Per capire Papa Francesco - Un gesuita francescano

 

Per capire Papa Francesco

Un gesuita francescano

 Un Papa diverso da tutti gli altri

Sono stato amico e corrispondente epistolare per alcuni anni del Padre Giandomenico Mucci, sapiente teologo, educatore di giovani e grande guida spirituale, redattore dal 1984 alla morte, avvenuta nel 2020, de La Civiltà Cattolica.

Padre Mucci conosceva personalmente il Papa ed ebbe con lui tantissimi incontri personali. Un giorno mi scrisse riferendomi che il Papa gli aveva detto: «Io sono un po’ furbo e un po’ ingenuo». Non trovo migliore ritratto del Papa di questo che egli ha fatto di se stesso.

Naturalmente questo giudizio non tocca la sua missione dottrinale, ma la sua figura morale. La furbizia può essere prudenza, ma può essere anche duplicità.  L’ingenuità può essere semplicità, ma può essere anche dabbenaggine. Un Papa è infallibile nella dottrina, ma non è impeccabile nella condotta morale, nella pastorale e nel governo della Chiesa.

Francesco si riconosce peccatore e per questo ci chiede spesso che preghiamo per lui. Io che seguo quotidianamente sin dagli inizi gli atti del suo pontificato ho notato che da certi difetti si è corretto e un miglioramento nell’esercizio del suo ministero di Pastore universale della Chiesa. Di ciò sto parlando da anni nelle mie pubblicazioni a stampa o sui siti web o sul mio blog. 

La spiritualità di questo Papa è del tutto inedita nella storia del Papato: il primo Papa gesuita, non solo, ma un Papa che ha operato una sintesi che parrebbe quasi impossibile fra la spiritualità ignaziana e quella francescana, notoriamente assai distanti: la prima, per l’esaltazione delle virtù umane, soprattutto la capacità di militare nella buona battaglia contro le forze sataniche e i nemici della Chiesa. E difatti nessun Papa come questo ci ha insegnato a sventare le insidie del demonio.

La seconda, per l’umile coscienza della propria povertà condivisa con i poveri nella diffidenza per le arti dell’umana dottrina, sapienza e potenza, paga della coscienza della propria figliolanza del Padre unita al cantico delle creature.

Infatti, quale maggior distanza fra la semplicità disarmante francescana e la studiatissima circospezione gesuitica? Quale maggior differenza fra un’attività evangelizzatrice che mira alla conquista dei ceti dirigenti e quella che vuol dar voce all’umile popolo di Dio? Quale maggior differenza tra una spiritualità che vuol sottomettere a Cristo tutte le scienze e le arti e quella che tiene fisso il pensiero: «scientia inflat, caritas autem aedficat»? Eppure, che cosa dice Cristo? «Semplici come le colombe, astuti come i serpenti». Le colombe francescane e i serpenti gesuiti lavorano assieme per la salvezza del mondo e la venuta del Regno di Dio.

Ecco allora Papa Francesco mettere assieme la fiducia filiale nel Padre di impronta francescana, la fraternità francescana, l’anelito francescano alla pace, l’amore francescano per la natura, la misericordia e la condivisione della povertà dei poveri con l’attitudine alla direzione spirituale, alla lotta contro il demonio, alla disinvoltura con la quale sa muoversi tra i potenti della terra, al discernimento pratico, al senso delle circostanze, all’affetto per Cristo, al culto dello Spirito Santo, allo slancio evangelizzatore, il decisionismo, il dinamismo e il progressismo propri della spiritualità ignaziana.

Papa Francesco ha operato questa sintesi sotto il segno del volontarismo, che è caratteristica comune al Francescano e al Gesuita. Il volontarismo non è il primato della carità sul sapere, perché questo è principio evangelico comune a tutti i discepoli di Cristo, ma consiste nella tendenza a concepire la verità non sotto il segno dell’intelletto, ma della volontà, come se l’intelletto avesse bisogno della volontà per compiere il suo ufficio[1].

Intellettualismo e volontarismo

Nel volontarismo il movimento dello spirito non parte dalla verità, per attuare la volontà, ma parte dalla volontà per produrre la verità, cioè in fin dei conti, per produrre l’essere. La verità non è ciò a cui il nostro intelletto si deve adeguare, ma ciò che decidiamo noi con la nostra libera volontà[2].

