Gli interessi di noi Domenicani - Prima Parte (1/2)

 

Gli interessi di noi Domenicani

Prima Parte (1/2)

Abbiamo perduto lo slancio di un tempo

Vera mundi lumina

Onorio III, Bolla di approvazione

 dell’Ordine del 22 dicembre 1216

 

Hai abbandonato il tuo amore di prima

Ap 2,4

Mi trovo nella Comunità domenicana di Fontanellato, una cittadina del parmense di 7000 abitanti, che gestisce da cinque secoli un importante Santuario dedicato alla Madonna del Rosario.

C’era stata poco la vittoria di Lepanto sui musulmani e i Conti Sanvitale di Fontanellato invitarono i Domenicani a Fontanellato a fondare un convento che rendesse culto alla Madonna del Rosario, detta Regina delle Vittorie, alla recita del quale Rosario era attribuita la vittoria sui musulmani e la difesa dell’Europa cristiana. Oggi l’esorcista Padre Riccardo nella pratica deli esorcismi invoca la Madonna per la vittoria sul demonio.

Oggi il timore di essere invasi dagli Islamici ha dato luogo alla compassione per gli immigrati islamici. Qualcuno però avverte che non sarebbe male mantenere una certa vigilanza.

Noi Domenicani non abbiamo qui il problema degli immigrati islamici. Ci dedichiamo tranquillamente all’accoglienza dei numerosi pellegrini, alle confessioni, alla guida spirituale, prestiamo aiuto ai parroci della zona, io gestisco questo blog che diffonde la sua voce in molti paesi del mondo.

È questa una zona florida e benestante. L’agricoltura, gli allevamenti, le piccole aziende, il commercio, il turismo sono fiorenti. L’assistenza e la salute pubbliche sono curate. I servizi sociali sono buoni. C’è un alto livello civile. La pratica religiosa è discreta. Non ci sono problemi di disoccupazione, di povertà, di immigrazione, di delinquenza.

C’è il benessere. Ma di una cosa si sente il bisogno. Infatti, per quell’esperienza cinquantennale di ministero che ho ormai alle spalle mi pare che occorra nei fedeli un allargamento degli orizzonti del sapere, un ampliamento degli interessi.

La presenza della Madonna del Rosario qui in Santuario certo si confà alla nostra vocazione domenicana. È per noi frati di grande conforto ed incoraggiamento. Ci consiglia, ci guida, ci consola, ci stimola allo zelo e al sacrificio. Attira le anime per condurle a suo Figlio. Concede ad esse grazie e favori. Le rende zelanti nel bene, pazienti nella sofferenza, coraggiose nella testimonianza, assetate di santità.

Tuttavia la Madonna vorrebbe di più da questi cari fedeli. Ella dice che occorre elevare lo spirito. Siamo immersi nella banalità quotidiana, mentre grandi sarebbero le cose da fare e da sentire.

Occorre uno sguardo interessato ai grandi e drammatici problemi della Chiesa e della società, alle grandi chances che si offrono oggi all’umanità, una valutazione e un’attenzione agli avvenimenti significativi, una preoccupazione per i grandi temi e problemi della società, della cultura e della Chiesa, il bisogno di cercare e approfondire la verità su Dio, il desiderio di migliorare il proprio sapere, la propria vita di fede, la propria condotta, la propria carità, la propria vita spirituale.

È chiaro che per noi Domenicani non si tratta di metterci presuntuosamente al posto delle autorità responsabili e competenti riguardo alla soluzione e interpretazione di queste gravi e complesse questioni che ci riguardano tutti, mentre noi comuni fedeli, non possiamo non avere per la nostra stessa condizione esistenziale un punto di vista limitato in base al quale giudicare, diversamente dai dirigenti, che dispongono di maggiori informazioni e hanno sotto gli occhi un quadro ben più ampio di quello che è in nostro possesso. 

È chiaro che noi comuni fedeli possiamo occuparci con competenza e profitto di ciò di cui abbiamo diretta esperienza, delle persone con le quali veniamo a contatto ogni giorno e dei loro particolari bisogni o necessità, delle loro difficoltà o sofferenze, del nostro piccolo ambiente cittadino o campagnolo o parrocchiale o conventuale, dei nostri prossimi che frequentiamo o che vengono da noi in forza di certe abitudini religiose o perchè spinti da varie necessità quotidiane, con la problematica del nostro limitato ambiente di lavoro.

