo vale ancora di più per la giustificazione che avviene per mezzo della predicazione del Vangelo. Essa infatti distrugge il peccato, ma si estende anche ad una vita nuova nella grazia, che nella sua consumazione perfetta diventa la gloria della beatitudine eterna[65]. La predicazione del Vangelo è ovviamente causa esterna ed assai remota della giustificazione, ma la parola evangelica contiene in sé una virtù salvifica, la quale produce i suoi frutti se l’uomo la accoglie nel suo cuore.
La parola del Vangelo rientra interiormente nel dinamismo della giustificazione del cristiano se si considera la sua esistenza interiore nell’uomo credente. In questo senso la Sacra Scrittura parla di una “parola che è stata seminata in voi / cioè cristiani / e che può salvare le vostre anime” (Gc 1, 21b). La parola accolta nell’anima purifica efficacemente dal peccato: “voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato” (Gv. 15,3); per mezzo di essa l’uomo consegue la grazia santificante, in quanto l’intrinseca verità della Parola santifica l’uomo: “Consacrali (secondo la Vulg. “sanctifica eos”) nella verità. La tua parola è verità” (Gv 17, 17); ed infine conduce alla vita eterna: “Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6, 68). San Tommaso, leggendo attentamente la Sacra Scrittura, è molto sensibile alla ricchezza degli effetti della grazia giustificante in un modo tutto particolare nell’ambito dello stesso Vangelo. Dio non si limita a perdonare i peccati dei cristiani per mezzo di Cristo, ma li colma dei suoi doni: della grazia in questa vita e della gloria in patria. ( fine parte del testo di P.Tomas Tyn)



P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 16 giugno 2019



[1] Testo tratto dalla Bozza originale della Tesi di Dottorato "L'azione divina e la libertà umana nel processo della giustificazione secondo la dottrina di San Tommaso d'Aquino", testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli O.P. (http://www.arpato.org/).
[2] Summa Theologiae, I-II, q.113, a.6.
[3] Indipendentemente. Nota mia.
[4] Traduzione impropria dell’agostiniana aversio a Deo che va piuttosto tradotta come “allontanamento da Dio”. L’italiano “avversione” viene bensì da aversio, ma col significato di “ripugnanza”, “ostilità”. Nota mia.
[5] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.
[6] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.: “iustificatio passive accepta importat motum ad iustitiam; sicut et calefactio motum ad calorem”.
[7] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 ad 3: “Iustificatio potest sumi dupliciter. Vel secundum quod respondet ad iustificari; et sic dicit motum ad iustitiam predictam. Vel secundum quod sumitur ad iustifucatum esse; et sic est effectus formalis iustitiae preadictae, quia ea aliquid formaliter iustificatum est, sicut albedine albatum.
[8] Della bianchezza della parete. Nota mia.
[9] Forse è meglio dire: giustizia sociale. Nota mia.
[10] Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.: “Cum autem iustitia de sui ratione importat quamdam rectitudinem ordinis, dupliciter accipi potest. Uno modo, secundum quod importat ordinem rectum in ipso actu hominis. Et secundum hoc iustitia ponitur virtus quaedam: sive sit particularis iustitia, quae ordinat actum hominis secundum rectitudinem in comparatione ad alium singularem hominem: sive sit iustitia legalis, quae ordinat secundum rectitudinem actum hominis in comparatione ad bonum commune multitudinis … Alio modo dicitur iustitia prout importat rectitudinem quamdam ordinis in ipsa interiori dispositione hominis prout scilicet supremum hominis subditur Deo, et inferiores vires animae subduntur supremae, scilicet rationi. Et hanc etiam dispositionem vocat Philosophus, in V Ethic., iustitiam metaphorice dictam.”  
[11] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.: “Iustitia autem secundum Philosophum … tribus modis dicitur. Uno enim modo est specialis virtus aequalitatem constituens in commutationibus et distributionibus communicabilium bonorum quae sunt necessaria in vita. Alio modo est nomen generale ad omnes virtutes, secundum quod actus earum ad bonum commune  ordinat secundum directionem legis. Tertio modo importat quemdam statum rectitudinis in homine quantum ad partes ipsius, prout scilicet aliqua pars animae suo superiori subditur, sive alii parti, sive ipsi Deo. Et hanc iustitiam nominat Philosophus metaphoricam, eo quod diversae partes hominis computantur quasi diversae personae.
Haec autem rectitudo per quodlibet peccatum tollitur, et per gratiam reparatur. Unde haec iustitia generalis etiam dicitur, in quantum omnes virtutes includit, non quidem per modum totius universalis, sicut praecedens iustitia; sed generalis dicitur per modum totius integralis. Et ad hanc iustitiam motus iustificatio dicitur”.