Ê la tendenza a vedere il bene morale non come pratica del vero e presupposto al bene, non come effetto dell’attività intellettuale, ma come valore in se stesso nel presupposto che esso contenga già il vero o sia produttore di verità. La libertà non è effetto e conseguenza della conoscenza della verità, ma il farsi stesso concreto della verità. 

La volontà non è buona o cattiva perché sceglie il vero o il falso, ma perché disobbedisce a Dio. Dio non vuole qualcosa perchè è bene, ma qualcosa è bene perché Dio lo vuole. Vero e falso non si misurano sull’essere, ma sul bene: vero è ciò che è bene, il falso è ciò che è male.

Manca dunque il rispetto del detto del Signore: «la verità vi farà liberi», ma il rapporto è invertito: non è la libertà che dipende dalla verità, ma è la verità che dipende dalla libertà[3]. Ora c’è da notare che ogni istituto religioso nella Chiesa ha i suoi speciali carismi, ma anche difetti umani.

Naturalmente questo è un volontarismo irrazionale, che non troviamo né nel Francescano né nel Gesuita, e quindi neppure nel Santo Padre. È invece il volontarismo di Ockham; ma ho voluto accennare a questa forma estrema per dire che anche quella mitigata, se non moderata, può recare danno.

Per questo gli istituti religiosi devono completarsi a vicenda, ma anche correggersi ed equilibrarsi a vicenda nell’eliminazione dei loro difetti.  Francescani e Gesuiti tendono a un volontarismo che rischia di soggettivizzare la verità; invece l’intellettualismo caratteristico di noi Domenicani è un costante richiamo alla Chiesa e al Papa ad essere fedele alla verità. Ma anche noi Domenicani col nostro intellettualismo, che in se stesso è un valore, non siamo sempre al riparo da tendenze all’astrattismo.

Per questo nel contempo, una certa esclusiva nostra attenzione di noi Domenicani alle verità immutabili ed astratte può isolarci dal contesto storico nel quale viviamo, può farci dimenticare che viviamo nella storia e che l’azione umana è sì applicazione della legge universale, ma in se stessa concretezza e singolarità.

La nostra antropologia, ispirata a San Tommaso e confermata dai dogmi antropologici del medioevo, è indubbiamente valida per tutta la Chiesa, ma questa conoscenza teorica dell’uomo non è sufficiente per raggiungere quella conoscenza delle singole anime e singoli ambienti umani e sociali, che occorre per l’esercizio della pastorale, della guida e del governo della Chiesa e il servizio delle anime nei diversi contesti storico-culturali e ambientali e nella molteplicità e varietà delle situazioni che si moltiplicano sempre nuove nello spazio e nel tempo.

È così avvenuto a partire dal sec. XIII per influsso dell’intellettualismo domenicano e tomista il realizzarsi dell’ufficio petrino secondo un modulo magisteriale, per il quale il Papa cominciò a intendere la sua responsabilità dottrinale come suo dovere primario al di sopra del dovere pastorale di ministro della grazia salvifica sacramentale e del dovere di essere testimone della carità di Cristo. L’affermazione dogmatica e la difesa della verità contro l’errore cominciò a prevalere sulla promozione della santità e l’esercizio della misericordia.

Dai Papi intellettuali ai Papi pastorali

Grande trionfo dell’intellettualismo tomista domenicano e scolastico si è avuto al Concilio di Trento e al Vaticano I. La redazione del Catechismo di Trento fu affidata a quattro teologi domenicani. Il Sant’Uffizio, presieduto da un Domenicano, divenne la più importante della Congregazioni Romane. Il Papa si valeva permanentemente della stretta collaborazione del cosiddetto «teologo dei sacri palazzi», un Domenicano.

Tuttavia avvenne che, per un’estrapolazione scolastica del tomismo e della predicazione domenicana, l’insegnamento dell’eterno, del dogma, dell’assoluto, dell’immutabile e dell’universale si separò dall’attenzione all’evolversi dei tempi e delle vicende storiche, agli sforzi e sofferenze degli uomini, delle culture e delle religioni nella conquista della verità e del bene.

Perché Ignazio non si è fatto domenicano? Perché egli interpretò l’impresa luterana sotto l’angolo della disobbedienza al Papa, Ignazio si rese conto che occorreva fondare un istituto che prendesse decisioni operative immediate ed efficaci agli ordini di quel Pontefice contro il quale Lutero si era ribellato trascinando con sé interi popoli fino ad allora soggetti al Papa.

