Lutero e Cartesio
I motivi di un’alleanza
Seconda Parte (2/3)
Il principio della coscienza
Lutero e Cartesio, con la loro esagerata attenzione all’io, sono ricaduti nell’antico soggettivismo di Protagora, già confutato da Aristotele. E tuttavia nel contempo hanno messo maggiormente a fuoco il mistero e la dignità della coscienza; hanno gettato su di essi una nuova luce sul potere di verità morale (Lutero) e speculativa (Cartesio) della coscienza individuale (l’io). E in ciò si ha il passaggio dalla gnoseologia medioevale alla gnoseologia moderna, con importantissime conseguenze nella morale, nell’ordinamento della società e della Chiesa e nella comprensione della dignità della singola persona umana.
Considerando il nostro stato d’animo quando esprimiamo un giudizio o un parere, Aristotele distingue l’opinare dal sapere, l’opinione dalla scienza. Esprimo un’opinione, quando non sono del tutto sicuro di quello che dico, propendo per una tesi, ma ammetto che mi potrei sbagliare e che potrebbe esser vera la tesi opposta. Questa è l’esperienza del dialettico.
Dò invece o esprimo un parere o un giudizio scientifico, dò mostra di sapere, quando so dimostrare rigorosamente quello che dico o perché mi trovo davanti all’evidenza o all’esperienza, per cui se sono certo di quello che dico, so che non potrebbe essere altrimenti e posso dimostrarlo e non ho timore di sbagliare. So o sono certo o sicuro di non sbagliare o di non ingannarmi.
Ma Aristotele non ha chiarito quegli stati psicologici nei quali noi proviamo un senso di sicurezza o di certezza, eppure, senza accorgercene, siamo in errore. Se vedo un bastone spezzato nell’acqua non ho affatto l’impressione di potermi sbagliare. Eppure, tirando fuori dall’acqua il bastone, mi accorgo che stavo sbagliando.
Si tratta di quello stato psicologico per il quale diciamo che uno è in buona fede, per cui siamo pronti a scusarlo se commette un peccato credendolo un’azione buona, perchè non sa che è peccato. In tal modo Gesù in croce perdonò i suoi uccisori (Lc 23,34), perché non sapevano quello che facevano, cioè non si rendevano conto dell’enormità del peccato che stavano commettendo. Eppure non ne ebbero colpa, appunto perché sbagliavano in buona fede o, come si dice, per «ignoranza invincibile», un’ignoranza che non può essere vinta o tolta o superata perché manca, senza colpa dell’agente, la conoscenza, non essendo istruito rettamente in materia o perché involontariamente ha frainteso.
L’ignoranza invece è colpevole e la si dice «affettata», quando il soggetto ignora intenzionalmente e quindi maliziosamente, quando cioè sa che quell’atto è peccato e tuttavia lo commette lo stesso perché gli piace. Il linguaggio popolare dice: «l’ha fatto apposta», mentre quando c’è la buona fede, dice: «l’ha fatto senza volere». Nel primo caso giustizia vuole che il colpevole sia punito; nel secondo, misericordia vuole che sia scusato.
Il principio della buona fede o errore involontario, che si potrebbe chiamare principio di coscienza, conduce in gnoseologia a inserire la coscienza fra l’opinione e la scienza, sicchè avremo questi tre modi di giudicare: il giudizio di opinione o di probabilità, per il quale dò un giudizio, ma non sono certo, potrei sbagliare; il giudizio di coscienza o in buona fede, per il quale mi sento certo e sbaglio senza rendermene conto. Esso dà una certezza soggettiva relativa al soggetto; il giudizio di scienza, per il quale sono certo, so di non sbagliare e perché non sbaglio. Esso dà una certezza oggettiva assoluta, indipendente dal soggetto. È il giudizio di scienza o evidenza.
Il giudizio che diamo in buona fede dà sicurezza in modo simile a quello nel quale noi vediamo la verità. Nei due casi non c’è timore di sbagliare a differenza dell’opinione, dove c’è il timore di sbagliare. Tuttavia il giudizio di coscienza assomiglia all’opinione, perché il soggetto, una volta che viene illuminato sulla verità, si accorge di aver sbagliato, mentre ciò è impossibile nel giudizio di verità, che può essere o di ragione o di fede. Per esempio, quando la Chiesa in passato puniva con la morte gli eretici, era in buona fede. Mentre se dico che 2 più 2=4, lo dico non perché sono in buona fede, ma perché vedo la verità.
Anche il giudizio di fede teologale ha questa natura, ed anzi la sua certezza è ben superiore a quella della scienza non però per una necessità razionale, ma per l’autorità infallibile di Dio rivelante.
