Il monachesimo e il Papa - La comunione ecclesiale del Monte Athos - Prima Parte (1/2)

 

Il monachesimo e il Papa

La comunione ecclesiale del Monte Athos

Prima Parte (1/2)

 Dio scrive diritto sulle righe storte

San Pietro ha avuto l’incarico da Cristo di pascere il suo gregge. Ora sappiamo come nella Chiesa i fedeli vivono la loro vita di fede in forme diverse: o mediante la santificazione della vita presente o mostrando fin da adesso una prefigurazione della vita futura; praticando l’amore di Dio nel ritiro dal mondo oppure mediante la santificazione del mondo. I primi sono i pastori e i laici. I secondi sono i religiosi e soprattutto i monaci.

La vita monastica ha un’origine orientale antichissima. Essa è giunta in Europa nei primissimi secoli del cristianesimo ed è stata assunta nella pratica della vita cristiana nella forma della pratica dei consigli evangelici raccomandata da Cristo per coloro che si sentono e sono capaci di realizzarla.

Il cristianesimo tuttavia ha corretto lo spiritualismo orientale, il quale, non conosce la possibilità cristiana di iniziare a realizzare fin da questa vita un umanesimo che, libero dal male, prospetta l’unione con Dio sulla base di un’astinenza dai beni terreni dettata dall’incapacità di ordinarli a Dio.  Certo, anche Cristo dice «se il tuo occhio ti scandalizza, toglilo». Ma in fin dei conti Dio ha creato l’occhio per vedere e se può essere usato senza pericolo per la propria anima, può e dev’essere usato.

La vita monastica al Monte Athos ha avuto inizio attorno al quarto secolo e da allora non ha fatto che accrescersi e rafforzarsi. Essa nacque sotto il segno di un monachesimo non del tutto purificato dal rigorismo e dualismo orientali, presente in Europa nella spiritualità platonica. 

Lo scisma del 1054, che separò le Chiese orientali dalla comunione col Romano Pontefice, come era da attendersi, non corresse questa spiritualità che aveva assunto una forma emblematica nei monasteri del Monte Athos. In tal modo il monachesimo orientale scismatico, che si qualificò «ortodosso» in polemica col Papa giudicato eretico, diminuì la comunione con la Chiesa universale, della quale il Papa è Pastore.

Lo scisma del 1054 fu il tragico sbocco finale di un atteggiamento antagonistico del Patriarcato di Costantinopoli nei confronti della Chiesa Romana motivato dal fatto che quel Patriarcato, avente sede presso la Corte di Bisanzio, riteneva per questo fatto politico di avere acquisito un primato sulla Chiesa Romana, che aveva sede laddove l’Impero Romano d’Occidente era crollato nel sec. V. Ma questa idea di Costantinopoli era del tutto estranea alle reali intenzioni di Cristo nel fondare il Papato. Cristo infatti non ha mai detto che la Sede di Pietro doveva essere in una città imperiale.

Questo fraintendimento della volontà di Cristo è all’origine della ribellione a Roma di Costantinopoli e tuttora il Patriarcato di Mosca, in linea con questa tradizione cesaropapista, dimostra di essere subordinato dall’attuale governo politico della Russia[1].

Tuttavia non è accaduto con le Chiese che hanno seguito lo scisma costantinopolitano quanto è disgraziatamente accaduto per le comunità protestanti, le quali hanno interrotto nella nomina dei Pastori la successione apostolica. Come è infatti noto, le Chiese orientali hanno mantenuto l’episcopato, per cui esse, sotto questo aspetto, sono rimaste in comunione col Papa. 

Ciò che in esse è venuto meno dopo mille anni di fedeltà e che ancora dopo altri mille anni manca ancora, è l’obbedienza alle direttive pastorali e canoniche del Sommo Pontefice, che non è solo il «Papa di Roma», ma il Papa e il Pastore della Chiesa universale e quindi anche di Costantinopoli e Chiese a lei collegate.

Lodevole è il proposito delle Chiese orientali di conservare l’ortodossia. Ma esse hanno dimenticato che l’ortodossia è impossibile senza o contro il Papa[2]. Non c’è ortodossia senza universalità e non c’è Chiesa universale senza il Papa. E la Chiesa per essere pienamente Chiesa come l’ha voluta Cristo, dev’essere universale.

