Lo sbaglio di Cartesio - Seconda Parte (2/2)

 

Lo sbaglio di Cartesio

Seconda Parte (2/2)

 Il vero oggetto della metafisica

Cartesio ha un concetto sbagliato della metafisica. Nella metafisica non devo parlare di me stesso, ma dell’ente. Non devo dare fondamento al mio io, ma all’ente. Non devo parlare della mia esistenza, ma dell’esistenza dell’ente. Oggetto della metafisica non è l’io, ma l’ente.

In metafisica, non interessa un ente particolare, ma l’ente in universale, la totalità dell’ente, il principio di ogni ente. Il mio io m’interessa se devo curare la mia salute o compiere i miei doveri morali. Ma allora questo non è il campo della metafisica ma della mia condotta personale.

La metafisica certamente deve stabilire il principio più sicuro sul quale si basa tutto il nostro sapere. Ma il principio più sicuro non è che io esisto. Il principio più sicuro è che un ente non può essere e non essere simultaneamente sotto il medesimo aspetto, per cui ogni ente è quel determinato ente e non altro, ossia il principio d’identità e che per conseguenza io non posso assegnare e negare ad un tempo del medesimo ente il medesimo attributo. Il che è il principio di non contraddizione.

Il principio di non-contraddizione è connesso col principio di adeguazione o di rappresentazione. Aristotele infatti fa notare che l’essere e il non essere si possono dire secondo il vero ed il falso.

«Per quanto riguarda le cose, l’essere come vero e falso consiste nel loro essere unite o nel loro essere separate» rispettivamente nel giudizio affermativo e negativo, «sicchè sarà nel vero chi ritiene essere separate due cose effettivamente separate ed essere unite le cose che effettivamente sono separate ed essere unite le cose che effettivamente sono unite: sarà, invece, nel falso, colui che ritiene che le cose sono in modo contrario a come effettivamente stanno. Allora, quand’è che si fa un’affermazione vera oppure una falsa? Bisogna esaminare che cosa intendiamo con questo».

Qui Aristotele intende dire che il nostro pensiero o le nostre idee sono misurate sulle cose o sugli enti. Non è, come credeva Protagora, che il nostro pensiero sia la misura delle cose, ma sono le cose ad essere la misura del nostro pensarle affinchè siamo nel vero.

Aristotele peraltro precisa che noi però possiamo misurare o calcolare le matematicamente le dimensioni delle cose, supponendole comunque già esistenti indipendentemente da noi. Così dunque Aristotele prosegue e conclude:

«non perché noi ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero»[1].

Il realismo ci dice che se ho una sensazione di caldo, essa è vera se il calorifero è caldo. Se ho una sensazione di caldo, potrà essere segno che il calorifico è caldo; potrò dedurre da questa sensazione che il calorifico è caldo, ma resta il fatto che io sento il caldo perché il calorifico è caldo e non è che il calorifico è caldo perchè ho una sensazione di caldo. Ma il calorifico è caldo perché è stato acceso e io posso avere una sensazione di caldo semplicemente perché ho la febbre. Il fatto che il calorifico scaldi non dipende dalla mia sensazione di caldo, ma dall’energia elettrica che alimenta il calorifico.

Per Cartesio posso essere certo di provare una sensazione di caldo, ma non posso esser certo del fatto che essa sia causata dall’esistenza di un calorifico fuori di me, perché per lui, come è noto, i sensi ingannano, per cui non posso dare per evidente l’esistenza di cose fuori di me, ma devo dimostrarla partendo dalla mia coscienza di esistere e di possedere le idee innate delle cose e di Dio.

Tre dunque sono i princìpi dell’affermazione o del giudizio: 1. non si deve affermare e negare nello stesso tempo (principio di non-contraddizione); 2. si devono affermare o rappresentare le cose come sono (principio di rappresentazione o di verità); 3. perché ogni cosa ha una sua identità (principio di identità, non può essere e non essere simultaneamente). Sul piano conoscitivo le nostre idee devono essere conformi alle cose sensibili e intellegibili. Solo sul piano pratico l’azione o l’opera può essere conforme alla nostra idea.