L’essenza dell’ideale domenicano

Tuttavia vorrei ricordare una cosa molto bella che tocca la vocazione domenicana, alla quale forse non tutti pensano. Noi Domenicani siamo nati all’ombra del Papa. Il Santo Padre Domenico teneva moltissimo nella sua iniziativa di Fondatore, ad essere approvato dal Papa, anche perché il recente Concilio Lateranense IV del 1215 aveva ordinato che i vescovi si valessero dell’aiuto di valenti predicatori.

Così nella nostra professione religiosa, a differenza del clero diocesano, non promettiamo obbedienza al Vescovo, ma facciamo voto di obbedienza al Papa. Ciò naturalmente non vuol dire che siamo esenti dall’obbedire al Vescovo in ciò che riguarda la nostra attività nella sua diocesi, ma significa che il nostro compito non è tanto quello di prestar servizio al Vescovo o al parroco, quanto piuttosto di essere al servizio del Papa e dell’intera Chiesa.

Per questo, quando i Superiori lo ritengono opportuno o necessario in considerazione di questo nostro compito ecclesiale metadiocesano, di trasferirci in un’altra diocesi senza che il Vescovo abbia facoltà di opporsi. Questo vuol dire che gli interessi di noi Domenicani non si restringono al servizio di una diocesi e tanto meno di una parrocchia, ma vanno al di là per abbracciare gli stessi interessi della Chiesa e del Papa. Un Domenicano certo può essere parroco, ma anche in questa condizione egli resta Domenicano, al servizio della Chiesa e del Papa. Se no tanto vale che si faccia prete secolare.

Noi come Domenicani, avendo essenzialmente una missione che riguarda il bene della Chiesa e gli interessi della Santa Sede, non ci occupiamo, in linea di massima o di principio, di affari o imprese o compiti ecclesiastici relativi a bisogni particolari, temporanei, passeggeri, locali o contingenti; non siamo preparati e qualificati per queste cose, ma per partecipare della missione evangelizzatrice e santificatrice del Papa e della Chiesa stessa, che dovrà durare fino alla fine del mondo.

Per questo, se certi Istituti che sono legati ad una missione storica o locale che si può esaurire e quindi possono perdere la loro ragion d’essere, l’Ordine Domenicano è talmente inserito nell’essenza della Chiesa, che partecipa della perennità della Chiesa stessa.

Quindi, similmente al Papa, con la nostra predicazione possiamo e dobbiamo parlare a tutta la Chiesa e all’intera umanità, come è vero che il Vangelo va annunziato a tutto il mondo. Non ci limitiamo all’amministrazione del sacramento della penitenza dei singoli penitenti, ma la nostra chiamata alla penitenza e alla conversione si allarga a promuovere la conversione dei popoli a Cristo, persuadendoli e facendoli discepoli di Cristo, come Egli ci ha comandato.

È questo il significato pratico e pastorale dell’evangelizzazione e dell’ecumenismo. Dio ci dà, come Domenicani, uno speciale carisma di mediatori ed operatori di riconciliazione e di pace in occasione di conflitti di qualsiasi genere, da quelli privati a quelli pubblici, da quelli sociali a quelli intraecclesiali fino ai conflitti bellici fra Stati e Nazioni.

Ci potremmo chiedere allora che cosa può fare un Domenicano a Fontanellato, dove i problemi sono quelli di assicurare un’adeguata illuminazione alla data strada, dove le tragedie sono quella del vecchietto in bicicletta travolto da un’auto, dove è scoppiata una «bomba d’acqua» e non la bomba di un terrorista, dove non esistono centri culturali o istituti teologici, dove arriva l’Avvenire che si proclama cattolico e denigra il cattolicesimo, dove gl’interessi sono il culatello e il parmigiano o tutt’al più il problema della nuora con la suocera o quello del figlio scapestrato o della nonna all’ospedale o  ci si confessa per aver detto bugie o parolacce.  

Non c’è dubbio che il Domenicano deve occuparsi con prudenza e carità di queste cose, ma facendo in modo di non immeschinire lo spirito in esse. Piuttosto dobbiamo saper elevare ed allargare gli animi ad interessi più vasti e più alti: i bisogni della Chiesa e i problemi del Papa.

Questo non vuol dire che il Domenicano comune pretenda di avere la competenza di un Cardinale di Curia. Egli però, proprio in quanto Domenicano, fruisce di un carisma speciale che gli consente di intuire o sapere qual è la situazione della Chiesa e del Papa, quali sono i suoi problemi, le sue sofferenze, le sue chances, le sue speranze, i pregi e i difetti, onde suggerire soluzioni, vie di uscite o miglioramenti per come estendere il suo influsso nel mondo e portare avanti la sua opera di salvezza.

