Il concetto dell’essere in San Tommaso ed Heidegger - Parte Prima (1/2)

 

Il concetto dell’essere in San Tommaso ed Heidegger

Parte Prima (1/2)

Io Sono Colui Che È

Es 3,14

Prima che Abramo fosse, Io Sono

 Gv 8,58

 

Introduzione

Il tema dell’essere è oggi oggetto d’interesse per alcuni, mentre per molti altri è totalmente estraneo al loro interesse ed anzi è considerato con disprezzo una vuotaggine priva di senso e il prestarvi attenzione è una perdita di tempo e il segno di cervelli che si pascono di astrazioni e non vivono nella realtà.

Non capiscono che l’interesse per l’essere è segno della massima attenzione e considerazione per la realtà più concreta, oggettiva ed immediata, è segno di realismo e di schietto amore per la verità. Non capiscono che l’astrattezza massima di questo concetto è proprio ciò che permette alla nostra mente di abbracciare, benché assai imperfettamente e implicitamente, la totalità del reale e comprendere ogni cosa, giacchè è evidente che ogni cosa esistente è un ente che ha l’essere o in atto l’essere.

Molti cattolici oggi non si prendono assolutamente cura del preciso rapporto che Cristo pone tra il concetto dell’essere e il concetto di Dio; non si rendono conto che il concetto di Dio è strettamente dipendente dal nostro concetto dell’essere. Non capiscono che interessarsi dell’essere è un’introduzione all’interesse teologico. 

Alcuni sono sensibili al concetto di un Dio personale, che ci ama, ci parla, al quale possiamo parlare, un Dio sapiente, provvidente, onnipotente, giusto, misericordioso e salvatore.

Altri, col pretesto della trascendenza del mistero, dell’incomprensibilità e dell’ineffabilità divina e sotto colore di aderenza al linguaggio biblico, si rifiutano di usare a suo riguardo categorie come quella di causa, ente, essere, sussistenza, sostanza, natura, essenza, pur utilizzate dal dogma cattolico.

Succede così che il loro Dio diventa il mistero assoluto dove tutto ciò che c’è da sapere e capire è che si tratta di un mistero, non concettualizzabile, inintellegibile, indicibile e innominabile, comoda scappatoia per sottrarsi all’obbedienza ai divini comandamenti formulati da Dio nei precetti della legge mosaica. Costoro facilmente invocano il concetto dell’«essere», ma fraintendendolo o senza spiegare che cosa intendono con questa parola. Sono i rahneriani, finti tomisti, che si ispirano ad Heidegger.

Usare il verbo essere, cosa che inevitabilmente facciamo tutti nel linguaggio, non vuol dire ancora avere un adeguato interesse per l’essere. Certo, se usiamo il verbo essere, sappiamo che cosa è l’essere. Ma se ci fermiamo qui vuol dire che non sappiamo ancora considerarlo da solo, per sé stesso, come merita, in senso assoluto, ma lo limitiamo e lo connettiamo solo con un soggetto e un predicato.

Diciamo che il sole è tramontato. Certo, quell’«è» rappresenta l’essere, ma ci interessa solo perchè ci interessa il sole e il tramonto. Ci limitiamo a considerare l’ente, qualcosa che ha l’essere, un essere finito, un’essenza distinta dall’esistenza, e non consideriamo l’essere come tale, l’essere in se stesso.

Osserviamo inoltre che chi è privo di qualunque interesse per l’essere non è il teista, ma l’ateo, perché Dio è l’essere supremo, il creatore dell’essere, è quell’ente la cui essenza è quella di essere, è l’essere fatto persona, è lo stesso essere per sé sussistente, è colui che è, è l’essere assoluto, eterno ed infinito.

Heidegger ha ragione nel denunciare questo vizio che ci impedisce di realizzare la nostra vocazione di casa dell’essere e pastori e custodi dell’essere. Chiusi nei nostri concetti non sappiamo abbandonarci all’esperienza dell’essere. Aperti per essenza all’essere, ci chiudiamo all’essere.