[12] Cfr. J.GREDT, I, n. 37, p.35.
[13] Cfr. De Verit. q. 28, a.1 c.a.: “Dicitur autem iustitia tripliciter. Uno modo secundum quod est quaedam specialis  virtus contra alias cardinales divisa, prout dicitur iustitia qua homo dirigitur in his quae veniunt in communicationem vitae, sicut sunt contractus diversi. Haec autem virtus non est omni peccato contraria, sed tantum illis peccatis quae circa huiusmodi communicationes fiunt, sicut furtum, rapina, et alia huiusmodi. Unde sic non potest iustitia hic accipi. Alio modo dicitur iustitia legalis, quae … est omnis virtus sola ratione a virtute differens. Virtus enim secundum quod actum suum in bonum commune ordinat, ad quod etiam intendit legislator, iustitia legalis dicitur, quia legem servat: sicut fortis cum in acie  fortiter confligit propter salutem reipublicae. Sic ergo patet quod quamvis omnis virtus sit iustitia legalis quodammodo, non tam quilibet actus virtutis est actus legalis iustitiae, sed ille solus qui est ad bonum commune ordinatus: quod potest contingere de actu cuiuslibet virtutis; et sic per consequens nec omnis actus peccati iustitiae legali opponitur. Unde nec a iustitia legali dici potest iusificatio, quae est remissio peccatorum. Tertio modo iustitia nominat quemdam statum proprium, secundum quem homo se habet in debito ordine ad Deum, ad proximum et ad seipsum, ut scilicert in eo inferiores vires superiori subdantur … Et huic iustitiae omne peccatum opponitur, cum per quodlibet peccatum aliquid de praedicto ordine corrumpatur. Et ideo ab hac iustitia iustificatio nominatur sive sicut motus a termine, sive sicut effectus formalis a forma”.
[14] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.100, a.2 ad 1: “adimpletio mandatorum legis etiam quae sunt de actibus aliarum virtutum, habet rationem iustificationis, inquantum iustum est quod omnia quae sunt hominis, rationi subdantur”.
[15] Cfr. De Verit. q.28, a.1 c.a.: “huic iustitiae (scil. metaphorice dictae) omne peccatum opponitur, cum per quodlibet peccatum aliquid de praedicto ordine corrumpatur. Et ideo ab hac iustitia iustificatio nominatur”.
[16] Cfr. ibid.: “non quilibet actus virtutis est actus legalis iustitiae, sed ille solus qui est ad bene commune ordinatus: quod potest contingere de actu cuiuslibet virtutis; et sic per consequens nec omnis actus peccati iustitiae legali opponitur. Unde nec a iustitia legali potest dici iustificatio, quae est remissio peccatorum”. 
[17] Cfr. ibid. ad. 2: “iustificatio non dicitur a iustitia legali; quae est omins virtus; sed a iustitia quae dicit generalem rectitudinem in anima, a qua potius quam a gratia iustificatio denominatur: quia huic iustitiae directe et immediate omne peccatum opponitur, cum omnes potentias animae attingat; gratia vero est in essentia animae”.
[18] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.: “Sicut autem ab essentia animae potentiae fluunt, ita rectitudo potentiarum  a gratia, quae est essentiae perfectio. Et inter ipsas potentias voluntas quae alias movet eis rectitudinem quodammodo largitur. Et ideo praedictae iustitiae causa prima est gratia, et consequenter caritas, quae voluntatem ad finem perficit, a quo est rectitudo praedicta. Et propter hoc ipsa iustificatio et peccatorum remissio est effectus iustitiae generalis sicut causae formalis proximae; sed caritatis et gratiae sicut causarum causae proximae. Sicut aliquis aequatus dicitur et aequalitate et quantitate quae est aequalitatis causa. Et quia a proximis causis vel terminis aliquid denominari debet, ideo praedictus motus vel terminatio motus magis denominatur a iustitia quam a caritate vel gratia”.
[19] Cfr. De Verit. q.28, a.1 ad 3: “caritas dicitur causa remissionis peccatorum, in quantum per eam homo Deo coniungitur, a quo aversus peccato erat. Non tamen omne peccatum directe et immediate caritati opponitur, sed praedictae iustitiae”.
[20] Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 ad 2: “fides et caritas dicunt ordinem specialem mentis humanae ad Deum secundum intellectum vel affectum. Sed iustitia importat generaliter totam rectitudinem ordinis. Et ideo magis denominatur huiusmodi transmutatio a iustitia quam a caritate vel fide”.
