La differenza tra il pensiero e l’essere

 

La differenza tra il pensiero e l’essere

Una questione che mette in gioco la differenza fra l’uomo e Dio

Tutti sappiamo distinguere fra 100e reali e 100e pensati.  Ciascuno di noi preferirebbe certamente possedere 100e reali che 100e pensati. Eppure, a partire da Parmenide, per arrivare ad Hegel e a Rahner una schiera infinita di filosofi ci assicura che pensare ed essere sono la stessa cosa. Non c’è differenza fra100e pensati e 100e reali. Dice infatti Rahner:

«L’essenza dell’essere è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria che noi vogliamo chiamare coscienza o trasparenza («soggettività», «conoscenza») dell’essere di ogni ente»[1].

Applichiamo questo principio ai 100e. Risulta che l’essenza di 100e reali si identifica col fatto di conoscerli e di essere da noi conosciuti in una unità originaria che è trasparenza del loro essere ovvero la nostra coscienza o soggettività.

Tuttavia, possiamo esser certi che Rahner, quando aveva occasione di fare degli acquisti in negozio, pagava certamente con denaro reale e non con denaro da lui pensato, giacchè, se avesse detto al negoziante di essere un idealista per il quale il denaro reale coincide col denaro pensato e se gli avesse detto che pertanto pagava col denaro pensato, certamente il negoziante si sarebbe sentito preso n in giro.

Tutti spontaneamente conosciamo la differenza fra l’essere e il pensiero: l’essere è ciò che esiste attualmente attorno a noi, al di sopra di noi o al di sotto di noi. Noi stessi apparteniamo al mondo dell’essere.

L’essere può essere sia materiale che spirituale, trascendentale o categoriale, sostanziale o accidentale, sensibile o intellegibile, contingente o necessario, corruttibile o incorruttibile, eterno o diveniente, uno o molteplice, finito o infinito. L’essere è il mondo delle cose, della realtà, degli enti.

Il pensiero invece appartiene anch’esso al mondo dell’essere, giacchè anche il pensiero è ben qualcosa, non è un nulla.  Il pensiero mette in gioco la mente, l’intelletto, la ragione, lo spirito, la coscienza. Infatti mentre l’essere è creato da Dio, il pensiero è un prodotto dell’intelletto, sia umano che angelico che divino.

Mentre l’essere riguarda l’attualità, il pensiero si pone sul piano del possibile, di ciò che può essere. L’essere vale per sé stesso. L’essere è l’assoluto. Il pensiero è relativo all’essere ed è fondato sull’essere. Il pensiero è funzionale all’essere; è un’intenzione di essere; è l’essere intenzionale. È l’intenzione della mente interna alla mente, sia creata che increata. Lo spirito è l’autore del pensiero.

L’essere è l’attuazione del possibile ad opera della volontà del pensante o della causalità dell’essere. Il pensiero tocca essenzialmente il piano dell’essere possibile o ideale. Se il soggetto pensante lo vuole, il suo progetto si attua e sorge un ente reale; altrimenti resta nel mondo dello spirito o del pensiero del pensante.

Il pensiero può essere un progetto della mente: l’idea. E ciò appartiene innanzitutto alla mente divina creatrice. Oppure può essere un sostituto dell’essere, una sua rappresentazione formata dalla nostra mente. Gli angeli, partecipando delle idee divine, ricevono da Dio le idee delle cose corrispondenti alle cose, ma non tratte dalle cose come facciamo noi partendo dall’esperienza sensibile.

Come spiegare allora il comportamento dell’idealista? L’idealista non è un allucinato o un demente che scambia la realtà con la sua immaginazione. L’idealista distingue benissimo 100e reali da 100e pensati. Come mai allora la sua teoria dell’identità del pensiero con l’essere?

L’idealista sa benissimo di possedere il pensiero come facoltà umana, per la quale si dà il concetto della cosa all’interno del pensiero e la cosa in sé fuori del pensiero. Ed egli usa questa facoltà come un qualunque uomo normale e sano di mente, distinguendo i suoi pensieri dalla realtà esterna.

