Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Prima Parte (1/5)

  

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Prima Parte (1/5)

 

 Che cosa il modernismo?

 Il termine «modernismo» fu usato per la prima volta nel Magistero della Chiesa da San Pio X nell’enciclica Pascendi del settembre 1907. Egli, per sua stessa dichiarazione, lo assunse dall’uso che già ne veniva fatto dagli stessi modernisti e lo fece proprio, tanto che il sottotitolo dell’enciclica è «circa le dottrine moderniste», per designare appunto i modernisti: «modernisti, con tal nome sono chiamati comunemente costoro e a ragione» (n.4).

Un gruppo degli stessi modernisti, nel novembre di quell’anno, pubblicò un «programma dei modernisti», designando se stesso con quel nome, tuttavia a titolo di vanto e non di biasimo, come invece lo usa il Papa, per difendersi dalle accuse del Papa, per sostenere di non esser stati capiti, ma, come osserva Padre Fabro[1], finirono per difendere i loro errori e confermare in  fin dei conti che sbagliavano.

Come è venuto in mente ai modernisti di designarsi con questo nome? Non è difficile rispondere a questa domanda. Alcuni teologi del sec. XIX, che aumentavano sempre di numero, si erano accorti con sempre maggiore chiarezza che la Chiesa nei suoi pronunciamenti dottrinali e nel modo di promuovere la teologia, non prendeva in considerazione le novità che in campo filosofico e teologico erano sorte o stavano sorgendo ormai da alcuni secoli in Europa.

I viaggi missionari e le esplorazioni geografiche avviati a partire dal sec. XVI avevano fatto conoscere all’Europa culture, costumi e civiltà extraeuropee, ricchi di antichissime tradizioni, come l’India e la Cina.

Nei paesi non-cattolici come l’Inghilterra e la Germania si erano alquanto sviluppati soprattutto a partire dal sec. XVIII gli studi biblici ed erano sorte nuove tendenze filosofiche che utilizzavano il pensiero cartesiano come chiave eventuale di interpretazione del cristianesimo.

I progressi delle scienze e degli studi storici ed archeologici avvenuti a partire dal sec. XVII offrivano interessanti temi e problemi al lavoro dei teologi. Le ricerche filologiche e letterarie avevano prodotto migliori conoscenze degli antichi sapienti pagani. Nel sec. XVIII si era avuto il fenomeno dell’illuminismo, con la tematica propria dei diritti umani e della democrazia,  tematica che aveva interessato i moralisti e teologi.

Lo sviluppo delle scienze sociali e antropologiche del sec. XIX apriva nuovi orizzonti allo sviluppo dell’economia e della giustizia sociale e sollecitava una maggiore attenzione alla dignità della donna.

Il Concilio di Trento dal canto suo, aveva proposto bensì una vigorosa autentica riforma della Chiesa, aveva rinsaldato le convinzioni di fede aggredite dalle eresie di Lutero, aveva dato alla Chiesa un nuovo slancio missionario, ma aveva portato la Chiesa a chiudersi nella propria autoconservazione rompendo i rapporti col mondo protestante che nei secoli seguenti avrebbe mostrato una vitalità filosofica e teologica tale da aprire nuovi orizzonti, registrare nuove scoperte e da proporre nuovi valori, che occorreva discernere, vagliare, purificare, assumere e integrare nella vita della Chiesa universale.

L’enciclica Pascendi si limita ad elencare gli errori dei modernisti, senza far alcun nome né di modernista né di filosofo della modernità al quale essi si ispiravano. Non è difficile comunque riconoscere qualcuno come per esempio Hume, Rousseau, Schleiermacher, Darwin, Von Harnack, Dilthey, Comte, Renan, Spencer, James, Sabatier, Bergson. Si tratta soprattutto del mondo protestante. I modernisti non avevano allora l’audacia di assumere pensatori ancora più lontani dal cristianesimo come i modernisti di oggi, che attingono a Marx, Hegel, Nietzsche, Freud e il pensiero indiano.

Il riferimento principale, a mio modo di vedere, era Kant. Tutta la grande battaglia era attorno a Kant come grande maestro della «filosofia moderna», degno successore ed erede del fondatore, Cartesio. I riferimenti al kantismo sono evidenti laddove sono condannati il fenomenismo, l’agnosticismo, il soggettivismo, l’immanentismo.