[21] Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.: “Haec autem iustitia in homine potest fieri dupliciter: uno quidem modo per modum simplicis generationis, qui est ex privazione ad formam, et hoc modo iustificatio posset competere etiam ei qui non esset in peccato, dum huiusmodi iustitiam a Deo acciperet, sicut Adam dicitur accepisse originalem iustitiam.  Alio modo potest fieri hiusmodi iustitia in homine secundum rationem motus, qui est de contrario in contrarium; et secundum hoc iustificatio importat transmutationem quandam de statu iniustitiae ad statum iustitiae praedictae”.
[22] Adamo nello stato di innocenza possedeva già una giustizia soprannaturale che però non era ancora quella di Cristo. Così il fatto che Adamo successivamente abbia ricevuto la giustificazione cristiana, non supponeva propriamente una privazione, ma una semplice assenza. Nota mia. 
[23] Si intende naturalmente della giustizia di Cristo, che Dio ha aggiunto ad Adamo dopo il peccato. Adamo prima del peccato era già giusto, ma non ancora della giusitizia di Cristo. Nota mia.
[24] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.; De Verit. q.28, a.1 c.a.
[25] Cfr. Summa Theologiae I-II, q. 21, a.3 c.a.: “meritum et demeritum dicuntur in ordine ad retributionem, quae fit secundum iustitiam. Retributio autem secundum iustitiam fit alicui ex eo quod agit in profectum vel nocumentum alterius. Est autem consideradum quod unusquisque in aliqua societate vivens, est aliquo modo pars et membrum totius societatis. Quicunque ergo agit aliquid in bonum vel malum alicuius in societate existentis, hoc redundat in totam societatem: sicut qui laedit manum, per consequens laedit hominem. Cum ergo aliquis agit in bonum vel malum alterius singularis personae, cadit ibi dupliciter ratio meriti vel demeriti. Uno modo, secundum quod debetur ei retributio a singulari persona quam iuvat vel offendit. Alio modo, secundum quod debetur ei retributio a toto collegio. Quando vero aliquis ordinat actum suum directe in bonum vel malum totius collegii, debetur ei retributio primo quidem et principaliter a toto collegio: secundario vero, ab omnibus collegii partibus. Cum vero aliquis agit quod in bonum proprium vel malum vergit, etiam debetur ei retributio, inquantum etiam hoc vergit in commune secundum quod ipse est pars collegii: licet non debeatur et retributio, inquantum est bonum vel malum singularis personae, quae est eadem agenti, nisi forte a seipso secundum quandam similitudinem, prout est iustitia nominis ad seipsum. Sic igitur patet quod actus bonus vel malus habet rationem laudabilis vel culpabilis, secundum quod est in potestate voluntatis; rationem vero rectitudinis et peccati secundum ordinem ad finem; rationem vero meriti vel demeriti, secundum retributionem iustitiae ad alterum”.     
[26] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.58, a.2 c.a.: “cum nomen iustitiae aequalitatem importet, ex sua ratione iustitia habet quod sit ad alterum: nihil enim est sibi aequale, sed alteri. Et quia ad iustitiam pertinet actus humanos rectificare, … necesse  est quod alietas ista quam requirit iustitia, sit diversorum agere potentium … Iustitia ergo proprie dicta requirit diversitatem suppositorum: et ideo non est nisi unius hominis ad alium. Sed secundum similitudinem accipiuntur in uno et eodem homine diversa principia actionum quasi diversa agentia: sicut ratio et irascibilis et concupiscibilis. Et ideo metaphorice in uno et eodem homine dicitur esse iustitia, secundum quod ratio imperat irascibili et concupiscibili, et secundum quod hae oboediunt rationi, et universaliter secundum quod unicuique parti hominis attribuitur quod ei convenit. Unde Philosophus , in V Ethic., hanc iustitiam appellat secundum metaphoram dictam”.
[27] Cfr. Summa Theologiae I-II, q. 55, a.4 ad 4: “iustitiae est propria rectitudo quae constituitur circa res exteriores quae in usum hominis veniunt, quae sunt propria materia iustitiae … Sed rectitudo quae importat ordinem ad finem debitum et ad legem divinam, quae est regula voluntatis humanae … communis est omni virtuti”. 
[28] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.100, a.2 ad 2: “iustitia proprie dicta attendit debitum unius hominis ad alium: sed in omnibus aliis virtutibus attenditur debitum inferiorum virium ad rationem. Et secundum rationem huius debiti, Philosophus  assignat, in V Ethic., quandam iustitiam metaphoricam”    
Cfr. anche Summa Theologiae I-II, q.47, a.7 ad 2: “sicut Philosophus dicit, in V Ethic., quaedam metaphorica iustitia et iniustitia est hominis ad seipsum, inquantum scilicet ratio regit irascibilem et concupiscibilem. Et secundum hoc etiam homo dicitur de seipso vindictam facere, et per consequens sibi ipsi irasci. Proprie autem et per se, non contingit aliquem sibi ipsi irasci”.
