La psicologia del beffardo - Scherza con i fanti e lascia stare i santi

 

La psicologia del beffardo

Scherza con i fanti e lascia stare i santi

La Sacra Scrittura ha una forte polemica contro i beffardi[1], della quale nella corrente teologia morale non si tiene gran conto. Anzi esiste la convinzione diffusa che il prendere in giro qualcuno o lo scherzare sulle cose di religione o dottrinali o morali non presenti nulla di male e sia semplicemente una cosa divertente e spiritosa. Si pensa che la persona che si sente offesa o per l’attacco personale o per l’attacco alle sue convinzioni religiose o morali sia un tipo dalle vedute rigide o ristrette, permaloso, «che non sta stare allo scherzo».

La religione cristiana nella sua lunga storia è sempre stata oggetto di irrisione non solo da parte dei pagani, ma anche dagli stessi ebrei che non hanno accettato Cristo.

L’irrisione dell’ebraismo anticristiano la ritroviamo nella recente sceneggiata blasfema all’inaugurazione delle Olimpiadi a Parigi, allorchè la protagonista dell’empio spettacolo si è dichiarata con tono di sfida ebrea e fiera di esserlo, non certo come degno membro del popolo eletto da Dio, ma come discendente di quei farisei e dottori della legge che hanno fatto mettere in croce Cristo.

Così in realtà, se noi riflettiamo su chi è veramente il beffardo e su cosa lo spinge alla sua condotta biasimevole, ci accorgeremo che alla radice di essa si trova una profonda corruzione del suo spirito, che ad uno sguardo superficiale, che considera solo della sua bonarietà ed allegria, non appare.

Il beffardo è uno che conosce la verità rivelata, conosce le verità di fede, conosce le leggi di Dio, ma non le prende sul serio, non le fa sue, non le considera seriamente ed assolutamente come regola, criterio e norma di base del suo pensiero, il centro delle sue preoccupazioni e dei suoi interessi, il fondamento e senso della sua esistenza e del suo destino, non è ad esse attaccato in modo assoluto, ma è pronto a negoziare e a venderle per scambiarle con altri valori che gli fanno comodo. Le professa solo quando gli garba, quando vuol far bella figura di sapiente o animo pio, sa che gli conviene e non gli procura noie ma successo. È quindi anche un ipocrita.

Gli manca la forza di sostenerle, giustificarle e difenderle, se ciò gli procura danno da parte dei nemici della verità. È molto ammirato dai comodini, dai doppi, dai lassisti e dagli opportunisti. Non vuol soffrire per la verità. Se si accorge di ciò accantona sollecitamente la verità e accontenta chi la nega.

Non si cura di avvertire chi va fuori strada dando così l’impressione di essere un animo superiore, comprensivo, aperto e liberale che concede a tutti la propria libertà. Si oppone solo a coloro che sono convinti nella fede e combattono gli errori. Questi gli danno un enorme fastidio, perché costituiscono un rimprovero alla sua coscienza, li prende in odio e per questo li calunnia, li ignora, li prende in giro come fossero dei fissati, presuntuosi, gretti, dalle corte vedute, intolleranti, asociali, musoni, dogmatici, arretrati, rigidi e schiavi dei loro pallini.

Notiamo che il far ridere gli altri di per sé è una cosa buona. È una vera arte. Tuttavia, quando non ci si preoccupa del motivo per il quale li si fa ridere, gli animi superficiali e frivoli considerano questa come una virtù o il segno di un animo tranquillo, estroso e socievole, che sa rendersi simpatico e gradevole.

In realtà il beffardo non è, nonostante le apparenze in contrario, un animo realmente sereno, ma uno spirito livoroso, angosciato, accartocciato o ripiegato su sé stesso, che non prende niente sul serio all’infuori di sé stesso aggrappandosi spasmodicamente a sé stesso.

Il beffardo è un soggetto insicuro, che non ha trovato o non vuol trovare la vera certezza, per cui la sua non è la certezza naturale, serena ed oggettiva che nasce dall’adesione alla verità, ma è una certezza artificiosa, forzata e soggettiva che nasce dalla volontà.

Su cosa basa le sue convinzioni e la sua condotta morale? Egli è anzitutto preoccupato della propria autoaffermazione ed autocompiacimento. Il resto ha per lui il senso e la funzione di fare da teatro alle sue recite, è materia per la sua creatività ed è funzionale all’esibizionismo di chi giudica tutto senza essere giudicato da nessuno.

Il beffardo non ha risolto il problema della verità o diciamo che lo ha risolto male. Il suo bisogno di certezza non lo ha soddisfatto semplicemente adeguando il suo pensiero al reale, ma con una decisione della volontà: è vero non ciò che è, ma ciò che decide lui.

Il suo bisogno di libertà prevale sul bisogno di verità. Infatti nella conoscenza della verità l’intelletto è necessitato dall’evidenza o dalla dimostrazione. L’intelletto, se vuole essere nel vero è obbligato a rappresentare nei concetti e nei giudizi le cose come sono.