Un passato glorioso ma non senza ombre

La scossa del Concilio Vaticano II

L’Ordine domenicano nei secoli passati soprattutto a partire dal Concilio di Trento aveva assunto, sia pur accanto ai Gesuiti, un ruolo di protagonista nella collaborazione della conduzione del Papato e quindi nella vita della Chiesa col darle un’impronta pastorale fortemente segnata da una configurazione o nota dottrinale e disciplinare.

Adesso il Concilio, dietro l’ispirazione di Giovanni XXIII, veniva ad imporre improvvisamente all’Ordine una brusca svolta a questo stile pastorale nel quale molti Domenicani da qualche secolo con l’avallo degli stessi Papi, credevano si riassumesse la missione dell’Ordine.

La svolta, che toccava l’essenza dell’Ordine, si può ricavare con chiarezza dalla diversità del compito assegnato al Domenicano in relazione a San Tommaso nelle Costituzioni preconciliari del Padre Stanislao Gillet del 1932 e in quelle riformate in base al dettato su San Tommaso del Concilio Vaticano II, edite per ordine del Padre Aniceto Fernandez nel 1968.

Noi Domenicani siamo abituati alle forti scosse. I rivolgimenti storici e le rivoluzioni non ci impressionano più di tanto. Certo succede che i più fragili e meno convinti restino travolti, abbandonino l’Ordine o cerchino meschini compensi o compromessi per restare a galla. Ma se costoro avessero colto l’essenziale del nostro carisma, avrebbero superato la prova senza deformare o svilire il fine dell’Ordine per non accontentare le mode e chi è al potere.

Così è accaduto con Lutero: sembrava che la Scolastica fosse finita e invece nella prova si è rafforzata e al Concilio di Trento ha distrutto le eresie di Lutero e risposto con l’amore alla verità al suo odio per San Tommaso.

Così alla Rivoluzione francese: sembrava che l’Ordine fosse legato all’Ancien Régime e invece proprio rifacendosi a San Tommaso ha dimostrato di saper sostenere la fratellanza umana, il valore della ragione e i diritti dell’uomo, la libertà di coscienza e la tolleranza meglio degli illuministi e massoni che ispirarono la Rivoluzione Francese.

Sembrava che Napoleone avesse distrutto tutte le nostre istituzioni accademiche e scolastiche e invece ecco che nell’’800 per opera del grande Lacordaire esse risorgono tanto da promuovere una meravigliosa rinascita tomistica[1] che dette un formidabile contributo alle dottrine del Concilio Vaticano I e indusse Leone XIII[2] a farsi a sua volta promotore di questa rinascita che svolgerà un ruolo determinante nell’aiutare San Pio X nella lotta al modernismo.

Tuttavia è vero che l’istanza dei modernisti non era del tutto sbagliata. Bisognava veramente che il pensiero cattolico si aprisse ad un’assunzione dei valori moderni, fatta però con oculatezza, alla luce della dottrina dell’Aquinate. L’errore tragico dei modernisti fu invece purtroppo quello di pretendere di giudicare la dottrina di Tommaso in base agli errori della modernità.

Ma restava sez’altro la necessità di assumere correttamente quei valori. Fu l’impresa dei tomisti domenicani francesi degli anni ’20-’50, con esiti ora postivi - vedi Maritain e Congar - ora   negativi – vedi i difetti della Scuola di Le Saulchoir e la “théologie nouvelle” -.

In base a queste considerazioni di fondo che toccano l’essenza immutabile dell’Ordine e della sua missione nella Chiesa e nel mondo, occorre tener presente quanto è successo nella Chiesa sessant’anni fa. Con l’avvento del Concilio Vaticano II tutta la Chiesa e in un modo speciale il mio Ordine ricevemmo un’enorme scossa, alla quale era preparata solo una piccola minoranza di spiriti coraggiosi, illuminati, generosi, profetici, profondamente imbevuti dell’ideale domenicano nella sua capacità di illuminare l’umanità  della luce con la quale Cristo la illumina e la guida nel succedersi dei grandi rivolgimenti della storia. Faccio qui soltanto i nomi di Sertillanges, Maritain, Gardeil, Journet, Congar e Chenu.

Mi sembra che noi Domenicani, per quella conoscenza che ne ho, non mi riferisco all’intero Ordine sparso nel mondo, a seguito della scossa ricevuta, per non esser riusciti in un vero rinnovamento, ci siamo infiacchiti, siamo scesi a patti col mondo, abbiamo smorzato le luci, indebolito le convinzioni, ristretto gli orizzonti, limitato le prospettive, diminuito il coraggio, rinunciato alla lotta.