[29] Cfr. Summa Theologiae II-II, q.58, a.1 arg. 2 e ad 2: “rectitudo voluntatis non est voluntas: alioquin, si voluntas esset sua rectitudo, sequeretur quod nulla voluntas esset perversa. Sed secundum Anselmum, in libro De Veritate, iustitia est  rectitudo. Ergo iusitia non est voluntas”; “neque etiam iustitia est essentialiter rectitudo, sed causaliter tantum: est enim habitus secundum quem aliquis recte operatur et vult ”.
[30] Cfr. De Malo, q.2, a.11 ad 14: “habilitas ad gratiam non est idem quod iustitia naturalis, sed est ordo boni naturalis ad gratiam. Nec tamen hoc est verum quod iustitia naturalis diminui non possit. Rectitudo enim secundum hoc diminui potest, quod id quod erat rectum secundum totum, in aliqua parte curvetur; et hoc modo iustitia naturalis diminuitur secundum quod in aliquo obliquatur; puta, in eo qui fornicatur, obliquatur naturalis iustitia quantum ad directionem concupiscentiarum, et sic de aliis. In nullo tamen iustitia naturalis totaliter corrumpitur”.
IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.: “Tertio modo iustitia importat quemdam statum rectitudinis in homine quantum ad partes ipsius, prout scilicet aliqua pars animae suo superiori subditur, sive alii parti, sive ipsi Deo … Haec autem rectitudo per quodlibet peccatum tollitur et per gratiam recuperatur. Unde haec iustitia generalis etiam dicitur, inquantum omnes virtutes includit … per modum totius integralis”.
[31] Cfr. Summa Theologiae II-II, q.24, a.12 c.a.: “Continuatio … habitus in subiecto non requirit continuitatem actus; unde ex superveniente contrario actu non statim habitus acquisitus excluditur. Sed caritas, cum sit habitus infusus, dependet ex actione Dei infundentis; qui sic se habet in infusione et conservatione caritatis, sicut sol in illuminatione aëris … Et ideo  sicut lumen statim cessaret esse in aëre per hoc quod aliquod obstaculum poneretur illiminationi solis, ita etiam caritas statim deficit esse in anima, per hoc quod aliquod obstaculum ponitur influentiae caritatis a Deo in animam. Manifestum est autem quod per quodlibet mortale peccatum, quod divinis praeceptis contrariatur, ponitur praedictae infusioni obstaculum; quia ex hoc ipso quod homo eligendo praefert peccatum dvinae amicitiae, quae requirit ut Dei voluntatem sequamur, consequens est ut statim per unum actum peccati mortalis habitus caritatis perdatur”.
[32] RATRAMNUS, De praedestinatione Dei, Lib.I; MPL 121, 61 A: “primus homo habuit inchoandi boni liberum arbitrium, quod tamen Dei adiutorio perficeretur. Nos vero et inchoationem liberi arbitrii, et perfectionem de Dei sumimus  gratia, quia et incipere et perficere bonum de ispo habemus, a quo et gratiae donum datum, et liberum arbitrium in nobis est restauratum”.  
[33] Petrus LOMBARDUS, Sententiarum Liber II, d.24; MPL 192, 701-2: “collata est / scil. primo homini / potentia per quam poterat stare, id est, non declinare ab eo quod acceperat; sed non poterat proficere in tantum, ut per gratiam  creationis sine alia mereri salutem valeret. Poterat quidem per illud auxilium gratiae creationis resistere modo, sed non perficere bonum … sed non poterat sine alio gratiae adiutorium spiritualiter vivere, quo vitam mereretur aetarnam … fuerit illud adiutorum homini datum in creatione, quo poterat manere si vellet. Illud utique fuit libertas arbitrii ab omni labe et corruptela immunis, atque voluntatis rectitudo, et omnium naturalium potentiarum animae sinceritas atque vivacitas”.
[34] Cfr. Summa Theologiae I, q.95, a.1 ad 4: “Magister loquitur secundum opinionem illorum qui posuerunt hominem non esse creatum in gratia, sed in naturalibus tantum. Vel potest dici quod, etsi homo fuerit creatus in gratia, non tamen habuit  ex creatione naturae quod posset proficere per meritum, sed ex superadditione gratiae”. Appare chiaramente la distinzione natura-grazia, la giustizia strettamente soprannaturale di cui fu dotato il primo uomo dal primo istante della creazione e il dono della grazia santificante sopraggiunto alla natura come principio di merito.