Invece la volontà è libera. Può formare il suo giudizio sulla realtà liberamente, come vuole, indipendentemente da come stanno effettivamente le cose in realtà. Per questo, ciò che per il realista è menzogna, per il beffardo è la verità, ossia la sua verità, la verità come la decide lui, non tenendo conto come il realista di ciò che è. Quello che pare al beffardo è per lui ciò che è.

Non si preoccupa di verificare, come fa il realista, se ciò che sembra a lui è la verità, nel timore di sbagliarsi. Per lui lo sbaglio è l’ingenuità del metodo del realista, di supporre cose che gli stanno davanti già belle e fatte, di supporre un essere esterno al pensiero, presupposto al pensiero, indipendente dal pensiero e regola della verità del pensiero.

Quando Nietzsche dice che la verità è un errore, che il mondo vero non esiste e che la verità consiste nel mentire, rispecchia esattamente questo far dipendere la verità non dall’intelletto, ma dalla volontà: «è vero ciò che io decido esser vero e se la realtà non corrisponde a quello che dico io, tanto peggio per la realtà». È il decisionismo al posto del realismo. La verità non nasce da un atto di obbedienza al reale, ma da un atto di comando.

Heidegger fa notare che per Nietzsche l’essere è la volontà di potenza. Se dunque il vero è l’essere, il vero sarà il potere sull’essere. È dal 1966 che m’interesso di Heidegger. L‘ho studiato in lungo e in largo con la massima attenzione e tutta la benevolenza possibile. Ma ancora, dopo infiniti discussioni e confronti, a tutt’oggi devo dire che fatico a capire che cosa egli intende per essere, verità e conoscenza.

Troviamo in lui influssi dei filosofi tra di loro più disparati e contrastanti, dai presocratici ai contemporanei. Ma, guarda caso, sono assenti i Santi Padri e i Dottori della Chiesa, in particolare Tommaso d’Aquino. Quale differenza fra la luminosità, il buon senso, la profondità, la coerenza di questi e i contorcimenti, le parole ingarbugliate o aggrovigliate, le forzature di senso, le insinuazioni, gli equivoci, le stranezze di Heidegger!

Certo, ogni tanto c’è qualche sprazzo di luce, qualche osservazione vera e saggia, qualche parola suggestiva, ma quando dopo tanta fatica a seguirlo, ti pare di aver capito, ecco che ti avverte che intendeva dire tutt’altro!

Alla fine il giudizio migliore su di lui lo trovo nel grande studioso dello gnosticismo, Hans Jonas. Se dovessimo rimandare il pensiero di Heidegger ad un solo nome, questo è Nietzsche, al quale negli anni del nazismo Heidegger ha dedicato un ponderosissimo ed accuratissimo studio di 900 pagine, molto di più di qualunque altro al quale Heidegger ha prestato attenzione. Ebbene, dice Jonas:

 

«Ad Heidegger si poteva rimproverare qualcosa di molto grave: il formalismo assoluto della sua filosofia della decisione, nella quale il decidere in quanto tale era la suprema virtù. … In Hitler, nel nazionalsocialismo e nella “riscossa”, nella volontà di iniziare un nuovo Reich, addirittura millenario, egli vide tutte cose che meritavano l’approvazione e che per un certo tempo identificò col suo stesso sforzo di trovare un autentico inizio, di risalire, dalla china di quel filosofare che si allontanava sempre più dalle origini, a qualcosa che fornisse un nuovo punto di partenza. Egli identificò il carattere deciso in quanto tale – il Führer e il partito - col principio della decisione e della risolutezza in quanto tale. Quando io, disgustato, mi resi conto che non si trattava solo di un traviamento personale, ma di una cosa che aveva un qualche fondamento nel suo pensiero, mi si rivelò il carattere sospetto dell’esistenzialismo in quanto tale: cioè l’elemento nichilistico che si trovava in esso»[2].

Il prendere in giro le cose divine, lo scherzare su di esse, la mancanza di serietà nel trattare di cose sacre o di valori morali, il divertirsi alle spalle altrui, il provar gusto nel fare i furbi con Dio, il deridere e farsi beffe dei pii, dei semplici e degli onesti, l’ironizzare laddove occorrerebbe rispetto, sono segno di stoltezza, superbia, doppiezza e malvagità. Sono per l’uomo le peggiori sciagure che gli possono capitare, presagi e cause di perdizione, come in molti modi ci avverte la Bibbia.

Se merita riprovazione l’odio, ancor peggio è il disprezzo. Chi odia dà, se non altro, importanza a ciò che odia. Lo prende in considerazione e per questo lo combatte e gli si oppone. Ma chi disprezza non dà neppure importanza al nemico, come fosse qualcuno circa il quale non c’è che da ridere.

Come correggere il beffardo? Occorre dargli il buon esempio. Non bisogna confondere il ridere col deridere. Saper scherzare è un’arte importante, utile in società. non facile, che suppone senso delle circostanze, una buona conoscenza della scala dei valori e una forte capacità di comunicazione, per render gradevole ed amabile la convivenza e la vita comune.