È inevitabile rifarsi a questi princìpi nel momento in cui si pensa, per poter esercitare il pensiero e per l’enunciazione di qualunque tesi o la formazione di qualunque giudizio. Quindi, se il principio del cogito ha un valore, lo ha in nome di questi princìpi. Per questo la volontà di Cartesio di sostituirli comporta la conseguenza che il cogito distrugge sé stesso.

Cartesio invece si permette di affermare che

 «il principale e più ordinario errore che si possa trovare nei giudizi consiste in ciò che io giudico che le cose le quali sono in me, siano simili o conformi a cose che sono fuori di me, poiché certamente, se considerassi le idee solamente come modi o maniere del mio pensiero, senza volere riportarle ad altro, ben difficilmente mi potrebbero dare occasione di errore»[2].

Per lui è un errore credere che le nostre idee o sensazioni rappresentano cose fuori di noi. Noi possiamo esser certi di avere idee e sensazioni, ma non del fatto che esse abbiano per oggetto cose delle quali esse sono fedeli rappresentazioni.

È ovvio che un giudizio è errato se non corrisponde a come stanno le cose, ma è contradditorio affermare che è un errore credere che le nostre sensazioni e idee delle cose siano rappresentazioni delle cose. Infatti Cartesio, per sostenere questa tesi come vera, è costretto a sostenere o a presupporre che questa sua tesi è conforme alle cose sensibili e intellegibili così come sono.

La tesi di Cartesio che oggetto diretto del sapere sono le idee e non le cose, porterà come conseguenza la tesi della gnoseologia idealista tedesca che oggetto del pensiero non è il reale esterno, ma è lo stesso pensiero; il pensiero non pensa l’essere ma pensa se stesso, perché l’essere è l’autocoscienza di essere; non dunque  il pensiero dell’essere, ma solo del pensato: in sostanza, la coincidenza del pensare con l’essere, che è già adombrata nel monismo parmenideo del to autò to einai kai to noèin[3], del quale già Aristotele si accorge, quando osserva come per Parmenide «ciò che l’uomo pensa è della stessa natura delle sue membra corporee»[4]. E San Tommaso, nel suo commento a questo passo, osserva che per Parmenide «la disposizione delle membra del corpo è adatta all’operazione dell’intelletto»[5].

Le regole del metodo della metafisica

1. La ricerca della verità richiede l’utilizzazione di tutto quanto già sappiamo, non solo di certo, ma anche di probabile. Il probabile dev’essere verificato.

 

2. Se abbiamo qualche dubbio, dobbiamo vedere se esso è o non è fondato o giustificato. Se si risolve, bene; se no, pazienza. Ma non può essere un dubbio circa i primi princìpi di identità, causalità e finalità, perchè essi sono assolutamente evidenti e noti a tutti. Appaiono però ogni tanto cose dubbie, circa le quali si può discutere, e dove, pertanto, almeno per il momento, occorre rinunciare a prender posizione, per cui dobbiamo sospendere il giudizio. È importante saper distinguere ciò di cui è ragionevole dubitare da ciò su cui è stolto dubitare. Dubitare su tutto è un’ipotesi che si può prendere in considerazione, per scartarla immediatamente come non esercitabile o impraticabile.

 

3. Per giungere alla nozione dell’ente, oggetto della metafisica, occorrono tre gradi di astrazione[6]. Occorre imparare la nozione analogica e partecipativa dell’ente. Bisogna partire dalla nozione dell’ente singolo mobile sensibile e quantitativo, tratto dall’esperienza sensibile. Cartesio, che nega la veracità del senso, blocca sul nascere l’ascesa dell’intelletto all’essere, dando l’illusione all’io di essere il centro, la totalità, il principio e il vertice della realtà. La metafisica non si chiede chi sono io, ma che cosa è l’ente, ti to on?