[35] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 ad 1: “tota ista rectitudo a voluntate originaliter est, quae est principium merendi et demerendi; se etiam est in aliis partibus animae quasi rectificatis, sicut in subiecto”. 
[36] Cfr. Summa Theologiae I, q.23, a.7 c.a.: “Inter omnes autem creaturas, principalius ordinantur ad bonum universi creaturae rationales, quae, inquantum huiusmodi, incorruptibiles sunt; et potissime illae quae beatitudinem consequuntur, quae immediatus attingunt ultimum finem. Unde certus est Deo numerus praedestinatorum, non solum per modum cognitionis, sed etiam per modum cuiusdam principalis praedestinationis. Non sic autem omnino est de numero reproborum;  qui videntur esse praeordinati a Deo in bonum electorum, quibus omnis cooperantur in bonum”.
[37] 29) Cfr. In Rm. VIII, l.6, nn.697-698: “Inter omnes autem partes universi excellunt sancti Dei, ad quorum quemlibet pertinet quod dicitur Matth. XXV, 23: Super omnia bona sua constituet eum. Ed ideo quicquid accidit, vel circa ipsos vel alias res, totum in bonum eorum cedit: ita quod verificatur quod dicitur Prov. XI, 29: Qui stultus est, serviet sapienti, quia scilicet etiam mala peccatorum in bonum iustorum cedunt. Unde et Deus specialem curam de iustis habere dicitur, secundum illud Ps. XXXIII, 16: Oculi Domini super iustos, inquantum scilicet sic de eis curat, quod nihil mali circa eos esse permittit, quod non in eorum bonum convertat”.
[38]Cfr. De Verit. q.5, a.7 c.a.: “Ex hoc autem quod provvidendo deficiunt, vel rectitudinem servant, boni vel mali dicuntur; ex hoc autem quod providentur a Deo, eis bona vel mala praestantur; et secundum quod ipsi diversimode se habent in providendo, diversimode providetur eis a Deo. Si autem rectum ordinem in providendo servant; et in eis divina providentia ordinem servat congruum humanae dignitati, ut, scilicet, nihil eis eveniat quod in eorum bonum non cedat; et quod omnia quae eis proveniunt eos in bonum promoveant; secundum illud quod dicitur Rom VIII, 28: Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum. Si autem providendo ordinem non servant, quod congruit creaturae rationali, sed provvideant  secundum modum brutorum animalium, et divina provvidentia de eis ordinabit secundum ordinem qui brutis competit; ut scilicet ea quae in eis vel bona vel mala sunt, non ordinentur in eorum bonum proprium, sed in bonum aliorum, secundum quod in Psalm XLVIII, 13, dicitur: Homo, cum in honore esset, non intellexit: comparatus est iumentis insipientibus et similis factus est illis. Ex hoc patet quod altiori modo divina providentia gubernat bonos quam malos: mali enim dum ab uno ordine providentiae exeunt, ut scilicet Dei voluntatem non faciant, in alium ordinem dilabuntur, ut scilicet de eis divina voluntas fiat; sed boni quantum ad utrumque sunt in recto ordine providentiae”.
[39] Cfr. Summa Theologiae I, q.22 , a.2 ad 4: “Hominum autem iustorum quodam excellentiori modo Deus habet providentiam quam impiorum, inquantum non permittit contra eos evenire aliquid, quod finaliter impediat salutem eorum: nam diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum, ut dicitur Rom 8, 28. Sed ex hoc ipso quod impios non retrahit a malo culpae, dicitur eos dimittere. Non tamen ita, quod totaliter ab eius providentia excludantur: alioquin in nihilum deciderent, nisi per eius providentiam conservarentur”. 
[40] 32) Cfr. Summa Theologiae I, q.13, a.8 arg.1 e ad 1.
[41] Cfr. I Sent. d.18, q.1, a.5 ad 6: “Deus, quamvis significet essentiam divinam quantum ad id cui imponitur, tamen quantum ad id a quo imponitur nomen, significat operationem … Et ideo potest dici Deus noster. Tamen diversimode potest dici Deus omnium et iustorum; Deus enim dicitur omnium propter relationem principii, inquantum scilicet est creator omnium; dicitur autem Deus iustorum specialiter, secundum rationem finis quem contingunt; et ideo dicitur etiam ab eis haberi. Alia enim, licet ordinentur in ipsum sicut in finem, non tamen consequuntur ipsum nisi iusti, qui coniuguntur sibi per gratiam et gloriam: et ideo etiam omnium communiter dicitur vel finis vel aliquid huiusmodi: sed absolute dicitur de iustis quia Deus est eorum, quia habent ipsum sicut suam haereditatem, et per quemdam modum passionis”.   
