Oltre la ragione e contro la ragione
Terza Parte (3/3)
3. Rahner sbaglia nel concepire il concetto tomista di species intellettuale, la rappresentazione della cosa. La specie (species) della cosa, per San Tommaso, non è, come gli fa dire Rahner, «una perfezione ontologica dello spirito in quanto tale»[1], ma è immagine o similitudine intenzionale e immateriale della cosa, così come, stando all’esempio di Aristotele, non è la pietra che è nell’anima, ma l’immagine della pietra. L’essere reale dell’intelletto non va confuso con l’essere ideale della cosa nell’intelletto, altrimenti confondiamo l’essere col pensare, che è appunto la confusione che Rahner attribuisce a Tommaso, mentre essa è propria di Hegel.
4. Rahner non capisce che cosa è per Tommaso l’intenzione intellettiva (intentio intellecta) ovvero l’essere intenzionale (esse cognitum) confondendolo con l’essere reale. Infatti per Tommaso la species, contrariamente a quanto gli fa dire Rahner, è esattamente una «forma intenzionale» e non è affatto una «perfezione ontologica dello spirito in quanto ente»[2].
È chiaro che l’intelletto è un ente reale, ma le intenzioni e le specie che esso forma e produce non sono cose reali extramentali, ma bensì enti di ragione, enti astratti, mentali o ideali, rappresentazioni o immagini, che stanno solo all’interno dell’anima. Farne cose reali, dare ad esse un valore ontologico, vuol dire scambiare le nostre idee con la realtà o farne regola della realtà, quando invece siamo noi che dobbiamo regolare le nostre idee sul reale.
Tommaso dimostra chiaramente che l’oggetto del conoscere sono le cose, non le specie delle cose[3]. Le specie sono solo mezzi mentali («prime intenzioni») prodotti da noi per conoscere le cose. Se poi vogliamo delle nostre idee fare oggetto di conoscenza («seconde intenzioni»), nessuno ce lo impedisce, anzi è cosa doverosa e necessaria, purchè non confondiamo i nostri pensieri con la realtà. Non riduciamo la realtà a quello che ne pensiamo noi.
Il concepire la species come un qualcosa di ontologico e non intenzionale dipende in Rahner dal fatto che egli fraintende il concetto tomista di species. Essa infatti, per Tommaso, è un ente puramente mentale o ideale prodotto dall’intelletto all’interno dell’intelletto. Il suo essere, come lo chiama Tommaso, è un esse intentionale o cognitum, appunto per distinguerlo da quello reale-ontologico.
L’intenzione intellettuale, infatti, per Tommaso, è il conosciuto in quanto conosciuto (esse cognitum), il quale viene conosciuto appunto per mezzo della species che è il concetto. Il conosciuto in quanto conosciuto è nell’intelletto; in quanto cosa conoscibile è nella realtà esterna. L’ente non è per sé conosciuto, ma solo conoscibile. Diventa conosciuto quando lo conosciamo. Prima è sconosciuto.
Intentio e species si corrispondono l’una con l’altra come atti e prodotti dell’intelletto immanenti o all’anima e nella coscienza per rappresentare e conoscere ciò che è fuori dell’anima, la cosa in sé. L’intentio è l’atto col quale l’intelletto coglie la cosa; la species è la forma o essenza della cosa compresa e concepita dall’intelletto.
Una volta intenzionata o intesa o concepita la cosa, l’intelletto può riflettere su questa stessa intenzione, specie o rappresentazione, e formare una seconda intenzione, che può diventare a sua volta oggetto di conoscenza ed anzi di scienza, che è la logica[4].
5. Rahner intende alla rovescia la posizione tomista riguardo il processo conoscitivo facendo dire a San Tommaso che la conoscenza dell’essere «non è il risultato della conoscenza di una realtà presa singolarmente, ma il suo fondamento preliminare». E questa conoscenza dell’essere sarebbe previa alla conoscenza delle cose: «ogni affermazione si riferisce ad un ente determinato e si attua sullo sfondo di una precedente conoscenza, anche se implicita, dell’essere in genere»[5]; «il pensiero umano suppone sempre una conoscenza implicita dell’essere per poter cogliere il singolo ente»[6].
A questa tesi che in realtà è heideggeriana e non tomista Rahner congiunge l’assioma della gnoseologia hegeliana secondo la quale essere è conoscere ed essere conosciuto, e quindi autocoscienza, sicchè il pensiero non ha per oggetto l’essere, ma se stesso; quindi l’uomo non compie il suo sapere nella conoscenza di Dio, ma nella propria autocoscienza, che coincide con quella divina, se l’essere si identifica col pensiero. Dice infatti Rahner: «la natura dell’essere è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria che chiamiamo dal punto di vista gnoseologico coscienza di sé»[7].