Di recente Papa Francesco ha ricordato a tutta la Chiesa l’importanza di San Tommaso Doctor communis Ecclesiae, titolo che gli conferì Pio XI nell’enciclica Studiorum Ducem del 1923. Il Concilio non ci chiede di abbassare la luce ma di aumentarla. Mescolare Tommaso con Cartesio, Kant, Hegel, Heidegger o Severino vuol dire abbassare la luce, non aumentarla.

È preciso nostro dovere vagliare, discernere, individuare, recuperare, assumere e integrare i valori del pensiero moderno nell’alveo della dottrina cattolica, ma alla luce di San Tommaso e non inquinare la dottrina dell’Aquinate con gli errori della modernità.

Perché una cura sia efficace non dev’essere mescolata con i princìpi della malattia, ma deve contenere solo ciò che li elimina. Non si può curare un tumore al cervello con compresse contro il mal di testa.

Affrontare i problemi intellettuali del nostro tempo trascurando o deridendo o falsificando la metafisica vuol dire farsi gli zimbelli della menzogna e dell’inganno.

Pretendere di affermare il nostro Ordine indipendentemente dalle direttive del Magistero pontificio vuol dire mettersi al di fuori della comunione ecclesiale. Credere di essere in comunione con Papa Francesco approfittando di alcuni suoi difetti umani o utilizzare il Papa in senso modernistico vuol dire porsi al di fuori dell’obbedienza al Papa.

Non siamo riusciti a realizzare quel rinnovamento che chiedeva per noi il Concilio. Nella volontà di correggere gli errori e la troppa severità del passato, siamo caduti nell’eccesso opposto. L’altezza dello sguardo si è abbassata, l’ampiezza delle prospettive si è ristretta, la sublimità degli interessi si è immiserita, la forza della convinzione si è indebolita, la disponibilità a combattere è stata sostituita da una bonaria urbanità, il rispetto umano ha sostituito il patire per la verità. Allo sguardo dell’aquila è succeduto quello del passerotto. Il cane da guardia è divenuto cane da salotto.

Non è che nel preconcilio non vi fossero state voci profetiche che sentivano il bisogno di quella svolta che poi ha avviato il Concilio. I Gesuiti con il de Lubac e il Bouillart avevano avviato una nuova teologia che maggiormente attingesse alle sorgenti patristiche, liturgiche, storiche e bibliche della teologia. Ma purtroppo si mostrava influenzata dal luteranesimo nel dispregio di San Tommaso e del Magistero della Chiesa.

Un forte stimolo al rinnovamento domenicano e tomista nel senso che sarebbe poi stato avviato dal Concilio Vaticano II venne in Francia dai Circoli Tomisti[3] fondati e diretti da Maritain insieme col Garrigou-Lagrange, la cui attività durò dal 1919 al 1937 col concorso di diversi teologi domenicani come i Padri Gagnebet, Bernadot e Labourdette, dopo che lo stesso Maritain aveva ricevuto l’influenza di notevoli teologi domenicani come il Padre Dehau e il Padre Clérissac[4].

Fine Primo Tempo (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 16 agosto 2024


Sembrava che Napoleone avesse distrutto tutte le nostre istituzioni accademiche e scolastiche e invece ecco che nell’’800 per opera del grande Lacordaire esse risorgono tanto da promuovere una meravigliosa rinascita tomistica che dette un formidabile contributo alle dottrine del Concilio Vaticano I e indusse Leone XIII a farsi a sua volta promotore di questa rinascita che svolgerà un ruolo determinante nell’aiutare San Pio X nella lotta al modernismo.

Tuttavia è vero che l’istanza dei modernisti non era del tutto sbagliata. Bisognava veramente che il pensiero cattolico si aprisse ad un’assunzione dei valori moderni, fatta però con oculatezza, alla luce della dottrina dell’Aquinate. L’errore tragico dei modernisti fu invece purtroppo quello di pretendere di giudicare la dottrina di Tommaso in base agli errori della modernità.

Ma restava senz’altro la necessità di assumere correttamente quei valori.

Immagine da Internet: Napoleone a Bologna


[1] Vedi il mio libro Teologi in bianco e nero. Il contributo della scuola domenicana alla storia della teologia, Edizioni Piemme, 2000, c.XII.

[2] La filosofia cristiana tra Ottocento e Novecento e il magistero di Leone XIII, Atti del convegno di Perugia del 29 maggio-1 giugno 2003, Perugia 2004.

[3] Vedi J.Maritain, Ricordi e appunti, Morcelliana Brescia 1973, cap.V.

[4] Vedi Raissa Maritain, I grandi amici, Vita e pensiero, Milano 1956,II, VIII.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.