La luce della sofferenza
Giobbe e Gesù Cristo
Prima Parte (1/2)
Siamo naturalmente
portati a respingere
la sofferenza
in noi e negli altri
La nostra
natura avverte la sofferenza come qualcosa di odioso e ripugnante, per cui è
portata spontaneamente a combatterla, fuggirla ed evitarla o quanto meno, se
non la può allontanare o se non se ne può liberare, se non la può vincere o
eliminare, cerca di alleviarla o diminuirla. Importante virtù è la pazienza o
sopportazione della sofferenza, sopportazione ottenuta con vari mezzi, tra i
quali molto importante è quello di trovare una ragione alla sofferenza, giacchè
il sapere il perché qualcosa accade, è sempre per noi animali ragionevoli,
fonte di piacere.
Il sadismo e
il masochismo, la crudeltà, l’autolesionismo, il gusto di soffrire e far
soffrire, l’amore per il dolore come tale, sono inclinazioni perverse bisognose
di cura psichiatrica o abominevoli vizi contro natura, sono peccati gravi
contro il legittimo bisogno di felicità, di piacere, di godimento e di
benessere, contro il sano e naturale amore di se stessi e del prossimo.
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Una
tentazione può essere quella di considerare come un male assoluto non il
peccato, ma la sofferenza. Si crede che Dio non vuole nessun male, né il male
di colpa né il male di pena, né castighi, né penitenze, né rinunce, né sforzi,
né sacrifici.
Per gli
antichi pagani la sofferenza c’è perchè è giusto, è divino che ci sia. Il dio stesso,
come ognuno di noi, è soggetto al Fato o al Destino. Non bisogna fare domande o
accuse al Fato, ma si deve semplicemente accettarlo, perchè comunque uomini e
dei fanno per forza la sua volontà.
I
pagani, in particolare gli stoici, conclusero che la sofferenza non può e non
dev’essere tolta, perché è divina.
Invece la Bibbia ci insegna a non
rassegnarci al male, a chiamarlo col suo nome. La Bibbia ci insegna che le vere
sventure, le vere disgrazie non sono gli incidenti di macchina o i terremoti o
le epidemie o i lutti o le umiliazioni, ma il fastidio per le cose dello
spirito, la sordità alla Parola di Dio, il disamore per le virtù, l’attaccamento
al peccato, la mancanza di compassione per i sofferenti, la pigrizia nel fare
il bene, il badare solo a se stessi.
Il
personaggio biblico Giobbe, uomo innocente colpito dalla sventura, capisce
subito come la sofferenza può essere mandata da Dio: «Il Signore ha dato, il
Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,21). Ciò vuol dire
che se è mandata da Dio che è buono, può non essere una cosa cattiva, può non
essere un male.
Dunque
un Dio che manda la sofferenza non è un Dio cattivo. Ma se la manda, vuol dire
che ci sarà un perché la manda, giacchè Dio non può far nulla di irragionevole
o senza motivo.
Tuttavia Giobbe non riesce a capire questo perché o questo motivo. Allora si
fida di Dio. E ragiona così: se Dio che è buono mi manda la sofferenza, che
però è un male che mi ripugna e che sento di non meritarmi perchè sono
innocente, vorrà dire che o la trasforma in bene o che comunque può essere
buona e benefica.
Immagine da Internet: Giobbe, Marc Chagall