6. Rahner non riconosce la distinzione tomista fra pensiero ed essere, fra esse reale, ens extra animam in rerum natura ed esse intentionale o esse cognitum, ens in anima; fra cosa e concetto o rappresentazione della cosa, e vuol per forza ridurre questi a quella. Così Rahner sballotta San Tommaso fra Hegel, che riduce l’essere a pensiero (idea) ed Heidegger che riduce il pensiero a essere (Dasein).
7. È vero che per San Tommaso non solo la res conosciuta o conoscibile, ma anche l’intelletto è ente, e lo è anche l’atto dell’intelletto, ma il prodotto dell’atto, il concetto o specie espressa, immanente all’intelletto (in anima) e presente alla coscienza, mezzo del conoscere, rappresentazione della cosa esterna (extra animam) è immagine immateriale della cosa, immagine che esiste solo nell’anima, immagine il cui essere è detto intenzionale per dire che l’intelletto esprime un’intenzione, un tendere verso la cosa afferrata nell’atto conoscitivo.
8. Rahner al seguito di Hegel e dando ad intendere di seguire San Tommaso, confonde il conoscente col conoscibile col conosciuto. Non tiene conto del fatto che, come insegna San Tommaso, l’intelletto umano passa dalla potenza all’atto, da conoscente in potenza al conoscente in atto, cosicchè nell’atto del conoscere l’ente, questo da conoscibile diventa conosciuto e da ignoto diventa noto.
9. Rahner pertanto non ammette che l’intelletto inizi la sua attività in uno stato di ignoranza, privo o vuoto di contenuti, ossia senza nulla sapere,[8] per cui comincia col conoscere una cosa e via via col progredire del conoscere, gli oggetti conosciuti aumentano sempre più di numero, ma pretende che l’intelletto parta da un’autocoscienza di sé come essere, autocoscienza che pertanto è sempre presupposta alla conoscenza delle cose.
10. Per San Tommaso il pensare non s’identifica con l’essere, come vorrebbe farci credere Rahner. L’essere è bensì esterno e quindi è distinto, ma non si può dire che di per sé l’essere o il reale o l’ente sia estraneo o irraggiungibile, ma sono fatti l’uno per l’altro, così che fra di loro può esserci o adeguazione, e questa è l’essenza della verità, o disadeguazione, e questa è l’essenza della falsità.
11. Tommaso distingue – cosa che Rahner non fa - l’oggetto proprio o adeguato dell’intelletto umano, che è la quidditas rei materialis, dall’oggetto dell’intelletto in quanto intelletto che è l’ente. Quando l’intelletto comincia a funzionare apprende l’essenza delle cose particolari sensibili, il cui concetto certamente è una determinazione della nozione trascendentale ed analogica dell’ente, come ciò che ha l’essere.
Ma inizialmente tale nozione resta implicita sotto quella della cosa particolare concepita dalla mente. Essa potrà essere esplicitata nel caso che il soggetto voglia far metafisica. Per Tommaso, quindi, la mente non concepisce questo ente in forza di una precomprensione dell’ente, perché questo non è San Tommaso ma Heidegger. Invece nel vero San Tommaso la mente concepisce l’ente universale astraendo dall’ente particolare.
12. Per San Tommaso, sebbene il reale si trovi fuori dell’intelletto (extra animam) e quindi l’essere sia fuori del pensiero, il conoscere non comporta un’uscita del pensiero o dell’atto intellettivo a di fuori dell’intelletto verso l’oggetto, come se dovesse colmare una distanza – in ciò Rahner riflette il pensiero tomista -, ma, e questo è il prodigio e il mistero della conoscenza, il conoscere immanentizza mediante una rappresentazione l’oggetto, ossia porta immaterialmente, idealmente o intenzionalmente il reale dentro di sè e dentro di sé lo conosce, mentre l’oggetto reale ovviamente resta in se stesso fuori della mente. Hegel sbaglia nel negare l’esternità del reale rispetto alla ragione, ma ha ragione nel sostenere l’interiorità dell’atto conoscitivo.
13. Per quanto riguarda la conoscenza sensibile, qui indubbiamente il conoscente parte da un contatto sensibile con le cose che sono fuori nello spazio, ma anche qui, in quanto si attua il conoscere, si verifica il processo di immanentizzazione rappresentativa dell’oggetto di cui ho parlato sopra.