In realtà Lutero, più che una questione di obbedienza al Papa, faceva una questione di verità, anche se poi partiva da una nozione volontaristica, occamista e soggettivistica della verità: qual è il vero Vangelo? Quello del Papa o il suo? Lutero credeva di aver riscoperto il vero, originario Vangelo ricoperto e adulterato dalla scolastica domenicana favorita dai Papi a fini di dominio sulla Chiesa.

I Domenicani, dal canto loro, avevano capito benissimo questa istanza di fondo della ribellione luterana, ma, speculativi come erano, , non  erano in grado di far fronte efficacemente al dilagare dell’eresia ed alla dissoluzione della Chiesa. Ignazio capì che occorrevano uomini di azione. Ecco il pregio del volontarismo ignaziano.

Così il sorgere della Compagnia di Gesù nel sec. XVI segna l’inizio della svolta pastorale che raggiunge il culmine con Papa Francesco, il primo Papa gesuita, mentre noi Domenicani abbiamo avuto ben quattro Papi domenicani: il Beato Innocenzo V, Benedetto XI, San Pio V e Benedetto XIII.

I secoli dal XVII al XIX segnano una progressiva separazione del Papato e del suo influsso dalla maturazione progressiva del mondo moderno, il quale fa apparire nuovi valori sulla scena della storia nel campo del sapere e dei costumi morali, valori i quali però, nati fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica, sono dai suoi nemici utilizzati contro di essa. Sarebbe stata necessaria un’opera di assunzione critica di questi valori, pur scartando gli errori. Ma purtroppo fino alla fine del sec. XIX quest’opera urgente e importante di ammodernamento era ancora da fare.

La svolta epocale

È così che si giunse alla crisi modernista dei tempi di San Pio X. Da una parte tanti filosofi, teologi ed esegeti avvertivano in m modo indilazionabile la necessità di un confronto col mondo moderno. Dall’altra i tomisti domenicani influenti presso il Papa, davano al Papato, al ministero petrino l’impronta del loro  intellettualismo, finchè non si è giunti a San Giovanni XXIII, con la svolta pastorale che egli dette al ministero di Pietro, per mezzo del Concilio, per la quale oggi il Papa mette la cura pastorale al di sopra del ministero dottrinale.

I Gesuiti e non i Domenicani, come era avvenuto nei precedenti Concili, dominarono al Vaticano II. I Domenicani, anziché seguire l’ottima ispirazione del Maritain, si lasciarono deviare dalla corrente di Schillebeeckx, che proponeva un’assunzione indiscriminata modernistica della modernità.

La crisi della Compagnia di Gesù

Quello che difficilmente si riesce a capire è come potuto accadere che nel corso dei lavori conciliari e subito dall’immediato postconcilio nella Compagnia abbia trionfato la corrente dei rahneriani, i quali hanno stravolto lo stile essenziale ed originario della Compagnia sostituendo il principio dell’obbedienza con quello della libertà, il principio cartesiano della coscienza al posto di quello biblico della verità, princìpi desunti dalla teologia luterana ed hegeliana.

Certo restiamo nel campo del volontarismo. Ma la sostituzione della libertà all’obbedienza e della coscienza alla verità è il segno di una concezione della morale e quindi dell’uomo non più soggetto a Dio, ma, come diceva Marx al seguito di Hegel, l’uomo che è Dio a se stesso. Qui il volontarismo arriva all’estremo della nicciana «volontà di potenza». Il Gesuita è ancora Gesuita?

Questo fenomeno esplose alla XXXII Congregazione della Compagnia nel 1974[4], quando sotto il generalato del Padre Pedro Arrupe si trattò di adeguare la legislazione della Compagnia alle decisioni del Concilio. In quell’occasione San Paolo VI, che da tempo si era accorto che la Compagnia stava deviando, fece un discorso di calda esortazione e paterno rimprovero, ma non se la sentì di dare ordini.

Così ì rahneriani, col pretesto che non avevano ricevuto ordini formali di correggersi dalle loro eresie, si ritennero dispensati dall’obbedire al Papa, ed anzi ebbero modo di rafforzare ulteriormente le loro posizioni, finchè si giunse al Pontificato di San Giovanni Paolo II.

Dopo il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, che probabilmente aveva intenzione di sopprimere l’Ordine[5], il nuovo Pontefice raccolse questo proposito del suo Predecessore, per cui, appena giunto al soglio pontificio, aveva in animo di sopprimere la Compagnia, se non fosse stato distolto dal Cardinale Casaroli Segretario di Stato[6]. E comunque nel 1983 il Papa dovette risolversi a deporre Padre Arrupe sostituendo, al comando dell’Ordine col Padre Paolo Dezza.