[42] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.
[43] IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol: “iustificatio de sui ratione importat motum ad iustitiam … Haec autem rectitudo per quodlibet peccatum tollitur, et per gratiam reparatur. Unde haec iustitia generalis etiam dicitur, inquantum omnes virtutes includit, non quidem per modum totius universalis … sed generalis dicitur per modum totius integralis. Et ad hanc iustitiam motus iustificatio dicitur. In quolibet autem motu est recessus a termino, et hoc in praedicta assignatione tangitur in hoc quod dicitur: “remissio peccatorum”; et accessus ad terminum qui tangitur in hoc quod dicitur: “consummatio bonorum operum”. La definizione proviene dalla GLOSSA in Rm VIII. 
[44] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.5 c.a.: “iustificatio impii est quidam motus quo humana mens movetur a Deo a statu peccati in statum iustitiae”. Cfr. ibid., a. 6 c.a.: “iustificatio est quidam motus quo anima movetur a Deo a statu culpae in statum iustitiae”.
[45] Cfr. De Verit. q.28, a.1. c.a.: “Si vero iustificatio accipiatur ut quidam motus, cum oporteat eumdem motum intelligi quo peccatum aufertur et iustitia inducitur, idem erit iustificatio, quod peccatorum remissio, solum ratione differens: prout ambo eumdem motum nominant, sed unum, secundum respectum ac terminum a quo, aliud vero secundum  respectum ad terminum ad quem. Si autem accipiatur iustificatio per viam mutationis, sic aliam mutationem significat iustificatio, scilicet iustitiae generationem; et alia peccatorum remissio, scilicet corruptionem culpae. Sic autem iustificatio et remissio peccatorum non erunt idem nisi per concomitantiam. Utrolibet autem modo iustificatio accipiatur, oportet quod a tali iustitia dicatur quae peccato cuilibet opposita sit: nam, et motus est de contrario in contrarium, et generatio et corruptio sese concomitantes contrariorum sunt”. 
[46] Cfr. De Verit. q.28, a.6 c.a.: “si culpa omnino non est aliquid positive, idem est infusio gratiae et remissio culpae secundum rem; secundum rationem vero non idem. Si autem culpa aliquid ponit non secundum rationem, sed re; est aliud remissio culpae et infusio gratiae, si considerentur ut mutationes, quamvis in ratione motus sint unum … Culpa autem aliquid ponit et non solam absentiam gratiae. Absentia enim gratiae secundum se considerata habet tantum rationem poenae, non autem rationem culpae, nisi secundum quod relinquitur ex actu voluntario praecedente; sicut tenebra non habet rationem umbrae nisi secundum quod relinquitur ex interpositione corporis opaci. Sicut ergo ablatio umbrae importat non solum remotionem tenebrae, sed remotionem corporis impedientis; ita remissio culpae non solum importat ablationem absentiae gratiae, sed ablationem impedimenti gratiae, quod erat ex actu peccati praecedente; non ut actus ille non fuerit, quia hoc est impossibile, sed ut propter illum influxus gratiae non impediatur. Patet igitur quod remissio culpae et infusio gratiae non sunt idem secundum rem”.
[47] Cfr. M. FLICK, SJ, L’attimo della giustificazione secondo S. Tommaso, Romae 1947, In: Analecta Gregoriana, Series Facultatis Theologicae IX, sectio B, n.17, p.9: “Vi è il pericolo, e questo pericolo è molto grande specialmente quando si tratta di S. Tommaso, che ognuno vuole avere per protettore e alleato, di presentare le proprie concezioni come se fossero quelle dell’autore di cui si pretende riferire esattamente il pensiero”.  
[48] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.8 c.a.: “propter hoc enim ille qui iustificatur, detestatur peccatum, quia est contra Deum: unde motus liberi arbitrii in Deum praecedit naturaliter motum liberi arbitrii in peccatum, cum sit causa et ratio eius”.