Come l’idealista concilia il normale realismo dell’intelligenza comune che vede le cose fuori noi con la sua teoria dell’identità del pensare con l’essere? La cosa oggetto del conoscere è solo dentro il mio pensiero o anche fuori? Il mio pensiero della cosa è o non è lo stesso che l’essere della cosa? La cosa che ho in mente corrisponde a una cosa fuori di me o è il solo ed esclusivo oggetto del mio sapere? Se ho in mente una data cosa, per esser certo di non sbagliarmi, devo controllare e verificare misurandomi con la realtà esterna o basta che io sia certo di avere quell’idea e che essa sia chiara e distinta per esser certo che essa corrisponde alla realtà?

L’idealista si presenta come colui che superando il punto di vista umano, realista, che pone l’essere fuori dal pensiero, si vanta di mettersi dal punto di vista di Dio e di insegnare come ci si eleva a questo supremo e divino punto di vista, che tutto vede in un solo sguardo. L’idealista è un mistagogo migliore di Gesù Cristo che in fin dei conti ci rivela sì il pensiero di Dio, ma sempre nelle meschine modalità del realismo gnoseologico ecclesiastico di Aristotele e San Tommaso.

L’idealista chiama «anagogia» questo suo altissimo ufficio educativo o iniziatico. Il maestro deve sostanzialmente guidare il discepolo ad una presa di coscienza o esperienza originaria, tale da rivelargli il suo io profondo, che si rivela essere il «Pensiero», ossia lo stesso pensare ed essere divino. 

Per l’idealista, il realista vive nel regno delle ombre e delle apparenze, quindi delle illusioni. Il realista parla sì di Dio, ma non ne ha l’idea giusta, considerandolo semplicemente come il massimo o il migliore degli enti di questo mondo di apparenze. Non che l’impostazione realistica non sia utile, tutt’altro, lo stesso maestro ne fa uso: essa infatti è necessaria per il soddisfacimento dei nostri bisogni fisici, per il disbrigo degli affari terreni e la cura degli interessi economici e materiali.

Ma al fine della conoscenza o esperienza dell’Assoluto o di Dio, l’idealista si ritiene l’unica guida indispensabile, sicura, affidabile e necessaria, perché – così egli assicura il discepolo – egli conduce il discepolo ad assumere il «punto di vista di Dio». Che cosa intende l’idealista con «punto di vista di Dio»? Che, a suo dire, sarebbe quello della filosofia, della metafisica e della teologia? Intende «vedere le cose e sé stesso come Dio stesso li vede». E va bene. L’idea è bella e attraente; ma in concreto l’idealista che cosa propone?

Qui cominciano i guai. L’idealista comincia col far riferimento ad un altissimo concetto del pensiero, come uno, unico, a sé stante, solitario, onnicomprensivo, infinito, totalità assoluta, «Intero», identico all’essere, intrascendibile. E giustamente dice che questo Pensiero è Dio.  

Va bene. Ma se questo Pensiero è Dio, come fà il discepolo, limitata creatura, ad assumere questo Pensiero sussistente ed assoluto, che è proprio esclusivamente di Dio e del tutto trascendente, insondabile, incomprensibile ed inaccessibile ad ogni più alta creatura? Il discepolo diventa Dio? Prende coscienza di essere Dio, come avviene al termine del percorso iniziatico dello yoga, allorchè il maestro comunica solennemente al discepolo ormai illuminato dalla luce di Brahman: «tu sei Quello» (Tat tvam asi)?

Esiste sì un mettersi dal punto di vista di Dio in un senso ragionevole, che è quello indicato da San Tommaso[2] e che nulla ha a che vedere con questa impostazione panteista, ed è la semplice considerazione metafisica che Dio vede nella Sua essenza divina, assolutamente una e semplice, identiche con Essa,  tutte le essenze possibili e creabili, mentre Egli stesso è l’Idea creatrice alla luce della quale ha creato tutte le cose esistenti di fatto e, fuori di Lui passate, presenti e future, senza che abbiamo il bisogno di assumerci l’impossibile impresa di far nostro o di impossessarci prometeicamente del Pensiero di Dio, ma restando modestamente al nostro posto, entro i limiti della nostra ragione naturale e quindi della gnoseologia realista, come ha fatto San Tommaso.