14. Rahner ha storpiato dei passi di San Tommaso in modo da volgerli in senso idealista. Ecco per esempio questo[9] che egli cita così: «Ens est intellegibile et intelligens in quantum est ens actu» e rimanda al Commento alla Metafisica di Aristotele che invece ha: «unumquodque est cognoscibile in quantum est ens actu»[10]. Ora Tommaso non parla affatto di ente intelligente, ma solo di ente conoscibile.
Rahner non si fa scrupolo di cambiare il testo tomista per far fare a Tommaso la figura dell’idealista che identifica l’intelligente in atto con l’ente in atto, cosa che Tommaso non direbbe mai perché sarebbe l’identificazione dell’ente con l’ente divino, esso solo essere identico al pensare, come dice chiaramente nella Somma Teologica[11]. L’ente in atto per Tommaso non è necessariamente intelligente, perché può essere anche una sostanza materiale. Invece è certamente conoscibile, ma non è necessariamente da noi conosciuto, salvo che l’abbiamo fatto oggetto della nostra conoscenza.
15. Rahner poi riporta queste parole attribuendole a Tommaso: «idem est intellectus et quod intelligitur», rimandando alla Somma Teologica, I q.87, dall’a. 1 al 3. Ora queste parole non sono presenti in nessuno dei tre articoli. Quelle che forse potrebbero avvicinarsi a quelle citate da Rahner nell’a.1 sono queste:
«Intellectus humanus se habet in genere rerum intellegibilium ut ens in potentia tantum, sicut et materia prima se habet in genere rerum sensibilium, unde possibilis nominatur. Sic igitur in sua essentia consideratus, se habet ut potentia intelligens. Unde ex seipso habet virtutem ut intelligat, non autem ut intelligatur, nisi secundum id quod fit actu».
Da queste parole potremmo estrarre le seguenti: intellectus habet virtutem ut intelligat et ut intelligatur quando fit actu. Ma anche qui è evidente che Rahner non può raccogliere niente per la sua interpretazione idealista.
16. Rahner ha torto nell’affermare[12] che per Tommaso «il conoscere non avviene per contactum intellectus ad rem»[13]. Ciò non avviene nel nostro conoscere, che è mediato da un’immagine tratta dal contatto sensibile con la cosa materiale esterna, ma avviene nella conoscenza che un angelo ha dell’altro, trattandosi di due spiriti puri. Noi nella conoscenza delle realtà spirituali – anime, angeli, Dio – dobbiamo accontentarci della nozione analogica dell’ente.
In conclusione, il procedere del pensiero umano per Tommaso non inizia e termina con l’autocoscienza assoluta alla maniera di Cartesio, Kant ed Hegel, ma inizia col contatto con l’infima realtà, ossia con le cose esterne sensibili, passa all’autocoscienza e termina con la conoscenza della somma realtà che è Dio.
17. Rahner sostiene che «il primo principio basilare della metafisica tomista dell’essere e del conoscere è in realtà l’affermazione che il conoscere nel suo concetto primo ed originario è la coscienza che ha l’ente del suo essere e perciò un oggetto è conosciuto nella misura in cui esso si mostra ontologicamente identico col conoscente»[14].
Questa interpretazione della metafisica di San Tommaso è falsa. L’ente come tale, per Tommaso, non coincide affatto con l’ente conoscente ed autocosciente. Come ho già detto, l’ente per Tommaso è analogico e può essere materiale o spirituale, conoscente o non conoscente, creato o increato, mondano o divino. Risolvere l’ente nell’autocoscienza vuol dire identificare l’ente con Dio, il che è panteismo.
La fede supera la ragione perché è atto dell’intelletto
Con l’atto di fede la mia conoscenza aumenta al di là di quanto con la mia sola ragione potrei sapere e dimostrare, ma per ottenere questo aumento di conoscenza devo saper dire «tu» e non solo «io», devo cioè aprire la mia mente all’altra persona che mi sta davanti, persona che non è prodotto del mio pensiero, ma esiste davanti a me indipendentemente da me, persona che mi parla, che devo ascoltare, persona il cui messaggio devo capire ed accettare come vero.
La rivelazione cristiana dal canto suo aumenta la conoscenza filosofica non solo con nozioni su Dio e sul destino umano che la ragione da sola non potrebbe ottenere con i suoi mezzi, ma anche con nozioni di per sé a lei accessibili, ma che difficilmente potrebbe raggiungere, stante lo stato di debolezza conseguente al peccato originale, come la nozione di Dio come essere sussistente, la nozione della creazione, della persona umana come immagine e somiglianza di Dio, l’amore per il nemico, la misericordia, l’umiltà. In tal modo ha origine la filosofia cristiana[15].