[49] Cfr. Summa Theologiae III, q.85, a.6 c.a.: “in iustificatione impii simul est motus liberi arbitrii in Deum, qui est actus fidei per caritatem formatus, et motus liberi arbitrii in peccatum, qui est actus poenitentiae. Horum autem duorum actuum primus naturaliter praecedit secundum: nam actus poenitentiae virtutis est contra peccatum ex amore Dei, unde primus actus est ratio et causa secundi. Sic igitur poenitentia non est simpliciter prima virtutum, nec ordine temporis, nec ordine naturae: quia ordine naturae simpliciter praecedunt ipsam virtutes theologicae. Sed quantum ad aliquid est prima inter ceteras virtutes ordine temporis, quantum ad actum eius qui primus occurrit in iustificatione impii. Sed ordine naturae videntur esse aliae virtutes priores, sicut quod est per se prius est eo quod est per accidens: nam aliae virtutes per se videntur esse necessariae ad bonum hominis; poenitentia autem supposito quodam, scilicet peccato praeexistenti”.
[50] Ibid. ad 2: “in motibus successivis recedere a termino est prius tempore quam pervenire ad terminum; et prius natura quantum est ex parte subiecti, sive secundum ordinem causae materialis. Sed secundum ordinem causae agentis et finalis, prius est pervenire ad terminum: hoc enim est quod primo agens intendit. Et hic ordo praecipue attenditur in actibus animae”.     
[51] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.8 ad 1: “quia infusio gratiae et remissio culpae dicuntur ex parte Dei iustificantis, ideo ordine naturae prior est gratiae infusio quam culpae remissio. Sed si sumantur ea quae sunt ex parte hominis, iustificati, est e converso: nam prius est naturae ordine liberatio a culpa quam consecutio gratiae iustificantis. Vel potest dici quod termini iustificationis sunt culpa sicut a quo, et iustitia sicut ad quem: gratia vero est causa remissionis culpae, et adeptionis iustitiae”.
[52] Cfr. I Sent. d.17, q.1, a.4, q.la 1 sol: “Ex parte autem causae materialis se tenet secundum quandam reductionem  omne illud per quod materia efficitur propria huius formae, sicut dispositiones et remotiones impedimentorum. Et ideo     in generatione naturali, quando corruptio unius est generatio alterius per hoc quod forma una inducitur et alia expellitur, remotio formae praeexistentis se tenet ex parte causae materialis. Et ideo secundum ordinem causae materialis praecedit naturaliter introductionem alterius formae, sed secundum ordinem causae formalis est e converso. Et quia forma et finis et agens incidunt in idem numero vel specie, ideo etiam in ordine causae efficientis introductio formae prior est, quia forma prior introducta est similitudo formae agentis per quam agens agit. Et similiter in ordine causae finalis: quia natura principaliter intendit introductionem formae, et ad hanc ordinat expulsionem omnis eius cum quo non potest stare formae  intentio. Unde, cum gratiae infusio et remissio culpae … se habeat sicut introductio unius formae et expulsio alterius, constat quod secundum ordinem causae materialis, remissio culpae praecedit infusionem gratiae; sed secundum ordinem causae formalis, efficientis et finalis, infusio gratiae natura prior est. Et propter hoc etiam utrumque invenitur dici causa alterius. Infusio enim gratiae est causa remissionis culpae per modum causae formalis; sed extirpatio vitiorum dicitur operari virtutum ingressum per modum causae materialis”. 
[53]Cfr. De Verit. q.28, a.7 c. a.: “quandocumque a materia una forma expellitur et alia inducitur, expulsio formae praecedentis est prior naturaliter in ratione causae materialis: omnis enim dispositio ad formam reducitur ad causam  materialem: denudatio autem materiae a forma contraria, est quaedam dispositio ad formae susceptionem. Subiectum etiam, id est materia … numerabilis est: numeratur enim secundum rationem, in quantum in eo praeter subiecti substantiam invenitur privatio, quae se tenet ex parte materiae et subiecti. Sed in ratione causae formalis est prior naturaliter introductio formae; quae formaliter perficit subiectum, et espellit contrarium … Sic ergo patet quod simpliciter loquendo secundum ordinem naturae, prior est gratiae infusio quam culpae remissio; sed secundum ordinem causae materialis est e converso”. 
[54] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.3, q.la 5 sol: “illa quae per accidens se habent ad aliquid, non includutur in illo. Remissio autem culpae se habet accidentaliter ad gratiae infusionem, quia accidit ex subiecto in quo culpam invenit. Posset enim esse infusio gratiae sine hoc quod culpa remitteretur, sicut in statu innocentiae fuit, et in Christo homine quantum ad primum instans suae conceptionis; et ideo infusio gratiae non includit culpae remissionem. Unde cum ad iustificationem impii de qua loquitur sit necessaria culpae remissio, oportet quod connumeretur gratiae infusioni”.