Occorre esprimersi in modo che l’altro capisca che stiamo scherzando; lo scherzo deve essergli comprensibile e gradito. Bisogna evitare di scherzare con persone permalose, che possono fraintendere o prendersela a male. Se abbiamo l’impressione di essere derisi sforziamoci possibilmente di interpretare in bene le intenzioni di chi ci ha punto.

Ci sono diversi modi di scherzare e occorre saperli usare a seconda delle circostanze e delle persone che abbiamo davanti. Il saper scherzare è una vera arte o sapienza, anzi un dono di Dio. Anche nella tristezza il santo sa scherzare.

Il ridiculum secondo San Tommaso. L’Aquinate, mentre condanna con tono grave e serio certi errori gravissimi o eresie, ama prendersi gioco di certe posizioni di avversari per la grossolanità dei loro errori. Tale grossolanità però appare alla finezza della sua acuta mente critica. Oggi presso certi teologi accademici queste cose verrebbero prese sul serio e sostenute con tono solenne.

Saper scherzare è un servizio di carità fraterna, allenta le tensioni e rende lode a Dio. La vera allegria e il vero buon umore si trovano tuttavia solo nelle persone che sanno quali sono le cose serie circa le quali non si può scherzare.

L’allegria del beffardo è spocchia e spavalderia. Soltanto coloro che sanno quali sono le cose serie sanno quali sono le cose veramente ridicole. Solo costoro sanno veramente ridere di quel riso che, come si dice, fa buon sangue. Il beffardo non ha il vero senso del ridicolo, prende seriamente ciò di cui occorre ridere. È dall’alto delle cose serie che si può vedere in basso il ridicolo. Il beffardo, invece, ossia il mondano, non vede la ridicolaggine di queste cose terrene perchè le ingrandisce come fossero valori assoluti.

Osserviamo infine che Dio si fa beffe di chi si fa beffe di lui, come recita il Salmo 2: «Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo Messia: “Spezziamo le loro catene, gettiamo via i loro legami”. Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall'alto il Signore» (vv.2-4).

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 9 luglio 2024

Il beffardo non ha risolto il problema della verità o diciamo che lo ha risolto male. Il suo bisogno di certezza non lo ha soddisfatto semplicemente adeguando il suo pensiero al reale, ma con una decisione della volontà: è vero non ciò che è, ma ciò che decide lui.


Il suo bisogno di libertà prevale sul bisogno di verità. Infatti nella conoscenza della verità l’intelletto è necessitato dall’evidenza o dalla dimostrazione. L’intelletto, se vuole essere nel vero è obbligato a rappresentare nei concetti e nei giudizi le cose come sono.

Invece la volontà è libera. Può formare il suo giudizio sulla realtà liberamente, come vuole, indipendentemente da come stanno effettivamente le cose in realtà. Per questo, ciò che per il realista è menzogna, per il beffardo è la verità, ossia la sua verità, la verità come la decide lui, non tenendo conto come il realista di ciò che è. Quello che pare al beffardo è per lui ciò che è.

Quando Nietzsche dice che la verità è un errore, che il mondo vero non esiste e che la verità consiste nel mentire, rispecchia esattamente questo far dipendere la verità non dall’intelletto, ma dalla volontà: «è vero ciò che io decido esser vero e se la realtà non corrisponde a quello che dico io, tanto peggio per la realtà». È il decisionismo al posto del realismo. La verità non nasce da un atto di obbedienza al reale, ma da un atto di comando.

Saper scherzare è un servizio di carità fraterna, allenta le tensioni e rende lode a Dio. La vera allegria e il vero buon umore si trovano tuttavia solo nelle persone che sanno quali sono le cose serie circa le quali non si può scherzare.

Immagine da Internet:
- Un figurino ottocentesco di Rigoletto

[1] Vedi Gb 17,2; Pr 1,22; 3,34; 9,7; 9,12;14,6; 19,29; 21,11; 22,10; 29,8; Sir 33,6; Is 29,20; II Pt 3,3.

[2] Da Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, a cura di E. Kettering e G. Neske, Edizioni Guida, Napoli, 1992, p.249.

2 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,

    Interessante affondo su una piaga con cui siamo confrontati quotidianamente noi cattolici, oggi come ieri. Bisogna però che le segnali che l'opera di Pranaitis è un concentrato di interpretazioni tendenziose fatte da un autore che non gode di alcuna autorevolezza e la cui opera può essere tranquillamente catalogata come un falso storico di tendenza virulentemente antisemita. Cf: https://fr.wikipedia.org/wiki/Justin_Bonaventure_Pranaitis
    Penso che rimuovere il riferimento sarebbe utile al prestigio degli altri argomenti che lei presenta.

    Suo in Cristo,

    Pietro

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    1. Caro Pietro,
      la ringrazio per questa segnalazione. Ho provveduto a togliere la nota.
      Mi aveva colpito il fatto che questo prete cattolico, da come risulta dal libro, aveva ricevuto l’imprimatur dal vescovo Cozovsky, prelato domestico di Papa Leone XIII, sempre che la notizia sia vera.

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