Le conseguenze del principio della buona fede nell’ordine giudiziario e nella legislazione civile ed ecclesiastica sono notevoli. Abbiamo qui il principio della libertà religiosa o di coscienza. Questo principio era già noto a San Tommaso[1]. E certamente bisogna dire che nel diritto civile ed ecclesiastico del suo tempo, erede della saggezza giuridica romana, non erano ignorati valori come la tolleranza, la mitigazione, la clemenza e l’indulgenza. Ma la Chiesa e la società di allora non erano ancora giunte a quella consapevolezza alla quale esse – bisogna pur dirlo – giunsero sotto l’urto traumatico eppur salutare dell’io luterano e cartesiano.
Infatti il punto della morale tomista, di cui ho parlato sopra, che superava Aristotele ed attingeva al Vangelo, fu assai scarsamente recepito nel diritto penale ecclesiastico e civile del suo tempo, perché nello stabilire le pene ci si limitava a riferirsi alla distinzione aristotelica fra scienza ed opinione.
Ciò induceva il giudice ad esser facile a dare un giudizio di colpevolezza quando c’erano le prove che l’imputato avesse effettivamente commesso il delitto, mentre era assai scarso l’interesse per capire se il reo aveva agito in buona o cattiva fede. Bisogna dire allora che il fatto che Lutero e Cartesio abbiano puntato l’attenzione con tanta forza sulla questione della coscienza individuale è stato un potente aiuto alla psicologia, il diritto, alla morale, alla gnoseologia, alla filosofia, alla teologia, alla spiritualità, alla Chiesa e alla società per comprendere meglio, alla luce del Vangelo, la dignità, le condizioni e i limiti del giudizio di coscienza davanti alla coscienza stessa, davanti a Dio, alla Chiesa e alla società.
Oltre a ciò bisogna dire che questa migliore conoscenza della responsabilità dell’individuo ci ha aiutato a comprendere meglio le condizioni psichiche della malattia mentale, così da poter distinguere negli atti del malato di mente ciò che può essere imputato alla sua responsabilità e ciò che invece esula dalla sua volontà per essere computato tra gli effetti involontari della malattia. In sostanza abbiamo compreso meglio le esigenze della misericordia senza dimenticare quelle della giustizia.
C’è un’affinità fra il pensiero di Cartesio e quello di Lutero
È interessante come entrambi sono nemici di Aristotele, il cui pensiero, purificato da San Tommaso, la Chiesa aveva fatto suo per l’interpretazione della Scrittura e per la formulazione dei dogmi. Non capirono che un legittimo richiamo alla dignità della coscienza e alla libertà dello spirito non richiedeva assolutamente il ripudio del realismo aristotelico-tomista, che la Chiesa ormai aveva fatto suo per sempre.
L’ostilità
di Lutero e di Cartesio nei confronti di Aristotele è simile e verte sulla
concezione della verità. Per Aristotele la questione della verità è
innanzitutto una questione speculativa, che riguarda l’intelletto. La prima
cosa che lo interessa è il contatto con la realtà esterna mediante i sensi e
l’intelletto e rappresentare il reale così com’è, che è ciò che è e non può
essere e non essere simultaneamente e sotto il medesimo riguardo.
Lutero e Cartesio si sono opposti all’orientamento speculativo aristotelico, il quale è in piena linea con la tradizione cristiana e, benché cristiani, hanno creduto di dover dare al pensiero cattolico un orientamento pratico: Lutero, la ricerca della propria salvezza, Cartesio, il dominio sulla natura.
In tal modo essi hanno provocato una svolta epocale nel pensiero europeo, ci hanno consegnato una formidabile eredità culturale, che si potrebbe riassumere in una maggiore attenzione all’importanza dell’operosità dello spirito umano e all’abisso e alla responsabilità della coscienza di ciascuno come atto della persona davanti a Dio.
Volendo riassumere la visione di Lutero e Cartesio in poche parole, potremmo dire: vero è ciò che sembra a me. E se ciò che sembra a me non è ciò che sembra a te? Peggio per te. Non possiamo aver ragione e torto nello stesso tempo. Io ho ragione e tu hai torto. Ma l’altro ha pari diritto di dire lo stesso di se stesso contro di me. Allora ha ragione Hobbes quando dice: homo homini lupus?
Oppure, se vogliamo, io ho ragione ed hai ragione anche tu. È il relativismo liberale. Ma dove va a finire il principio di non-contraddizione? E come accordarsi nella prassi? Ha ragione il più forte? Marx tenterà una soluzione: homo homini Deus. Ma perché dovrebbe essere Dio il mio prossimo e non dovrei esserlo io? D’altra parte, due assoluti come vanno d’accordo? E siamo daccapo.