A questo punto potremmo ricordare anche la prescrizione kantiana di mantenere la religione entro i limiti della sana ragione. Ovviamente non ci riferiamo qui a quei limiti che possono essere superati dalla fede, ma a quei limiti di guardia, quei guard-rail della ragione e della logica, che non devono esser oltrepassati se non vogliamo passare dal ragionare allo sragionare.

Esiste infatti anche un punto di vista divino ben superiore a quello della nostra ragione, un punto di vista che rispecchia quello che San Paolo chiama il «pensiero di Cristo». Qui indubbiamente la grazia e la luce della fede concedono una visione di Dio e del mondo, che è propria ed esclusiva di Dio non solo rispetto al modo divino e non umano, ma anche riguardo ai contenuti, che non toccano l’essenza del Dio uno, come nella modalità precedente, ma l’essenza del Dio trinitario, e quindi i misteri della fede. Qui vediamo veramente, per partecipazione, nella conoscenza soprannaturale di fede, mediante la dogmatica cattolica, ciò che Dio vede non solo come Dio uno, ma come Mistero Trinitario.

Pensiero ed essere coincidono solo in Dio

Dio è certamente atto di pensiero sussistente, nòesis noèseos, Pensiero del Pensiero, come dice Aristotele; è certamente autocoscienza assoluta, Io assoluto. Ma innanzitutto e soprattutto è puro atto d’essere, Colui Che È (Es 3,14), Colui che è essere per eccellenza e per essenza.

In Dio la specie intellegibile ovvero l’idea mediante la quale Egli conosce è la sua stessa essenza. Vale per Dio ciò che Cartesio afferma della mente umana. Solo Dio, Pensiero sussistente, è una vera res cogitans, ossia una sostanza in atto di pensare, una sostanza la cui essenza sia lo stesso atto di pensare. Per questo Tommaso affama che

«come l’essere consegue alla forma, così l’atto dell’intelligere consegue alla specie intellegibile. Ora in Dio non c’è una forma che sia altro dal suo essere. Per questo, dato che la sua essenza è anche la specie intellegibile, segue di necessità che il suo stesso intelligere è la sua essenza e il suo essere. E così è chiaro che in Dio l’intelletto, ciò che è inteso, la specie intellegibile e lo stesso intelligere sono una e medesima cosa»[3].

Vale anche per Dio il primato della ragione di essere sulla ragione del pensare, primato certo nozionale e non reale perché in Lui non c’è come in noi distinzione reale tra essere e pensare, data l’unità della sua semplicissima essenza.

Invece dal punto di vista metafisico il pensare non coincide affatto con l’essere. Infatti il pensare è atto dello spirito. D’altra parte, l’essere può essere tanto spirituale quanto materiale. L’idealista, nel momento in cui riduce la materia a spirito, e l’essere a pensiero, va a braccetto col materialista, che riduce lo spirito a materia.

Dio è purissimo spirito e lo spirito sta certamente al vertice dell’essere al di sopra della materia. Tuttavia, anche in Dio, come in ogni ente, l’atto d’essere prevale sull’atto del pensare, perchè nozionalmente il pensare è ordinato all’essere, è vicario dell’essere, è rappresentativo dell’essere, è intenzione di essere, è funzionale all’essere, è fondato sull’essere, è attuato dall’essere, è regolato dall’essere, è perfezionato dall’essere.

Per questo, pensare ed essere continuano ad essere nozionalmente distinti anche in Dio, benchè realmente identici nell’essenza divina. Eppure si deve dire che Dio esiste, possiede attributi ontologici (per esempio infinità, immutabilità, eternità), cognitivi (sapienza, intelletto, ragione, coscienza) ed operativi (provvidenza, creatività, giustizia, misericordia).