Il credere è un atto di conoscenza intellettuale, sia pur mosso dalla volontà attratta dalla amabilità, affidabilità e credibilità di Cristo e del suo testimone, atto col quale assumiamo come verità assoluta le nozioni su Dio e la nostra salvezza comunicateci da Cristo nel Vangelo o mediate o spiegate dalla Chiesa nel suo magistero, nei dogmi e nel simbolo della fede.
Ciò che un uomo può rivelarmi è qualcosa di percepibile dalla ragione umana come tale; è la mia ragione personale che non lo sa e pertanto lo imparo da quell’uomo competente, che lo sa ed io gli credo perchè mi ha dato prova di essere credibile – qui devo usare correttamente la ragione – o perché mi ispira fiducia o perché so che è competente.
Fede o credere in generale è accogliere per vero quanto ci è rivelato da un competente nel quale abbiamo fiducia e che ci ha dato prova di essere affidabile. Occorre distinguere una fede umana dalla fede divina, soprannaturale o teologale. Fede umana è credere ad una testimonianza umana su cose di per sé comprensibili dalla ragione e dalla scienza.
Fede divina è credere, illuminati dalla grazia, nella verità dei misteri divini rivelatici da Cristo e propostici a credere dal Magistero della Chiesa, il quale, pertanto, in quanto custode della verità rivelata, si prende cura anche di custodire quella verità di ragione filosofica, negata la quale, sarebbe negata anche la verità di fede. La Chiesa pertanto si premura di scegliere tra le filosofie esistenti quella che meglio si adatta ad interpretare quel dato rivelato che essa, infallibilmente assistita dallo Spirito di Cristo, interpreta, custodisce ed insegna all’umanità per tutto il corso della storia.
Per questo i Papi hanno scelto la filosofia di San Tommaso come quella contenente il maggior numero di verità filosofiche, benchè anch’essa non sia esente del tutto da errori come ogni opera umana, e l’hanno proposta e la propongono come modello di filosofia per tutta la Chiesa a preferenza di ogni altra.
Per questo e in questo senso Papa Benedetto XV nell’enciclica Fausto appetente die del 1921 ha potuto dire che «la Chiesa ha dichiarato come sua propria la dottrina di San Tommaso» non nel senso che l’abbia elevata a dottrina della Chiesa, perché essa resta pur sempre una dottrina umana, ma nel senso di preferirla fra tutte e altre, nel senso cioè di essere la filosofia maggiormente raccomandata dalla Chiesa come la più adatta per l’interpretazione della Parola di Dio e per l’edificazione della teologia cattolica.
Così similmente pochi anni dopo, nel 1923 Pio XI nell’enciclica Studiorum ducem nominava San Tommaso «Dottore comune ed universale della Chiesa», titolo di recente ripreso da Papa Francesco nel raccomandare nuovamente la dottrina di San Tommaso[16].
Occorre pertanto ben interpretare le parole di San Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio del 1998, laddove afferma che «la Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre» (n.49), mettendo in nota l’enciclica Humani generis di Pio XII dove è detto che «la Chiesa non può essere legata a un qualunque effimero sistema filosofico», perchè «quelle nozioni e quei termini che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici», ossia la filosofia scolastica «per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma, senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco» (Denz.3883).
È chiaro allora che queste parole di Pio XII non vanno contrapposte a quelle di Benedetto XV e Pio XI. Il Papa non sta dicendo che non esistano verità filosofiche accertate ed universali, e quindi un’unica filosofia vera, ma prende le distanze da quelle che sono semplici opinioni filosofiche oggi valide e domani smentite. Come fa l’universalità e certezza della fede a poggiare su delle semplici opinioni fugaci e soggettive?
Aggiungiamo che la fede si può dire atto della ragione in quanto è atto umano e l’uomo pensa e intende con la ragione. Tuttavia, per essere precisi e non rischiare di confondere il ragionare col credere, è meglio dire che il credere è atto intellettuale volontario secondo ragione, introdotto, preparato e motivato materialmente dalla ragione e formalmente dall’autorità di Dio rivelante, non quindi nel senso che l’accettazione della proposizione di fede sia la conclusione di un sillogismo, sicchè la ragione venga ad essere necessitata ad accogliere quella proposizione perché ne ha dimostrata la verità, ma nel senso che l’intelletto aderisce volontariamente e liberamente con assoluta certezza al dato proposto a credere.