Ma purtroppo a tutt’oggi la Compagnia è ancora sotto l’influsso dei rahneriani e, benché il Papa abbia fatto l’anno scorso un forte richiamo alla fedeltà a San Tommaso, a fatica si intravede uno spiraglio di luce.

Il Concilio di Trento.

Disciplina severa ma anche esempio di saggezza pastorale

Viceversa, appena finito il Concilio di Trento i Padri del Concilio ebbero la consapevolezza dell’urgenza pastorale di dare subito in mano ai parroci l’esposizione sana di quella dottrina che Lutero aveva corrotto. Per questo essi vollero l’immediata pubblicazione del Catechismo, così da consentire al popolo di Dio la conoscenza completa delle verità di fede, corrotte da Lutero.

E i Papi della riforma tridentina poterono lanciare i Gesuiti obbedientissimi a alla riconquista dei popoli traviati da Lutero e a porre freno alla diffusione delle eresie. Invece alla fine del Concilio Vaticano II purtroppo Paolo VI mancò di questa intuizione pastorale e tempestività che seppero avere i Padri di Trento. Fu così che i modernisti olandesi, sotto l’ispirazione di Schillebeeckx, pubblicarono il nefasto Catechismo Olandese, che Paolo VI divette purgare di numerose eresie.

Così, se il Catechismo di Trento fu redatto da quattro campioni Domenicani della fede, noi Domenicani in occasione del Vaticano II, se si eccettua Congar e pochi altri, non siamo stati all’altezza della nostra missione e abbiamo contribuito a diffondere il modernismo nella Chiesa, dando ad intendere che quella era l’interpretazione delle dottrine del Concilio.

Il Catechismo veramente del Concilio fu pubblicato 30 anni dopo il Concilio, quando ormai si era diffuso il Catechismo modernista olandese. Alcuni con amarezza hanno osservato che si è chiusa la stalla quando i buoi erano scappati. Adesso non è facile ottenere che questi fratelli scismatici o eretici rientrino in comunione con la Chiesa, perché si considerano l’ala più avanzata.

Fino al Vaticano II noi Domenicani abbiamo aiutato i Papi nell’aspetto dottrinale del loro ufficio apostolico, ma abbiamo favorito un’eccessiva severità e una pastoralità troppo polemica nei confronti della modernità. Il Concilio, grazie al contributo di Gesuiti e Francescani, ha aiutato il Papato ad acquisire una pastoralità più evangelica e più incarnata nel contesto storico nel quale stiamo vivendo.

Ma ecco che attualmente si fanno sentire gli effetti dissolventi di un pragmatismo o prassismo pastorale non illuminato sufficientemente da una visione teologica e che quindi rischia di risolversi in un’operosità secolaresca, la quale, anziché stimolare la santità e aprire le vie del regno di Dio, si adagia, si perde e si affanna nei meandri e nei labirinti di questo mondo.

Occorre che noi Domenicani torniamo ad offrire luce, certezze, chiarezza, ragioni, onestà intellettuale, motivazioni, apertura di mente, nobiltà di pensiero, attitudine alla speculazione, ampiezza di sguardo, prospettive trascendenti, senza per questo sminuire in nulla il contributo essenziale del volontarismo operoso francescano-gesuita, così da tornare da offrire ai Papi quel sostegno dottrinale del quale hanno bisogno per svolgere il loro ufficio di maestri della fede.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 30 giugno 2024

La spiritualità di questo Papa è del tutto inedita nella storia del Papato: il primo Papa gesuita, non solo, ma un Papa che ha operato una sintesi che parrebbe quasi impossibile fra la spiritualità ignaziana e quella francescana, notoriamente assai distanti: la prima, per l’esaltazione delle virtù umane, soprattutto la capacità di militare nella buona battaglia contro le forze sataniche e i nemici della Chiesa. E difatti nessun Papa come questo ci ha insegnato a sventare le insidie del demonio. La seconda, per l’umile coscienza della propria povertà condivisa con i poveri nella diffidenza per le arti dell’umana dottrina, sapienza e potenza, paga della coscienza della propria figliolanza del Padre unita al cantico delle creature.