Quanto ai modernisti, l’istanza che la Chiesa assumesse quanto di buono era stato scoperto dalla filosofia moderna e dalle scienze umane, che riconoscesse quanto di valido si trovava nella teologia protestante, nonchè nelle culture, religioni e civiltà scoperte dalle attività missionarie ed esploratrici, la necessità di addolcire pratiche pastorali ed ascetiche troppo severe, tutto ciò era una giusta istanza, e bisogna dar atto che esisteva nei modernisti.

Ciò che faceva loro difetto era il possesso di criteri di giudizio e di valutazione basati su di una solida e integrale fede cattolica, nell’osservanza del metodo di studio e di far teologia prescritti dalla Chiesa, mentre essi tendevano ad assumere in blocco e senza discernimento o in base a criteri sbagliati tutta la modernità per il solo fatto che era modernità, come fosse stata tutta oro colato, trascurando il fatto che bisogna sì ammodernarsi ed essere moderni, ma a patto che questa modernità sia edificante, giacchè, se non lo è, è meglio tornare a quanto di buono c’è nell’antico: insomma, una specie di fanatismo e idolatria della modernità e da qui l’appellativo di «modernisti» che si sono meritati e che essi stessi, pensando fosse titolo di gloria, vollero attribuirsi.

Subito dopo la Pascendi apparve chiaro che il problema di cosa assumere e cosa rifiutare della modernità e in particolare di Kant, restava aperto. Mentre i Domenicani soprattutto in Francia davano il via a un serissimo impegno tomistico, i Gesuiti si impegnarono con molta serietà nell’affrontate la modernità. Qui era in gioco soprattutto il problema Cartesio: cosa assumere e cosa respingere.

Reazioni cattoliche alla Pascendi

L’enciclica stimolò i tomisti a mostrare come la vera critica della conoscenza debba basarsi sui princìpi di San Tommaso e non su quelli di Kant, mostrando l’infondatezza della critica kantiana. Così fecero per esempio i Gesuiti Paul Geny e Joseph de Tonquédec, il Gredt, il Gilson, il Maritain, il Roland-Gosselin, il Gardeil, il Verneaux, il Toccafondi. Buone critiche all’idealismo furono quelle del Cordovani, dello Zacchi e del Chiocchetti.

A Lovanio il Card. Mercier affrontava Cartesio, mentre il Gesuita Joseph Maréchal affrontava Kant con uno sforzo di recupero del positivo, nonostante le severe condanne della Pascendi. Invece il confratello Guido Mattiussi nel 1914 pubblicava una critica troppo severa a Kant, dal significativo titolo Il veleno kantiano[2] .

Tuttavia il Mattiussi ha il grande merito della formulazione delle famose XXIV Tesi tomiste, che, approvate da Papa Pio X, raccolgono sistematicamente e deduttivamente i princìpi, i procedimenti e le tesi fondamentali e principali della filosofia di San Tommaso. Queste tesi illustrate con inoppugnabile rigore logico e basate sulla più palmare evidenza sperimentale mostrano il valore oggettivo e universale e lo statuto scientifico della filosofia e della metafisica, sicchè qui la filosofia non appare tanto come opera personale di San Tommaso, come una filosofia tra la altre, quasi che vi sia facoltà di scelta fra le filosofie così come si sceglie un luogo di vacanze o un paio di scarpe, ma come patrimonio comune e perenne dell’umanità, come scienza della ragion pura, che ha valso a S.Tommaso il titolo datogli da Pio XI di Doctor communis Ecclesiae, dottrina adatta alla formulazione del dogma cattolico.

Occorre dire tuttavia che purtroppo mentre Mattiussi non riuscì ad apprezzare lo sforzo kantiano di edificare la metafisica come scienza, il Maréchal poco dopo l’opera del Mattiussi si illuse di poter ricavare il realismo tomista dall’idealismo di Kant interpretato in senso volontaristico come dinamismo dell’intelletto che, mosso dalla volontà, tende aprioricamente a partire dal cogito cartesiano come a suo fine alla verità.

Occorre dire pertanto che Maréchal cade vittima della falsa distinzione modernista fra metodo «antico», «oggettivista», che sarebbe il realismo tomista e metodo «moderno», che sarebbe l’idealismo, quello «trascendentale» nel senso kantiano. Per Maréchal sono validi entrambi ed anzi reciprocamente complementari nel concepire la critica della conoscenza.  Secondo lui queste concezioni sono entrambe vere e si possono «trasporre» l’una nell’altra per raggiungere il «medesimo risultato». Non si accorge che la visione tomista è quella giusta, mentre quella cartesiano-kantiana, per quanto non priva di aspetti validi, è sbagliata. 