[55] Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.6 ad 2: “gratiae infusio et remissio culpae dupliciter considerari possunt. Uno modo, secundum ipsam substantiam actus. Et sic idem sunt: eodem enim actu Deus et largitur gratiam et remittit culpam.  Alio modo possunt considerari ex parte obiectorum. Et sic differunt, secundum differentiam culpae quae tollitur, et gratiae quae infunditur. Sicut etiam in rebus naturalibus generatio et corruptio differunt, quamvis generatio unius sit corruptio alterius”.
[56] Nel quale è assente la grazia (NdC).
[57] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.3, q.la 5 ad 2: “peccatum et gratia non se habent sicut affirmatio et negatio, vel sicut privatio et habitus; quia aliquis potest esse gratia destitutus et tamen non habebit peccatum: sicut patet de Adam secundum illos qui dicunt eum non fuisse in gratia creatum, quia peccatum aliquid ponit vel esse vel fuisse in peccante”.
[58] Cfr. IV Sent. d. 49, q.4, a.1 ad 3: “dotibus per se convenit illud quod per dotes efficitur, scilicet solatium matrimonii; sed per accidens illud quod per eas removetur; scilicet onus matrimonii, quod per dotes alleviatur; sicut gratiae per se convenit facere iustum, sed per accidens quod de impio faciat iustum. Quamvis ergo in matrimonio spirituali non sint aliqua onera, est tamen ibi summa iucunditas; et ad hanc perficiendam iucunditatem dotes sponsae conferuntur, ut scilicet delectabiliter per eas sponso coniugatur”.
[59] 50) Cfr. Summa Theologiae III, q.72, a.7 ad 1: “gratiae gratum facientis est remissio culpae: habet tamen et alios effectus, quia sufficit ad hoc quod promoveat hominem per omnes gradus usque in vitam aeternam”.
[60] 51) Cfr. In Gal. I, lect.1, n.11: “Nullus … potest esse in vera vita spirituali, nisi prius moriatur peccato. Secundum est pax, quae est quietatio mentis in fine, quae in Glossa dicitur esse reconciliatio ad Deum”.
[61]  52) Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.3, q.la 1 sol.: “Sicut autem beatitudo futura infinitatem habet ex obiecto, et per consequens facit actus suos meritorios aliquo modo infinitae virtutis, ut sint tali fini proportionati; ita offensa in Deum commissa habet quandam infinitatem ex eo in quem commissa est. Et ideo ad culpae remissionem non sufficit humana natura. Et proter hoc oportet quod ad eius remissionem sicut ad merendum vitam aeternam gratia infundatur”. Cfr. ibid. ad 2: “destructio culpae prius existentis non potest fieri nisi per gratiam; quia illa innocentiae bonitas quae inter utrumque media videtur, non sufficeret ad hoc quod dignum redderet immunitate ab infinita offensa commissa prius, quamvis sufficeret ut dignum redderet illum in quem peccatum non praecessit”.
[62] 53) Cfr. Summa Theologiae III, q.62, a.6 ad 3, dove S.Tommaso prova come con la circoncisione vengono rimessi i peccati ed è infusa la grazia con i suoi effetti negativi e positivi. Cfr Summa Theologiae III, q.89, a.1 c.a. dove S.Tommaso afferma che la penitenza, portando alla remissione dei peccati, porta anche alla grazia. Per la non-imputazione dei peccati veniali, cfr. Summa Theologiae III, q.87, a.4 c.a.
[63] 54) Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.3, q.la 1, ad 1: “gratia in destructione culpae non se habet sicut agens medium, sed sicut causa formalis, qua peccatum remittitur: sicut ignis frigus aufert calore in subiecto causato, non sicut instrumento, sed sicut forma contraria; et in creatione etiam est forma naturalis, qua res creata esse formaliter accipit, vel etiam ipsum quo est, quidquid sit illud”.
Cfr. Contra Gentes III 157, n.3301: “Offensa non nisi per dilectionem tollitur. Sed per peccatum mortale homo Dei offensam incurrit: dicitur enim quod Deus peccatores odit, inquantum vult eos privare ultimo fine, quem his quos diligit praeparat. Non ergo homo potest a peccato mortali resurgere nisi per gratiam, per quam fit quaedam amicitia inter Deum et hominem”.
[64]  55) A questo quesito risponde positivamente ad es. A. GOUDIN, OP, Tractatus Theologici, ed. DUMMERMUTH, Lovanii, Peeters, 1874, tomus II, quaest. VII, a.2 , concl. 2 , pp. 351-352, dove dice che basterebbe per la remissione un atto  di carità sotto la mozione della grazia attuale, senza il dono della grazia abituale.
[65] Cfr. In Rm. I, lect.6, n.99: “per verbum evangelii remittuntur peccata, … per evangelium homo consequitur gratiam sanctificantem … / evangelium / perducit ad vitam aetenam …”.


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