Differenza e somiglianza fra Hegel e Severino

È interessante il confronto fra i due filosofi che maggiormente oggi animano l’idealismo che si oppone al realismo gnoseologico che sta alla base della fede e della vita cristiana ed ecclesiale del nostro tempo.

Hegel e Severino sono entrambi monisti di ascendenza parmenidea, ma la base cartesiana è innegabile con la sua tipica sofistica relativista protagorea[4]. Per entrambi l’essere è uno ed è l’essere assoluto e necessario, identico al pensiero. È uno come in Parmenide. Per entrambi è la totalità di finito ed infinito. Severino lo chiama l’«Intero».

Sono entrambi idealisti: per Hegel la cosa è il concetto della cosa: per Severino l’essere è l’apparire dell’essere. Per Hegel il vero è la sintesi di vero e di falso. Per Severino l’essere è la «verità dell’essere». Per entrambi l’essere è l’essere di coscienza o essere «fenomenologico» alla maniera di Cartesio, ripreso da Husserl e da Heidegger. Dunque identità di pensiero ed essere.

Per Hegel la molteplicità, le alterità, le differenze e la diversità sono date dalla contraddizione dialettica nella storia. Per Severino sono date dall’apparire e scomparire degli eterni, che sono le differenti apparizioni e sparizioni dell’essere in successione.

Per Hegel essere e non-essere sono la stessa cosa: il divenire. Per Severino l’essere non è  il non-essere. Per entrambi il divenire è contradditorio. Per Hegel il divenire è reale, è l’Assoluto, è la Storia, è Dio. Hegel segue così Eraclito. Per Severino il divenire è impossibile perchè è contradditorio. Severino segue Parmenide.

Per Hegel Dio non è creatore del mondo, ma è completato dal mondo: Dio non crea il mondo, ma si determina e finitizza come mondo. Per Severino l’Essere è rivelazione al mondo. Per Hegel Dio diviene mondo. Per lui l’essere è Dio. Severino esclude che sia Dio perché l’essere non è creatore. L’idealismo hegeliano è storicista; quello severiniano è eternalista. Ma alla fine si corrispondono perché mentre per Hegel il divenire è eterno, per Severino l’eterno è il divenire.

Bisogna abbandonare Cartesio e tornare ad Aristotele

Con Cartesio il pensiero si è volto dall’attenzione al tu all’attenzione all’io. Lo sguardo della mente ha perduto la sua ampiezza, la sua apertura allo sconfinato orizzonte dell’essere, per restringersi al mio essere, alla mia esistenza di individuo precario e mortale. Siamo al solipsismo. Ma siccome il bisogno dell’assoluto in noi è insopprimibile, ecco allora attribuire illusoriamente al mio io quell’assolutezza che prima giustamente attribuivo a ciò che è veramente assoluto, ossia Dio, creatore dell’essere.

Non si è trattato di una semplice accentuazione dell’interiorismo agostiniano, di una migliore presa di coscienza del valore della coscienza. Ciò è stato positivo. Ma si è calcato talmente sull’importanza dell’io, che si è finito per stravolgere il suo rapporto con Dio, per cui non è più l’io relativo a Dio, ma Dio è relativo all’io. Il soteriologismo luterano del «Dio-per-me» e del «Dio-in-me» è su questa linea e prepara Cartesio. Non per nulla, quando i protestanti, con Hegel, hanno voluto fondare filosoficamente la loro fede, sono ricorsi a Cartesio.

Si capisce allora che in queste condizioni Dio non è più Dio, anche se si continua a usare la parola «Dio». In realtà si è trattato della distorsione dell’orientamento fondamentale del nostro spirito, del suo senso naturale ontodirezionale ad un senso egodirezionale, apparentemente liberante ma in realtà soffocante. Ci si è voluti liberare dal vincolo con la realtà esterna, per basarsi su sé stessi. Ma in tal modo abbiamo sperimentato il baratro del nulla[5], poiché la creatura è nulla indipendentemente da Dio.

Nessuno nega i meriti di Cartesio nell’ambito delle scienze matematiche, della promozione della tecnica e delle scienze fisiche, benché difetti alquanto nel campo delle scienze biologiche, psicologiche e storiche a causa del suo idealismo.