Maréchal non si accorge che la critica cartesiano-kantiana della conoscenza non è affatto «moderna», ma è una ripresa dell’antico soggettivismo di Protagora, già confutato da Aristotele, vero e immortale giustificatore della certezza cognitiva, e vero fondatore della metafisica. D’altra parte, il concetto aristotelico della verità, della conoscenza e della ragione non è affatto il concetto degli «Antichi», ma è la nozione naturale e necessaria della conoscenza, che la ragione umana elabora riflettendo sull’atto del conoscere.

C’è quindi da notare con dispiacere che Maréchal, appena quindici anni dopo la condanna del modernismo da parte di San Pio X, non si è accorto o non ha voluto accorgersi di restare tributario dell’idolo modernista, ossia della concezione modernista della modernità. E meraviglia alquanto che la sua visione non abbia suscitato significativi interventi da parte della Chiesa. Scrive così egli infatti:

 

«La critique ontologique des Anciens part des “objets” envisagés selon la plénitude de leur objectivité, c’est-à-dire posés absolument, comme Fins éventuelles (choses), et de là procède au classement théorique de leurs Formes (essences, définies à travers les  phénomènes sensibiles).  Elle se donne un asbsolu objectif et y rattache le Relatif»[3].

In realtà nel realismo tomista le cose stanno così: Tommaso parte dalle cose sensibili, delle quali c’è assoluta certezza, come fini eventuali della volontà, e da esse procede alla classificazione delle loro forme o essenze principali definite per mezzo dell’esperienza sensibile. Tommaso sa così di trovarsi davanti a entità relative che rimandano ad un assoluto.

Continua Maréchal:

 

«La critique transcendantale des Modernes part aussi des objets, mais considérés d’abord, précisément, selon leurs «formes» (comme phénomènes). Si cette Critique s’appliquait à justifiquer, plus complètement encore, qu’elle ne le fait, la signification objective revêtue par les phénomènes dans la conscience, elle devrait retrouver, sous la Forme même, l’affirmation des Fins. Par le Relatif, présent dans la conscience, elle découvrirait l’Absolu ontologique.

 

La Critique ancienne se confond avec la systématisation métaphysique et ne s’achève qu’avec elle: c’est la voie longue de la critique, mais c’en est aussi, selon nous, le procédé naturel.

 

La Critique moderne prétend dégager d’abord, des conditions internes de la connaissance, la méthode essentielle et les points de départ nécessaires de toute métaphysique. Elle constitue une épistémologie préliminaire à la métaphysique, une métaphysique en puissance; c’est, peut-on dire, le raccourci de la critique. Ella repose d’ailleurs sur un artifice de méthode: le point de vue phénoménologique – artifice légitime, mais qui se détruit évidemment lui-même, dès qu’il conduit à faire reconnaître l’affirmation métaphysique sous les phénomènes. Or, nous croyons qu’il peut conduire jusque là.

 

Ces deux méthodes critiques, abordant, sous des angles complémentaires, le même objet total, doivent, poussés à fond, livrer finalement des conclusions identiques; car la Critique ancienne pose d’emblée l’Objet ontologique, qui inclut le Sujet transcendantal; et la Critique moderne s’attache au Sujet transcendantal, qui postule l’Objet ontologique,

 

S’il est vraie que la Critique ontologique et la critique transcendantale, quoique différents par le point de vue sous lequel elles envisagent d’abord l’objet connu, convergent de droit vers un même résultat final: une métaphysique dynamique, la conclusion s’impose, semble-t-il que d’une Critique à l’autre doivent exister des correspondances étroites, permettant de traiter l’une comme une simple transposition de l’autre»[4].

Per chi conosce come me da decenni Aristotele e Tommaso come realisti e Cartesio e Kant nel loro idealismo, assai difficilmente riconoscerà nella descrizione che ne fa Maréchal la loro posizione. Egli descrive in realtà un realismo e un idealismo con termini e concetti di suo conio, che non è dato rintracciare negli autori da lui sottintesi, per cui non si capisce come poi egli abbia riscosso tanto successo nella sua arbitraria interpretazione fin da fondare una cosiddetta «scuola marechaliana», il cui ultimo e più importante seguace è Karl Rahner, con la sua «esperienza trascendentale atematica preconcettuale dell’essere, dell’io e di Dio».