E come fa ad essere universale se non tutti i cristiani obbediscono a colui che Cristo ha stabilito come suo Vicario in terra? E quelli che non obbediscono a questo Pastore come fanno a considerarsi membri della Chiesa universale? O forse che la Chiesa è semplicemente, come credono loro, un insieme di Chiese? D’accordo per l’insieme di Chiese; ma chi per comando di Cristo ha il compito qui in terra di tenerle unite se non Pietro? A chi Cristo ha detto: «Pasci i miei agnelli»?

Il fatto che oggi come oggi a Kiev ci siano tre Patriarchi ortodossi dei quali due per Bartolomeo contro Cirillo ed uno per Cirillo contro Bartolomeo non dice loro nulla? Non viene loro il vago sospetto che non sono capaci di realizzare senza il Papa quella collegialità, quella sobornost che è il loro vanto presso noi cattolici schiavi del Papa? Come mai i loro Vescovi sono così facili a scomunicarsi a vicenda? È, questo, un segno di collegialità? Quando mai capita ciò tra i Vescovi cattolici?

Questa incresciosa mancanza di comunione nei nostri fratelli orientali li  porta per conseguenza ad un modo di vivere l’episcopato, che per quanto possa sottolineare la collegialità, l’ascolto dello Spirito Santo e la soggezione a Cristo Capo della Chiesa, questa collegialità, priva com’è del suo principio di unità visibile voluto da Cristo, che è il Papa, è in realtà una pura utopia, a differenza di quella vera, che è sempre stata realizzata nei Concili della Chiesa cattolica dal Concilio di Gerusalemme fino al Vaticano II.

Perchè i nostri fratelli orientali non riconoscono francamente che la loro cosiddetta «autocefalìa» si risolve spesso ad essere un comodo pretesto per dar spazio all’individualismo e rifiutare la fatica e l’umiltà della disciplina ecclesiale?

Con la venuta del Concilio Vaticano II è iniziato, altresì, come è noto, grazie a Dio, il tanto sospirato dialogo ecumenico tra cattolici ed ortodossi, che ha portato molti frutti. Nel 1972 San Paolo VI e il Patriarca di Costantinopoli Atenagora tolsero le scomuniche che si erano reciprocante irrogati in occasione dello scisma. Era già comunque noto che se la scomunica irrogata dal Papa di allora era valida, quella irrogata dal Patriarca di Costantinopoli non aveva alcun fondamento canonico.

Fu certamente un consolante avvenimento storico, il quale però non per questo ha a tutt’oggi prodotto l’effettiva piena comunione delle Chiese ortodosse col Papa. Rimane infatti a tutt’oggi il rifiuto del Filioque, che fu all’origine dello scisma.  Tornando ai monasteri dell’Athos, quello che comunque è ammirevole in essi è la fedeltà all’ideale monastico di San Basilio.

Esso, però, pur nella sua nobiltà, risente, come tutto il pensiero dei Padri Greci, del dualismo platonico e non ha l’equilibrio e la moderazione umanistica di quello di San Benedetto, più conforme all’antropologia biblica, un ideale che seppe assumere ed integrare nella soggezione al Papa la sapienza giuridica e l’operosità della civiltà romana.

Così il monachesimo cristiano raggiunge la sua regola perfetta con San Benedetto, grazie al quale il monastero, pur ritirato dal mondo, non è da esso isolato o separato: è sì difeso dalle sue insidie e protetto dalle sue seduzioni, tentazioni e pericoli, ma non ignora i fini, i valori, i bisogni, le necessità, i problemi, le illusioni, le aspirazioni, le chances, le ansie e le sofferenze di questo mondo. 

La sua caducità, corruttibilità, mutevolezza, precarietà, vanità è certo respinta, smascherata e rifiutata dal monaco benedettino come da quello atonita, ma il primo, a differenza del secondo, riconosce al di là di queste cose la presenza di Dio nella sua creatura vivente in questo mondo, che Dio vuole salvare e avere con sé.