Non percepiamo il richiamo del sacro che fa sentire la voce dell’essere. Non sappiamo vedere nell’ente la presenza silenziosa dell’essere. Non sappiamo apprendere dalla lezione dell’angoscia, che ci porta alla scoperta dell’essere. Crediamo con la tecnica di essere i padroni dell’essere, mentre è l’essere ad essere il fondamento dell’ente.

Nati per pensare l’essere, ci dimentichiamo dell’essere. Nati per contemplare la verità dell’essere, ci chiudiamo nel nostro soggettivismo, nella quotidianità, nella chiacchiera, ci annulliamo nel nichilismo, nell’esistenza inautentica. Fatti per l’essere ci disperdiamo fra gli enti. Benchè l’essere appaia, si sveli, ci illumini e si manifesti, ci sottraiamo alla sua presenza e al suo appello.

Quello che purtroppo in Heidegger ci fa cadere le braccia è il fatto che dopo queste constatazioni verissime ed importantissime, quando gli chiediamo di chiarirci che cosa intende quando parla della relazione dell’uomo con l’essere, chi è per lui l’uomo e che cosa per lui è l’essere, proviamo un’enorme delusione.

Come vedremo infatti, Heidegger pone tra l’uomo e l’essere una reciprocità, che non corrisponde alla realtà: in realtà è l’uomo che dipende dall’essere e non l’essere che dipende dall’uomo. Heidegger dà troppo potere all’uomo e troppo poco all’essere, per cui finisce per avallare e giustificare quello stesso stato di cose che fa l’oggetto della sua giusta condanna.

Se il nostro destino è nelle nostre mani e non in quelle dell’essere, ossia di Dio, l’uomo prende il posto di Dio, ma nasce un dio fasullo, perché allora, stanti le miserie umane che l’uomo da solo non può superare, succede che, mancando il principio divino che solo assicura il loro superamento, la verità non potrà vincere l’errore, la bontà non potrà vincere la malvagità, l’amore non potrà vincere l’odio, la vita non potrà vincere la morte, la grazia non potrà togliere il peccato, la virtù non potrà rimediare al vizio, ma tutto lo spazio dell’esistenza sarà una vittoria della menzogna, della crudeltà, della prepotenza,  dell’ingiustizia, della violenza, della guerra, della distruzione, del peccato e della morte, un vero inferno, per cui il Dio di questa vita orribile non potrà essere il vero Dio, ma sarà il demonio. Si capisce come Heidegger sia stato favorevole al nazismo[1] e il culmine della sua speculazione sull’essere sia stata l’apologia del pensiero di Nietzsche[2].

Così Heidegger propone dei rimedi che invece di togliere il male, lo confermano e lo aggravano. La giusta risposta alle giuste constatazioni di Heidegger, il vero rimedio, li troviamo invece nella concezione tomista dell’essere, sorgente di una teologia che ci presenta un Dio veramente al suo posto, non come proiezione dell’uomo, ma come creatore e salvatore dell’uomo[3].

 

Che cosa è l’essere per San Tommaso

Heidegger ha ragione nel dire che la metafisica occidentale ha iniziato le sue indagini col chiedersi che cosa è l’ente? (ti to on?). La nozione dell’ente-essere (sat) appare nella metafisica indiana già nel sec. XIV a.C., ma l’India, a differenza dalla Grecia, è interessata all’essere non come oggetto della concettualizzazione e dell’indagine razionale, ma come totalità assoluta, ultima, cosciente e svelata dell’esperienza dell’io.

Il primo in occidente a mettere a fuoco la nozione dell’essere (einai) congiuntamente al fondamentale principio di identità e non-contraddizione è stato Parmenide. Ma la sua scoperta dell’essere opposto al non-essere è bloccata in una visione univocista-monistico-panteista-idealista, per la quale Aristotele, adirato per tanta stoltezza, non sarà capace di rintracciare in Parmenide lo scopritore dell’einai assoluto, ma lo bollerà come un confusionario trascendentale che confonde tutto con tutto.