È sufficiente la ragione per capire che quell’atto compiuto da Cristo o dal taumaturgo è un miracolo. Capisco poi con la ragione che questo miracolo mi induce a credere a quello che dice. Ma l’atto di fede lo decido io motivato dall’autorità di Dio che mi si rivela in Cristo.
La conoscenza razionale ci può servire altresì per interpretare il dato di fede della divina rivelazione. In tal modo la ragione, mettendosi al servizio della fede, indaga verità sovrarazionali che senza la fede non potrebbe neppure immaginare. In tal modo il cammino della ragione conduce all’incontro con Cristo. Mettendosi in ascolto della parola di Cristo la filosofia si apre alla conoscenza delle verità divine rivelate da Cristo e avanzando nella ricerca del vero incontra la parola di Cristo.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 2 maggio 2024
Il credere è un atto di conoscenza intellettuale, sia pur mosso dalla volontà attratta dalla amabilità, affidabilità e credibilità di Cristo e del suo testimone, atto col quale assumiamo come verità assoluta le nozioni su Dio e la nostra salvezza comunicateci da Cristo nel Vangelo o mediate o spiegate dalla Chiesa nel suo magistero, nei dogmi e nel simbolo della fede.
La Chiesa pertanto si premura di scegliere tra le filosofie esistenti quella che meglio si adatta ad interpretare quel dato rivelato che essa, infallibilmente assistita dallo Spirito di Cristo, interpreta, custodisce ed insegna all’umanità per tutto il corso della storia.
Per questo i Papi hanno scelto la filosofia di San Tommaso come quella contenente il maggior numero di verità filosofiche, benchè anch’essa non sia esente del tutto da errori come ogni opera umana, e l’hanno proposta e la propongono come modello di filosofia per tutta la Chiesa a preferenza di ogni altra.
Se infatti l’atto di adesione al dato rivelato fosse necessitato da semplici motivi razionali, non sarebbe più atto di fede, e quindi non sarebbe più necessario credere, ma si avrebbe il semplice sapere, si avrebbe la scienza. È esattamente l’operazione che fanno Kant ed Hegel riducendo a schemi razionali i dogmi della fede, col risultato di negare la superiorità della religione sulla filosofia. La fede si identificherebbe con la ragione. Eppure esse sono differenti. Occorre chiarire qual è il rapporto della fede con la ragione. La fede è atto ragionevole, ma non per questo è atto razionale.
[1] Uditori, op. cit., p.71.
[2] Ibid.
[3] Sum.Theol.,I, q.85, a.2.
[4] Cf Quaestio disputata de potentia, q.7, a.9.
[5] Uditori della parola, op.cit., p.64.
[6] Ibid.
[7]Ibid., p. 68.
[8] La famosa tavoletta aristotelica nella quale non c’è scritto nulla.
[9] Uditori, op.cit., p.71.
[10] Libro II, c.1, Lectio I, n.280, Marietti, Torino-Roma 1964, p.81.
[11] I, q. 14, a.4.
[12]Uditori, op.cit., p. 70.
[13] Contra gentes, II, c.98.
[14] Uditori, op.cit., p.72.
[15] Vedi É.Gilson, Introduction à la philosophie chétienne, Vrin, Paris 1960; R.Vancourt, Pensiero moderno e filosofia cristiana, Edizioni Paoline, Catania 1958; C.Tresmontant, Le origini della filosofia cristiana, Edizioni Paoline, Catania 1963; L.Bogliolo, Il problema della filosofia cristiana, Morcelliana, Brescia 1959; J,Maritain, Sulla filosofia cristiana, Vita e Pensiero, Milano 1978; G.Cristaldi, Cristianesimo e filosofia, Vita e Pensiero, Milano 1980; Y.Floucat, Per una filosofia cristiana. Elementi per un dibattito fondamentale, Editrice Massimo, Milano 1987; La filosofia cristiana tra Ottocento e Novecento e il Magistero di Leone XIII, Atti del Convegno di Perugia, 29 maggio-1 giugno 2003, Perugia 2004.
[16] Questo primato di Tommaso tra tutti i Dottori scolastici è espresso, come è noto, dallo stresso Concilio Vaticano II i due documenti, il Decreto Optatam totius al n.16 e la Dichiarazione Gravissimum educationis al n.10. Da notare che nessun Concilio ecumenico aveva mai proposto fino ad allora un dato teologo come modello in teologia.
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