Da qui quello sguardo attento del monaco benedettino al di fuori del recinto del monastero, verso il mondo esterno, che manca al monaco atonita, timoroso che lo sguardo verso il mondo lo distragga da Dio. Ma così è successo che mentre i monasteri benedettini, sparsisi per l’Europa cattolica nel Medioevo fino ai nostri giorni, sono stati fattori di cristianizzazione e civilizzazione sul territorio, i monasteri dell’Athos, isolati dal mondo, sono sì e sono tuttora potenti attrazioni per le anime desiderose di stare sole con Dio, ma occorre notare con franchezza che il concetto atonita di solitudine monastica non è del tutto corretto.

Che cosa è la solitudine monastica?

San Tommaso dedica uno splendido e densissimo articolo della Somma Teologica (II-II. q.188, a.8) all’ideale della vita eremitica e, lui Domenicano, religioso di vita attiva, considera il monachesimo eremitico ed esicasta la forma di vita cristiana più sublime e più evangelica. 

Tommaso cita come autorità Aristotele, Cassiano, San Gerolamo e Sant’Agostino, dunque autori occidentali. Eppure l’elevatezza del loro pensiero compete benissimo con la mistica dei Padri Orientali. Tanti sono i temi che l’Aquinate tratta nel breve spazio di un articolo, che meriterebbero un lungo commento. Mi limito qui a dire l’essenziale.

S.Tommaso sembra contraddirsi due articoli prima (q.188, a.6), dove, chiedendosi se la vita contemplativa è superiore a quella attiva, dà il primato a quest’ultima col seguente motivo: «come vale di più l’illuminare che il solo risplendere, così vale di più trasmettere agli altri ciò che si è contemplato (contemplata aliis tradere) che il solo contemplare».

Ma bisogna notare che qui Tommaso mette a confronto dei semplici atti e non dei veri e propri stati di vita. Chi è infatti che conosce soltanto e non comunica ad altri ciò che ha imparato? È chiaro che anche l’eremita più austero dovrà ben parlare con qualcuno ogni tanto.

Solitudine monastica – intuizione che è già presente nel monachesimo tibetano – non significa isolamento e incomunicabilità, perché ciò o è segno di asocialità o  è quel disturbo psichico, che si chiama autismo, ma al contrario la solitudine monastica è capacità di arrangiarsi da solo, di non aver bisogno di tante cose, è segno di autosufficienza, quindi di sobrietà e semplicità di vita, e di comunione col Tutto.

Il monaco nella sua cella è in comunione con gli altri e con la Chiesa in un modo più profondo, perchè spirituale, che non il commerciante, l’avvocato o il politico o il Vescovo i quali sono sempre in mezzo alla gente, ma che eventualmente lo fanno per ottenere fama e successo.

La solitudine sana e voluta da Dio è quella che consiste nel porsi con la propria coscienza davanti a Lui dopo un’intensa giornata di lavoro a servizio del prossimo, una sosta intesa come pregustazione della visione beatifica, una ricarica spirituale come stimolo e ragione di un rinnovato e migliore contatto col mondo.

Un contatto con Dio che escluda o sottovaluti il contatto con i fratelli (uomini o donne), per un’eccessiva ripugnanza per il mondo o per un eccessivo timore di restare ingannati o sedotti, è segno di incapacità di vedere nella creatura la presenza del Creatore, col rischio di perdere il contatto con lo stesso Creatore e di chiuderci nelle nostre belle idee scambiate per realtà.

Occorre che ci intendiamo bene quando parliamo dell’alto valore della solitudine. La solitudine ha un alto valore morale non in quanto singola persona che semplicemente se ne sta da sola, senza contatti col prossimo.

La solitudine non è il solipsismo di Cartesio o di Fichte: esisto solo io. Tutto è posto dal mio io. Basto a me stesso; gli altri semmai sono a mio servizio. Questa non è santità; questa, come già ebbe a intuire Aristotele citato da S.Tommaso[3], non è santità ma bestialità. È un meschino infantilismo mentale.

La solitudine ascetica, meritoria, santa e feconda del monaco è solitudine con Dio in comunione spirituale con la Chiesa. Così la Bibbia ci insegna che Dio non ha voluto nelle sue creature la solitudine. Solo Dio può starsene beatamente da solo, appunto perché è Dio e non ha bisogno di nessuno. Ha creato il mondo per pura libertà, ma avrebbe potuto benissimo vivere da solo senza creare il mondo.