 Gli idealisti non hanno alcuna difficoltà ad accettare il realismo in quei campi del sapere. Essi sanno benissimo che per costruire un ponte o una ferrovia non basta il pensato o l’autocoscienza, ma occorre, mediante l’esperienza sensibile, contattare la realtà materiale esterna presupposta al di là del loro pensiero, trasceso da questa realtà oggettiva, alla quale devono adeguare il loro pensiero affinchè sia vero.

Tuttavia, come fa notare Maritain[6], Cartesio ci inganna quando vorrebbe farci credere che il suo metodo matematico, per sé validissimo e utilissimo nella promozione della tecnica e in fisica, discenda dalla sua metafisica e non da quella di Aristotele. Ciò è falso, perché non è difficile dimostrare che il metodo matematico esiste già in Aristotele, anche se è vero che fino a Cartesio e a Galileo la cultura europea non aveva esplicitato, sviluppato e applicato i princìpi di Aristotele in merito, così come pensò di fare il genio di Cartesio e di Galileo.

Comunque sta di fatto che il vero fondamento gnoseologico delle scienze sperimentali e delle matematiche non è affatto l’idealismo cartesiano ma la metafisica di Aristotele. Al contrario, se l’idealismo cartesiano fosse applicato nelle scienze fisiche ne nascerebbero le assurde fantasie degli extraterrestri dei film americani o la confusione della mente col cervello o l’idea che possiamo con la mente plasmare la materia o produrre artificialmente il vivente o la negazione berkeleyana dell’esistenza della materia o la teoria del corpo astrale di Rudolph Steiner o la teoria della reincarnazione o la confusione dell’ente fisico con l’ente matematico o il progetto della macchina pensante dotata di intelligenza artificiale o la teoria severiniana della comparsa e della scomparsa degli eterni o la prospettiva della coscienza cosmica globale che emerge dalla dinamica della fisica quantistica o la possibilità di far procedere il tempo all’indietro anziché in avanti e corbellerie di questo genere.

Quali vantaggi ha procurato l’idealismo cartesiano alla civiltà e alla Chiesa? Hanno ragione i modernisti a continuare a puntare su Cartesio? Quali svantaggi ha procurato nel passato il realismo aristotelico, biblico, tomista e cattolico? Che cosa sono state le due guerre mondiali, se non l’effetto pratico della contraddizione universale introdotta nel pensiero da Cartesio e da Hegel?

Che cosa ha consentito nella storia a tutti i Santi, gli operatori di misericordia e di giustizia e ai fautori di pace e di conciliazione di ottenere gli effetti voluti, se non l’applicazione pratica del realismo aristotelico, biblico e cristiano? È sincera la volontà di pace di chi continua ad aggrapparsi a Cartesio?

Non è l’idealismo ma il realismo che rende liberi. È nel momento in cui umilmente adeguiamo il nostro intelletto alla cosa ed ascoltiamo la voce dell’essere, e per conseguenza ci assoggettiamo al suo creatore, che noi per grazia di Dio possiamo accedere alla libertà dei figli di Dio.

L’orientamento cartesiano del pensiero, mettendo in crisi il suo naturale orientamento realistico presente nello stesso Agostino, ha posto le premesse di quell’indipendenza della mente e della volontà dalla realtà e dal rapporto con le cose, sostituiti con l’autocoscienza autocentrata, che gradualmente nei secoli successivi avrebbe finito per svelare il suo volto annientatore, disumano, ateo e nichilistico, dissolvitore di tutti i valori sotto il giogo di Satana.

Esortazione ai modernisti

Cari fratelli, oggi la Chiesa del Concilio Vaticano II ci propone un nuovo umanesimo cristiano e una migliore conoscenza di Dio, superiori a quelli delle età passate, una più alta filosofia e teologia che assumano criticamente nel patrimonio tradizionale immutabile che ereditiamo dal passato quanto di buono c’è nella modernità, scartando o correggendo ovviamente il cattivo e abbandonando quanto del passato è superato o si è rivelato cattivo o dannoso.