Probabile motivo di tanto successo è dato dal fatto che si è creata una corrente di filosofi e teologi sedicenti cattolici, i quali danno ragione a Kant e interpretano San Tommaso in modo da metterlo d’accordo con Kant.

Io però mi chiedo: come partendo dal cogito ottenere il realismo? Come dall’idea dedurre il reale? Come dall’immanenza arrivare alla trascendenza? Come dal pensare si raggiunge l’essere? Il vero è nell’intelletto; il bene è nella realtà. Ma se non colgo innanzitutto l’ente o la realtà esterna sensibile, come può questa apparirmi vera, buona e desiderabile? Come posso col mio volere tendere ad essa come ad un fine?

Maréchal crede di poter trovare il realismo grazie all’intelletto che si muove verso il bene. Ma il fatto è che il moto del volere è impossibile se prima l’intelletto non ha colto il reale. La volontà non può dare nessun impulso realistico a un intelletto prigioniero del cogito cartesiano.

Infatti per Maréchal in ogni nostro atto intellettuale col quale cogliamo le cose esterne è sempre implicito un tendere dell’intelletto al vero, che è il suo bene, ossia  Dio:

 

«Toute connaissance objective renferme, entre une représentation directe, toujours relative à des objets matériels donnés , une “position absolute d’être” ou, si l’on préfère, un rapport implicite de l’objet phénoménal  à l’Absolu, unité suprême et fin dernière»[5].

 

«En discernant … l’opposition de l’objet et du sujet, dans l’opposition  même du but et de la tendance, la réflexion fait apparaître la “forme” consciente (le conoscibile in actu) comme dédoublée entre deux sujets d’inhérence, entre l’en soi d’une activité subjective et l’en soi d’une fin objective.  Puis, s’attachant aux actes successifs de l’intelligence, la réflexion y découvre, par une véritable expérimentation intérieure, la corrélation d’un dynamisme fondamental partout en action et d’une fin dernière subjective partout espérée.

 

Or, à moins de nier l’être et d’adopter la contradiction, l’aveu d’une fin dernière subjective, nécessairement volue, entraîne l’affirmation d’une fin dernière objective nécessairement existant. A ce moment, non seulement nous connaissons implicitement, mais nous lisons clairement et explicitement dans les conditions à priori des nos primitives aperceptions d’objets, la révélation, d’abord latente, de l’être absolu comme fin universelle»[6] .

Osserviamo che Dio fine ultimo può essere oggetto e fine della nostra tendenza volontaria solo dopo che siamo giunti a sapere che Egli esiste applicando in modo analogico il principio di causalità e non come se il concetto e l’essenza di Dio ci fossero noti, e fossero affermati sia pur implicitamente, nel giudizio che diamo sulle cose nella nostra esperienza quotidiana. Tutt’al più questa esperienza può supporre quella dell’ente o dell’essere, ma niente affatto quella dell’essere divino.  

Come osserva giustamente il Gilson, o l’intelletto è realista immediatamente fin dall’inizio del conoscere o il realismo non lo si ottiene più. Nel cogito è possibile entrare partendo da fuori e allora si può uscire per cogliere il reale. Ma se si parte dal cogito dubitando del reale, il reale non lo si coglie più. Un ponte lo possiamo costruire se vediamo l’altra sponda. Solo allora potremo passare dall’una all’altra sponda, alternare la conoscenza (diretta) alla coscienza (riflessa). Ma se non la vediamo non possiamo costruire nessun ponte. Se invece vediamo e riconosciamo le cose fuori di noi, allora possiamo costruire il ponte fra loro e il nostro intelletto. Ma se l’intelletto sta per principio chiuso in se stesso, non può raggiungere la realtà esterna, perché non ha una direzione verso la quale muovere ed è tentato di credere che tutto l’essere si risolva nell’io.

Così bisogna dire francamente che il trascendentale tomista e quello kantiano non sono rispettivamente il trascendentale antico e quello moderno, come crede Maréchal, ma il primo è quello vero e il secondo è falso. Non si può fondare la metafisica sulla volontà, ma solo sull’intelletto. La volontà stia al suo posto preziosissimo, ma non pretenda di sostituirsi all’intelletto o di invadere il suo campo, se non vuol procurare la rovina di entrambi e con ciò stesso dell’uomo.