Dio non ha voluto creare una sola ed unica creatura personale, dedita solo a Lui, anche se avrebbe potuto farlo, se avesse voluto. Invece ha creato l’uomo maschio e femmina, con la formazione della famiglia, che è notoriamente il paradigma della socialità. Ma tale rapporto è destinato a restare nella futura risurrezione, dove pure non esisterà più la riproduzione della specie.

Il motivo radicale per il quale Dio ha creato la coppia umana, come ha spiegato San Giovanni Paolo II, è la volontà che uomo e donna si completino l’un l’altro nell’esistenza; ossia l’uno dà senso all’esistenza dell’altra. Ecco perché il Cantico dice che l’amore è forte come la morte: perché come la morte toglie la vita, così l’amore dà la vita e toglie la morte. Come attorno all’amore sublime si compiono gli atti più eroici, così per un amore passionale si perpetrano i delitti più efferati.

I monaci atoniti fanno certamente bene a non voler appartenere al mondo, ma si dimenticano che Cristo non ha chiesto al Padre di toglierci dal mondo, ma di difenderci dal maligno. Essi lottano certo contro il demonio, ma invece di liberare il mondo dal demonio fuggono il mondo insieme col demonio.

La sciagura dello scisma ha fatto sì che i monaci dell’Athos e in generale il monachesimo orientale, dal quale pure era giunto il monachesimo in Occidente, si rifiutassero di approvare e seguire la riforma monastica promossa da San Bernardo di Chiaravalle nel sec. XI-XII, in comunione col romano Pontefice, riforma che dette un’impronta più contemplativa al monachesimo benedettino e che avrebbe mostrato ancora meglio l’indissolubile legame tra vero ed integrale monachesimo cristiano e soggezione alla Sede Romana.  

In tal modo per noi cattolici il monachesimo bizantino ed atonita perdette il prestigio che fino alla rottura con Roma poteva senz’altro vantare anche presso di noi Latini. Tuttavia quel monachesimo ha conservato certamente i valori essenziali del cristianesimo e dello stesso monachesimo, come gli riconosce il Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II. Ma è chiaro che quel monachesimo non può più essere esempio per noi cattolici di fedeltà al Successore di Pietro e Pastore universale della Chiesa.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 31 maggio 2024


La vita monastica al Monte Athos ha avuto inizio attorno al quarto secolo e da allora non ha fatto che accrescersi e rafforzarsi. Essa nacque sotto il segno di un monachesimo non del tutto purificato dal rigorismo e dualismo orientali, presente in Europa nella spiritualità platonica. 

Lo scisma del 1054, che separò le Chiese orientali dalla comunione col Romano Pontefice, come era da attendersi, non corresse questa spiritualità che aveva assunto una forma emblematica nei monasteri del Monte Athos. In tal modo il monachesimo orientale scismatico, che si qualificò «ortodosso» in polemica col Papa giudicato eretico, diminuì la comunione con la Chiesa universale, della quale il Papa è Pastore.  

Lo scisma del 1054 fu il tragico sbocco finale di un atteggiamento antagonistico del Patriarcato di Costantinopoli nei confronti della Chiesa Romana motivato dal fatto che quel Patriarcato, avente sede presso la Corte di Bisanzio, riteneva per questo fatto politico di avere acquisito un primato sulla Chiesa Romana, che aveva sede laddove l’Impero Romano d’Occidente era crollato nel sec. V. Ma questa idea di Costantinopoli era del tutto estranea alle reali intenzioni di Cristo nel fondare il Papato. Cristo infatti non ha mai detto che la Sede di Pietro doveva essere in una città imperiale. 

Questo fraintendimento della volontà di Cristo è all’origine della ribellione a Roma di Costantinopoli e tuttora il Patriarcato di Mosca, in linea con questa tradizione cesaropapista, dimostra di essere subordinato dall’attuale governo politico della Russia.

Immagina da Internet: Monte Athos


[1] Vedi Giovanni Codevilla, Da Lenin a Putin. Da Perseguitata a connivente. Politica e e religione, Edizioni JacaBook, Milano 2024.

[2] È lo stesso vizio tra noi cattolici dei lefevriani.

[3] Sum.Theol., II-II,q.188, a.8.

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