Quale è sostanzialmente questa proposta in campo filosofico e teologico? Quali i criteri di discernimento e valutazione della modernità, del grano e del loglio, dei pesci buoni e dei pesci cattivi? La Chiesa non propone affatto di basarci su Cartesio, ma su San Tommaso e quindi indirettamente su Aristotele. Dunque, proposta di realismo, non di idealismo.

Nessuno nega i meriti dell’idealismo: l’interesse metafisico, teologico, antropologico, morale, mistico, la certezza dell’esistenza della verità, Dio come l’Assoluto, l’assolutezza dell’essere, la dignità dell’uomo e della coscienza.

E tuttavia immensi sono i guai che l’idealismo tedesco sorto da Cartesio, congiunto con le eresie di Lutero, ha procurato alle anime, nella storia, nelle nazioni, nella società e nella Chiesa fino Nietzsche, Gentile, Heidegger, Husserl, Bontadini e Severino.

Non è dunque il caso di insistere, come fate voi, su questa strada con la vostra proposta del rahnerismo, che parte da Cartesio. Non è questa la mente del Concilio.  Se un filosofo o teologo conforme al programma conciliare può essere citato come favorito dalla Chiesa, questi è Jacques Maritain, raccomandato da San Paolo VI e da San Giovanni Paolo II.

E quando parlo della raccomandazione di Tommaso fatta dal Concilio, bisogna riferirsi al tomismo di Maritain, non di chi mescola San Tommaso con Hegel o con Kant o con Severino o con Heidegger.

E non si tratta neppure del tomismo dei filolefevriani, il quale manca dell’aggiornamento promosso dal Concilio, mentre essi accusano ingiustamente di infiltrazioni moderniste le dottrine del Concilio e dei Papi del postconcilio.

Questa, dunque, cari fratelli, è la strada giusta: percorriamola!

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 11 settembre 2024.


Il pensiero può essere un progetto della mente: l’idea. E ciò appartiene innanzitutto alla mente divina creatrice. Oppure può essere un sostituto dell’essere, una sua rappresentazione formata dalla nostra mente. Gli angeli, partecipando delle idee divine, ricevono da Dio le idee delle cose corrispondenti alle cose, ma non tratte dalle cose come facciamo noi partendo dall’esperienza sensibile.

 

Immagine da Internet: Angelo, Michelangelo


[1] Uditori della parola, Edizioni Borla, Roma 1977, p.66.

[2] Sum.Theol.,I, q.15,a.3.

[3] Sum.Theol.,I,q.15, a,4.

[4] Come ho dimostrato nel mio articolo Lo sbaglio di Cartesio. Chi conosce i miei scritti su Cartesio sa come io faccio risalire le origini del pensiero cartesiano a Protagora, raccogliendo un suggerimento di Heidegger: «la tesi di Descartes viene continuamente associata al detto di Protagora e in quest’ultimo è vista l’anticipazione della metafisica moderna di Descartes: infatti, in entrambi i casi viene espresso quasi tangibilmente il primato dell’uomo». Da Nietzsche, Edizioni Adelphi, Milano 1994, p.646.

[5] Quello che Kant chiama il «baratro della ragione»: la pretesa di fondare il fondamento. Vedi Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, p.491.

[6] La filosofia della natura, Morcelliana, Brescia 1974.

2 commenti:

  1. Come ha detto il Papa a Singapore, sono diversi linguaggi per arrivare a Dio, non c'è nulla da temere...

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    1. Caro Anonimo, il Papa non mette in discussione il primato del cristianesimo sulle altre religioni. Semplicemente disapprova un certo bullismo cattolico, che tende ad umiliare i non cattolici con un imprudente atteggiamento di superiorità, che finisce ad essere controproducente e suscitare una reazione contraria.
      Il paragone che il Papa ha fatto con i diversi linguaggi non riguarda i contenuti dottrinali, i quali o sono veri o sono falsi, ma riguarda le diverse spiritualità e le manifestazioni esteriori del culto, ossia il modo di pregare, di rendere culto a Dio, di costruire templi e di produrre l’arte sacra.

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