 

4. Non bisogna aver fretta di giudicare. L’essere è oggetto d’intuizione, ma come effetto di un giudizio di esistenza. Bisogna anche assentire quando la verità sensibile o intellegibile è evidente o dimostrata. Non bisogna assolutamente dubitare di ciò che è certo ed evidente.

 

5. Non si deve assolutamente dubitare dell’esistenza della verità e della possibilità di conoscerla, perché Dio ci ha creati come fatti per la verità e capaci di conoscerla, per cui il rifiuto volontario del concetto di verità e della verità stessa è un grave colpa morale ed è un peccato di ipocrisia e di falsità, ispirata dal demonio, come risulta dalle stesse parole di Cristo[7], quel demonio, che è il bugiardo per eccellenza.

6. Non dobbiamo dimostrare ciò che è evidente al senso, come per esempio l’esistenza delle cose materiali, o all’intelletto, come per esempio il principio stesso del processo dimostrativo, il principio di non-contraddizione. Non dobbiamo dare per evidente ciò che dev’essere dimostrato, come per esempio l’esistenza di Dio.

7. Bisogna distinguere le cose dalle idee delle cose. Le cose sono create da Dio; le idee le produciamo noi per conoscere le cose. La dottrina delle idee non serve per arrivare a cogliere le cose partendo dalle idee come oggetto immediato del sapere. Ma serve per spiegare come e perché conosciamo le cose: io mi rendo conto di conoscere quella data cosa e che essa è immaterialmente in me. Come è possibile questo? Perché mi formo un’idea della cosa, che è una similitudine immateriale della cosa nella mia mente.

Questo è il discorso sensato da fare per sapere qual è il rapporto delle nostre idee alle cose. Non dobbiamo scambiare il mezzo o il modo del conoscere, come il concetto, l’idea o il giudizio con l’oggetto del conoscere, ossia le cose, gli enti, la realtà.

8. Non possiamo partire dalla consapevolezza dell’esistenza di noi stessi in atto di pensare, per quanto sia cosa indubitabile, perché a ciò arriviamo solo partendo dall’esperienza delle cose sensibili, e riflettendo sulle idee che ce ne siamo fatte, passando successivamente alla presa di coscienza del nostro intelletto che le ha conosciute. Solo a questo punto possiamo prender coscienza del nostro io pensante (cogito) ed esistente (sum).

9. Per fare metafisica è sufficiente la nozione dell’ente, anche senza il possesso della nozione dell’io. Essa serve invece alla psicologia, alla coscienza morale e a regolare la propria condotta personale.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 9 settembre 2024


Aristotele intende dire che il nostro pensiero o le nostre idee sono misurate sulle cose o sugli enti. Non è, come credeva Protagora, che il nostro pensiero sia la misura delle cose, ma sono le cose ad essere la misura del nostro pensarle affinchè siamo nel vero.

Aristotele peraltro precisa che noi però possiamo misurare o calcolare le matematicamente le dimensioni delle cose, supponendole comunque già esistenti indipendentemente da noi. Così dunque Aristotele prosegue e conclude:

«non perché noi ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero».

Bisogna distinguere le cose dalle idee delle cose. Le cose sono create da Dio; le idee le produciamo noi per conoscere le cose. La dottrina delle idee non serve per arrivare a cogliere le cose partendo dalle idee come oggetto immediato del sapere. Ma serve per spiegare come e perché conosciamo le cose: io mi rendo conto di conoscere quella data cosa e che essa è immaterialmente in me. Come è possibile questo? Perché mi formo un’idea della cosa, che è una similitudine immateriale della cosa nella mia mente.

Immagine da Internet: Minerva, Claude Michel (Clodion)

[1] Libro Theta, c.10, 1051 b 1-5.

[2] Meditazioni metafisiche, Edizioni Laterza, Bari 1968. P. 97.

[3] «La stessa cosa è il pensare e l’essere». Alcuni però hanno voluto interpretare nel senso che Parmenide si riferisse all’identificazione intenzionale di pensiero ed essere propria dell’atto conoscitivo. In tal caso saremmo su posizioni realiste.