Kant si appropria indebitamente del termine «trascendentale» dandogli un senso, che non corrisponde effettivamente a ciò che il termine originariamente significa. Probabilmente Kant deve aver trovato il termine in qualche trattato di metafisica scolastica. In Cartesio, Leibniz e Wolff non compare. Meno che meno in Locke e Hume.

Kant si è accorto che il termine è usato dagli Scolastici per designare alcune proprietà dell’ente: unum, verum e bonum. Ma egli ne accenna con disprezzo come di una puerilità medioevale e passa subito oltre. Tuttavia egli resta colpito dal termine e intuisce vagamente che si riferisce a qualcosa di certo, assoluto, fondante, primario, originario, universale, onnicomprensivo e sovracategoriale.

Con la sua critica della ragione egli crede allora di aver trovato il vero trascendentale, peraltro non ammettendone sei, come aveva fatto San Tommaso[7], ma uno solo, che sarebbe appunto il cogito o io penso o «appercezione trascendentale».

Senonchè Kant non capì che l’io o lo spirito o il pensiero o la ragione non possono aspirare ad essere l’unico trascendentale, come se da solo dovesse coprire tutto l’orizzonte dell’essere o del reale. Certo i trascendentali relazionali suppongono lo spirito, che, come dice San Tommaso, è «quell’ente che è atto ad entrare in relazione con ogni ente»[8]. Per cui il vero è l’ente in quanto sta davanti  all’intelletto e il buono è l’ente in quanto sta davanti alla volontà.

Similmente a quanto aveva fatto Maréchal con Kant, alla neonata Università Cattolica di Milano Mons. Francesco Olgiati affrontava con altrettanto rischio Cartesio. Purtroppo qui le cose non andarono del tutto bene, considerando che da questo indirizzo uscirono Bontadini e, quel che è peggio, Severino.

Oggi viceversa, che assistiamo da sessant’anni ad un modernismo ancora peggiore, nessuno tiene a dichiararsi modernista o riconosce di esserlo, ma il guaio è che gli indietristi falsificano il significato di questo nome attribuendolo a coloro che favoriscono il progresso e la riforma e sono amanti del nuovo, a chi non lo merita, come per esempio il Papa o le dottrine del Concilio Vaticano II.

Oggi questo termine è usato quasi esclusivamente dagli indietristi e dai filolefevriani spesso a sproposito, perché lo usano contro i cattolici progressisti, quando invece, se l’amore al progresso è virtù, il modernismo è eresia. L’uso di questo termine è consigliabile per designare coloro che si appellano a sproposito alle dottrine del Concilio o dei Papi del postconcilio, anche se essi rifiutano di riconoscersi in quella categoria.

I modernisti chiamano «filosofia moderna» l’idealismo nato da Cartesio, mentre la filosofia precedente, da loro giudicata superata e non più accettabile, la chiamano con titoli o di tono spregiativo, come «filosofia scolastica», «oggettivista», «greca», «dualista», «medioevale», «realismo ingenuo» o, come Bontadini, in tono di tollerante condiscendenza, «filosofia classica», con ciò stesso negando il valore perennemente attuale della filosofia di San Tommaso, che per loro non è affatto il Doctor communis Ecclesiae, ma l’esponente di una particolare filosofia, come nella Chiesa c’è spazio anche per molte altre.

Viceversa, per i modernisti la filosofia di Cartesio, nei suoi esiti empiristi, hegeliani, marxisti[9], husserliani, freudiani, heideggeriani e severiniani, è quella veramente universale, perenne, definitiva e obbligatoria per ogni uomo che oggi voglia essere all’altezza della maturità critica ed intellettuale dei tempi moderni.

Se vogliamo dar credito ai messaggi mariani di Medjugorje, la Madonna, a quanto ci riferisce Padre Livio Fanzaga nel suo libro L’inganno del modernismo[10], per ben tre volte sarebbe intervenuta a metterci in guardia contro il pericolo del modernismo da Lei definito come inganno di Satana[11].

In questo articolo dimostro da dove trae origine il modernismo. Esso nasce da un falso concetto di filosofia moderna messo in giro dai cartesiani per rendere attraenti le loro false idee, spacciandole per l’invenzione del vero metodo per il conseguimento della verità in filosofia, al di là di quanto, secondo loro, fino a Cartesio l’umanità ha creduto essere il criterio della verità, nonché il principio della certezza e del sapere.