Come mai la Chiesa non è riuscita a guarire subito le ferite aperte da Lutero e Cartesio? Come mai non è riuscita a confutare i loro errori, così da impedire la loro diffusione? Come mai ancor oggi dopo cinque secoli abbiamo ancora il problema di confutare Lutero e Cartesio, e addirittura ci sono oggi dei cattolici che pensano che la Chiesa si sia sbagliata nel censurarli perché avevano ragione o non sono stati capiti?
Ripensando a quanto è successo in quei tempi drammatici nei quali si è arrivati al punto di fratelli che uccidessero i fratelli in nome di Cristo, e riconsiderando quei fatti alla luce del cammino che la Chiesa ha fatto da allora fino all’evento del Concilio Vaticano II, siamo in grado di dare una giusta valutazione, della quale i contemporanei senza loro colpa o anche con colpa non furono capaci. E il giudizio è il seguente: la reazione della Chiesa è stata troppo dura e si ha la sensazione che vi sia stata una certa mancanza di carità.
Ciò, anziché correggere gli erranti, ha provocato in loro una controreazione che li ha ancora più induriti nell’errore. La Chiesa avrebbe dovuto mettere ogni sforzo nel riconoscere la parte di verità e di giustizia nelle idee di Lutero e di Cartesio, sia pur nella confutazione degli errori, come sappiamo bene oggi dopo il Vaticano II: «non spegnere il lucignolo fumigante e non spezzare la canna fessa» (Mt 12,20).
Il compito o il metodo che oggi la Chiesa, ammaestrata dagli errori del passato (non dottrinali! Non scandalizziamoci!), ci propone e ci promette maggior probabilità di successo, è quello di ammettere il vero che c’è in Lutero e Cartesio, e proprio in nome di questo vero, far capire loro l’errore. A questo punto, se veramente amano la verità, si dovrebbero ravvedere ed anzi dovrebbero ringraziarci per aver loro aperto gli occhi. Se invece continuano a far resistenza, allora dovremo dire con dolore che non c’è buona fede, ma ostinazione. Tutto quello che ci resta da fare è allora affidarli alla misericordia di Dio[2].
Fine Seconda Parte (2/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 6 novembre 2024
I protestanti e gli anglicani, a cominciare da Leibniz e Berkeley, si sono accorti che esiste un’affinità tra il razionalismo di Cartesio e il fideismo di Lutero, per quanto opposti essi siano l’uno all’altro: la fede che fa a meno della ragione e la ragione che fa meno della fede alla fine sono la stessa cosa: la visione diretta dell’Assoluto, la si chiami fede o la si chiami ragione. Se poi questo Assoluto, come in Lutero e in Cartesio, è la mia coscienza, ancora meglio.
Lutero e Cartesio stessi, nel modo stesso di voler proporre rispettivamente la riforma della Chiesa e della filosofia erano infetti da quello stesso soggettivismo protagoreo che era stato alla base dell’umanesimo pagano.
È interessante come entrambi sono nemici di Aristotele, il cui pensiero, purificato da San Tommaso, la Chiesa aveva fatto suo per l’interpretazione della Scrittura e per la formulazione dei dogmi. Non capirono che un legittimo richiamo alla dignità della coscienza e alla libertà dello spirito non richiedeva assolutamente il ripudio del realismo aristotelico-tomista, che la Chiesa ormai aveva fatto suo per sempre.
Immagini da Internnet:
- Dignità, Conti
- Il Quarto Stato, Pellizza
[1] Sum. Theol.,I-II, q,19, aa.5,6; II-II, q.10, a.11.
[2] Alcuni si domandano come mai oggi non si sente parlare come un tempo di conversioni dal protestantesimo al cattolicesimo o da Cartesio ad Aristotele. I motivi sono molteplici. Alcuni pensano che cattolicesimo o protestantesimo, oppure seguire Aristotele o Cartesio non mette in gioco l’alternativa fra la verità e l’errore, ma si tratta semplicemente di due scelte diverse entrambe legittime Altri nel loro concetto di cattolicesimo inseriscono elementi protestanti. Altri credono di restare cattolici pur assumendo elementi protestanti, che sono loro presentati come cattolici. Per esempio, teologi come Schillebeeckx e Rahner passano per essere cattolici, ma in realtà sono filoprotestanti ed hanno successo presso i protestanti. Alcuni pensano che si possa essere tomisti e cartesiani nello stesso tempo, anzi che il fondo del pensiero tomista non sia il realismo, ma l’idealismo.
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