[4] Libro Gamma, c.V, 1010 a 24.

[5] Commento alla Metafisica di Aristotele, l.IV, c.V, n.676, Edizioni Marietti, Torino-Roma 1964, p.187.

[6] Vedi Benoît-Marie Simon, Esiste un’«intuizione dell’essere»? Edizioni ESD, Bologna, 1995, pp.14-18; J. Maritain, Sept leçons sur l’être, Téqui, Paris 1934, pp.88-96; Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Bruges 1959, pp.427-430: A. Lobato, Ontologia, Pars prima, Apud Pontificiam Univesitatem S. Thomae, Roma 1991, pp.104-106.

[7] «Il vostro parlare sia sì, sì; no, no. Il resto appartiene al diavolo» (Mt 5,37).

3 commenti:

  1. Caro Padre,
    ho letto con interesse il suo articolo. Rimango stupito di come l'idealista possa credere che larealtà sia praticamente prodotta dal proprio pensiero e come possa dubitare dei sensi. Mi pare che questa posizione porti a non pochi paradossi. Ad esmpio: esistono tante realtà quanti sono gli uomini? Se ogni uomo pensa che laraltà risieda nel proprio pensiero deve essere per forza così. Un altro esempio più pratico direi, potrbbe essere quello del colore del semaforo, se ognuno ha una propria reltà potrebbe accadere che alcuni interpretino il rosso al posto del verde con evidenti effetti catastrofici. Ma tutto ciò, ovviamente, non avviene; non dovrebbe essere una prova convincente dell'infondatezza dell'idealismo? Come risolvono i realisti queste evidenti contraddizioni? Senza tenere conto che le evidenze scientifiche ci mostrano chiaramente che Dio ha creato leggi per governare l'universo che agiscono indipendentemente dall'essere umano.

    Cari saluti,

    Giuseppe

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    1. Intendevo dire come gli idalisti (non i realisti) risolvono le contraddizioni

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    2. Caro Giuseppe,
      lei dovrebbe considerare il fatto che gli idealisti non sono così citrulli dal confondere la loro immaginazione con la realtà, perché in questo caso avrebbero bisogno di essere ricoverati come sofferenti di allucinazioni. Questo vuol dire che l’idealista sa benissimo utilizzare il realismo per le cose materiali che gli interessano.
      La sua confusione del pensiero con l’essere non riguarda le esigenze della vita quotidiana, ma tocca il piano della metafisica, della teologia e della gnoseologia, dove l’idealista considera il proprio io come la determinazione o finitizzazione o apparizione fenomenica ed empirica dell’Io Assoluto o Pensiero Assoluto identico all’Essere Assoluto, cioè praticamente Dio. Per questo l’idealismo comporta il panteismo.
      Per quanto riguarda il problema della veracità dei sensi, anche su questo piano l’idealista sa ben destreggiarsi, perché a sua volontà sa utilizzare benissimo il realismo, per quanto riguarda la conoscenza delle cose materiali. Invece lo scetticismo nel campo del senso lo utilizza quando fa il filosofo, immaginando sé stesso come identico all’Io Assoluto. È chiaro che in questo modo egli può permettersi di dubitare dei sensi, in quanto è evidente che l’Io Assoluto è puro spirito, che non ha assolutamente bisogno di ricorre alla esperienza sensibile per attuale la propria Autocoscienza.
      Come si confuta l’idealismo? Lo ha già fatto Aristotele con Protagora: si tratta di dimostrare che anche l’idealista, per sostenere come vera la propria dottrina, è costretto a ricorrere al realismo, ossia ad una concezione della verità come adeguazione al reale, mentre l’idealista avrebbe la pretesa che il reale sia prodotto dal suo pensiero. Quindi l’idealista si confuta da solo e non occorre neppure confutarlo dall’esterno. Si tratta di una specie di suicidio del pensiero, perché l’idealista per sostenere sé stesso si basa su quel principio realista, che egli vorrebbe negare col suo idealismo.

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