Guido Mattiussi e Joseph Maréchal
Due Gesuiti in contrasto fra di loro su Kant
alle origini del modernismo
Terza Parte (3/3)
La dottrina kantiana della conoscenza
può conciliarsi con quella di San Tommaso?
Negli anni seguenti alla pubblicazione dell’enciclica nella Compagnia di Gesù apparvero due dotti Gesuiti, prima il Padre Guido Mattiussi e successivamente il Padre Joseph Maréchal, i quali, accortisi che l’enciclica Pascendi era sostanzialmente una messa in guardia contro gli errori di Kant, che col pretesto dell’ammodernamento della teologia, erano penetrati fra i cattolici, assunsero due atteggiamenti opposti: Mattiussi dette giustificazione degli errori kantiani condannati dall’enciclica, mettendo in luce l’agnosticismo di Kant dovuto al suo fenomenismo e principio del suo immanentismo, per cui lo contrappose a San Tommaso, mentre Maréchal, forte di diligentissimi studi kantiani e di una buona preparazione tomista, si dette a elaborare una tesi audace, preparata dalla pubblicazione di ben cinque libri, pieni di una ricchissima erudizione storico-critica, secondo la quale tesi, salve restando le condanne papali, era tuttavia possibile trovare un punto di convergenza fra la filosofia di San Tommaso e quella Kant, in quanto, secondo il Maréchal il metodo trascendentale kantiano potrebbe essere «trasposto» in termini di realismo gnoseologico tomistico.
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Maréchal sembra trovare un principio di realismo e quindi di aggancio a San Tommaso in Kant non tanto nella cosa in sé, elemento di indubbio realismo rimasto in Kant, quanto piuttosto in quello che egli chiama «finalismo o dinamismo dell’intelletto», per cui l’intelletto in ogni suo giudizio possederebbe uno slancio o una tensione immediata verso l’assoluto, idea, questa, che in realtà non esiste né in Kant né in Tommaso, i quali connettono come è giusto il conoscere e l’attività dell’intelletto al pensiero, alla causa formale ed alla rappresentazione e non al moto, all’azione o alla causa finale, propria della volontà.
È indubbio che l’intelletto ha un fine, che è quello di conoscere la verità. Ma ci pensa la volontà a dirigere l’intelletto a conseguire il suo fine, che è il suo bene; e l’intelletto muove la volontà al conseguimento del fine; ma non è che l’intelletto abbia per conto suo una forza o una spinta per cui si muova verso il suo fine a somiglianza di un soggetto agente che si avvicina a una meta. Tutto questo dinamismo appartiene alla volontà.
L’intelletto raggiunge il suo fine semplicemente in un atto che è l’atto di un atto e non di una potenza. L’atto dell’intelletto è l’identificazione del pensare col pensato, atto istantaneo e intemporale. È la potenza intellettiva che passa dalla potenza all’atto, ma non l’atto del conoscere. Questo è istantaneo e sovratemporale, a differenza dell’atto della volontà che, per muovere un corpo, si svolge nel tempo.
Mattiussi, esplicitando l’accusa di agnosticismo fatta dall’enciclica, mette in luce il fatto che Kant, nel momento in cui vuol eliminare il dubbio, l’agnosticismo e lo scetticismo, vi cade dentro, giacchè distrugge proprio ciò che gli serve per costruire, nega il criterio stesso che gli serve per giudicare, nega il termine di paragone che gli serve per fare il confronto. È ciò che mette in rilievo il Mattiussi.
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