La filosofia moderna ideata da Cartesio è quella che finalmente e definitivamente, dopo millenni nei quali i filosofi sono rimasti vittime dell’errore, delle apparenze, dell’incertezza e dell’illusione, senza riuscire a svincolarsi da questa frustrazione, o senza rendersi conto dell’errore, ebbene, la filosofia inventata da Cartesio è quella che garantisce il giusto punto di partenza, e basi giuste e inconfutabili per un cammino sicuro, spedito, facile e fecondo che conduce l’uomo progressivamente e infallibilmente sul sentiero della verità assoluta e della scienza assoluta.

I modernisti sono stati e tuttora sono[12] quei cattolici, i quali, credendo di interpretare la riforma e le nuove dottrine proposte dal Concilio Vaticano II, continuano a fondare le loro idee non sul realismo tomista raccomandato dalla Chiesa, ma sull’idealismo cartesiano sviluppato, attraverso Kant, nelle sue estreme conseguenze hegeliane.

Essi rimangono ingannati dal fatto che il Concilio ha effettivamente recuperato quanto di buono c’è nella filosofia moderna, senza farne un idolo come hanno fatto i modernisti, ma mantenendo la condanna dei suoi errori, e quindi confermando il valore della Pascendi di San Pio X.

Fine Prima Parte (1/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 aprile 2024


Quanto ai modernisti, l’istanza che la Chiesa assumesse quanto di buono era stato scoperto dalla filosofia moderna e dalle scienze umane, che riconoscesse quanto di valido si trovava nella teologia protestante, nonchè nelle culture, religioni e civiltà scoperte dalle attività missionarie ed esploratrici, la necessità di addolcire pratiche pastorali ed ascetiche troppo severe, tutto ciò era una giusta istanza, e bisogna dar atto che esisteva nei modernisti.

Ciò che faceva loro difetto era il possesso di criteri di giudizio e di valutazione basati su di una solida e integrale fede cattolica.

Come osserva giustamente il Gilson, o l’intelletto è realista immediatamente fin dall’inizio del conoscere o il realismo non lo si ottiene più. Nel cogito è possibile entrare partendo da fuori e allora si può uscire per cogliere il reale. Ma se si parte dal cogito dubitando del reale, il reale non lo si coglie più. Un ponte lo possiamo costruire se vediamo l’altra sponda. Solo allora potremo passare dall’una all’altra sponda, alternare la conoscenza (diretta) alla coscienza (riflessa). Ma se non la vediamo non possiamo costruire nessun ponte. Se invece vediamo e riconosciamo le cose fuori di noi, allora possiamo costruire il ponte fra loro e il nostro intelletto. Ma se l’intelletto sta per principio chiuso in se stesso, non può raggiungere la realtà esterna, perché non ha una direzione verso la quale muovere ed è tentato di credere che tutto l’essere si risolva nell’io.


Così bisogna dire francamente che il trascendentale tomista e quello kantiano non sono rispettivamente il trascendentale antico e quello moderno, come crede Maréchal, ma il primo è quello vero e il secondo è falso. Non si può fondare la metafisica sulla volontà, ma solo sull’intelletto. La volontà stia al suo posto preziosissimo, ma non pretenda di sostituirsi all’intelletto o di invadere il suo campo, se non vuol procurare la rovina di entrambi e con ciò stesso dell’uomo.

 
Immagini da Internet:
- Étienne Gilson
- Joseph Maréchal

[1] Vedi l’ottima descrizione del modernismo fatta da Cornelio Fabro alla corrispondente voce nell’Enciclopedia Cattolica.

[2] Tipografia Pontificia nell’Istituto Pio IX, Roma 1914.

[3] Le point de départ de la métaphysique. Le thomisme devant la philosophie critique,  Louvain-Paris 1926, p.30.

[4]Le point de départ, op.cit. pp. 30-31.

[5] Le point de départr, op.cut. p.447.

[6] Ibid., p.347

[7] Quaestio disputata De veritate, q.1, a.1; De potentia, q.9, a. 6, ad 7m e ad 13m.

[8] De Ver., q.1, a,1.

[9] Il Padre Cornelio Fabro in un dottissimo e documentatissimo studio storico-critico ha dimostrato ad abundantiam come anche il materialismo ateo marxista e in genere l’ateismo derivino da Cartesio: Introduzione all’ateismo moderno, Editrice del Verbo Incarnato, Segni (RM), 2013.

[10] Sugaraco Edizioni, Milano 2019.

[11] Messaggi del 25 maggio 2010, del 25 marzo del 2015 e del 25 gennaio del 2017.

[12] Per esempio i seguaci di Rahner e di Bontadini.

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