Ma ecco che attualmente si fanno sentire gli effetti dissolventi di un pragmatismo o prassismo pastorale non illuminato sufficientemente da una visione teologica e che quindi rischia di risolversi in un’operosità secolaresca, la quale, anziché stimolare la santità e aprire le vie del regno di Dio, si adagia, si perde e si affanna nei meandri e nei labirinti di questo mondo.

Occorre che noi Domenicani torniamo ad offrire luce, certezze, chiarezza, ragioni, onestà intellettuale, motivazioni, apertura di mente, nobiltà di pensiero, attitudine alla speculazione, ampiezza di sguardo, prospettive trascendenti, senza per questo sminuire in nulla il contributo essenziale del volontarismo operoso francescano-gesuita, così da tornare da offrire ai Papi quel sostegno dottrinale del quale hanno bisogno per svolgere il loro ufficio di maestri della fede.

Immagine da Internet: da https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2018-09/papa-gesuiti-irlanda-guarire-ferite-abusi.html

[1] Ê questa la gnoseologia di Blondel.

[2] Ê questo il senso profondo e ultimo del cogito cartesiano.

[3] Questa è la concezione cartesiana, schopenhaueriana, hegeliana, marxista, heideggeriana e nicciana della verità.

[4] Narra i fatti il Padre Gesuita Antonio Caruso, mio carissimo amico e collega d’Ufficio alla Segreteria di Stato negli anni n’80, nel suo libro Tra grandezze e squallori, Edizioni VivereIn, Monopoli (BA), 2008.

[5] Alcuni anni fa un sacerdote amico del Patriarca Luciani mi confidò che Luciani gli disse, prima di andare al Conclave dal quale sarebbe uscito Papa, che se lo avessero eletto avrebbe soppresso la Compagnia. La morte improvvisa ha impedito al venerato Pontefice di attuare il suo progetto poche settimane prima che sia riunisse la XXXIII Congregazione per la quale aveva preparato un severissimo discorso di richiamo.

[6] Vedi del Gesuita Malachi Martin, I Gesuiti. Il potere e la segreta missione della Compagnia di Gesù nel mondo in cui fede e politica si scontrano, SugarCo, Milano 1988. Questo libro me lo regalò Padre Caruso.

4 commenti:

  1. "Oggi si ricordano i Protomartiri romani. Anche noi viviamo in un tempo di martirio, ancor più dei primi secoli." Angelus, 30.06.2024

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    1. Caro Anonimo,
      le parole del Santo Padre mi hanno colpito. Certamente si sarà riferito innanzitutto agli islamici e probabilmente ai regimi dittatoriali.
      Anche noi, che vogliamo vivere in pienezza la nostra vita cattolica “senza piegare né a destra né a sinistra” dobbiamo portare pazienza. Magari non subiremo danni fisici, tuttavia dobbiamo essere pronti a subire derisioni, incomprensioni, ingiurie, ingiustizie ed emarginazione. Come dice il proverbio: ne ferisce più la lingua che la spada.
      Anche chi vuole essere veramente fedele a Papa Francesco dev’essere pronto a subire offese sia da parte degli indietristi che da parte dei modernisti.
      Tuttavia è molto bello soffrire insieme con Cristo e per amore di Cristo.

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  2. "Oggi si ricordano i Protomartiri romani. Anche noi viviamo in un tempo di martirio, ancor più dei primi secoli. In varie parti del mondo tanti nostri fratelli e sorelle subiscono discriminazione e persecuzione a causa della fede, fecondando così la Chiesa. Altri poi affrontano un martirio “coi guanti bianchi”. Sosteniamoli e lasciamoci ispirare dalla loro testimonianza di amore per Cristo." Le parole del Papa alla recita dell’Angelus, 30.06.2024

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    1. Caro Anonimo,
      le parole del Santo Padre mi hanno colpito. Certamente si sarà riferito innanzitutto agli islamici e probabilmente ai regimi dittatoriali.
      Anche noi, che vogliamo vivere in pienezza la nostra vita cattolica “senza piegare né a destra né a sinistra” dobbiamo portare pazienza. Magari non subiremo danni fisici, tuttavia dobbiamo essere pronti a subire derisioni, incomprensioni, ingiurie, ingiustizie ed emarginazione. Come dice il proverbio: ne ferisce più la lingua che la spada.
      Anche chi vuole essere veramente fedele a Papa Francesco dev’essere pronto a subire offese sia da parte degli indietristi che da parte dei modernisti.
      Tuttavia è molto bello soffrire insieme con Cristo e per amore di Cristo.

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