Come ha fatto bene Aristotele a interrogarsi sull’essenza dell’ente, così occorre dire che è giusta l’istanza heideggeriana di chiedersi qual è l’essenza dell’essere. Noi vediamo il reale sotto l’aspetto della quiddità. Occorre tuttavia ricordare che non è l’essere ad avere un’essenza, ma è l’essenza che ha l’essere. Occorre quindi che sappiamo vedere l’essere al di là dell’essenza. In tal senso Heidegger coincide con San Tommaso quando dice che dobbiamo saper pensare l’essere al di là dell’ente e anche senza l’ente.

Occorre tuttavia osservare che Heidegger non si è accorto che sono stati i Padri della Chiesa e San Tommaso i valorizzatori dell’essere, edotti dalla rivelazione del Nome divino in Es 3,14. Ma la cosa più probabile è che Heidegger sapesse di questa scoperta, ma non sia stato d’accordo con la concezione tomistico-cristiana dell’essere. Heidegger ha preferito quella parmenidea, che egli ha mescolato con quella di Eraclito e di Anassimandro e poi successivamente con quella di Cartesio, Fichte, Schelling, Hegel, Hölderlin e Nietzsche.

D’altra parte Tommaso ci avverte che non possiamo ridurre l’essere a un’essenza o concepirlo come fosse un’essenza, perché allora non distingueremmo più l’essenza dall’essere, che è l’atto dell’essenza. L’essenza è ciò che l’ente è, ciò per cui l’ente è ciò che è. L’essere è ciò per cui l’ente è o è in atto. Un ente o essenza senza l’essere è semplicemente possibile; con l’essere è attuale.

Tutti sappiamo spontaneamente che cosa è l’essere, il che ci porta all’uso della parola «essere» che usiamo quando decliniamo le voci del verbo «essere». Ci formiamo il concetto dell’essere quando affermiamo l’essere nella copula del giudizio. Dell’essere non si può dare una definizione per genere e differenza perché non esiste un genere superiore all’essere, ma è l’essere stesso che è superiore ai generi. Due sono i generi massimi dell’essere: quello sostanziale e quello accidentale. Tuttavia San Tommaso lo definisce imperfettamente in vari modi, dei quali troviamo un buon elenco presso il Padre Fabro[4].

Ecco alcune citazioni:

«Ogni dignità di qualunque cosa sta nel suo essere»[5]; l’essere «è la perfezione dell’esistente»[6]; «è atto dell’ente risultante dai princìpi della cosa»[7]; «ogni cosa esiste (est) per il fatto di avere l’essere»[8]; l’essere è «l’attualità di ogni forma e natura. Infatti non significhiamo che la bontà o l’umanità è in atto, se non perché ha l’essere» (eam esse).

«Occorre dunque che l’essere sia confrontato con l’essenza, come l’atto alla potenza»[9]; «l’atto ultimo è lo stesso essere»[10]; «lo stesso essere è l’atto ultimo partecipabile da tutte le cose; esso invece non partecipa di nulla; per cui se c’è qualcosa che sia lo stesso essere sussistente, come diciamo di Dio, diciamo che non partecipa di nulla»[11].

È chiaro che per San Tommaso l’essere non è solo l’attuazione della possibilità, magari grazie all’atto creativo, per la quale la cosa esiste e si trova nella realtà. Ma per lui l’essere è una perfezione assoluta, per conto proprio, che si aggiunge nella realtà all’essenza della cosa.

E perché questo? Perché Tommaso sa che l’essere è il Nome divino: Dio stesso è l’ipsum Esse. Per questo l’essere non è solo l’esistere nella realtà, ma è realtà esso stesso, ancor più dell’essenza, la quale rispetto a lui è come potenza rispetto all’atto. L’essenza creata non ha l’essere per essenza; ciò appartiene solo a Dio.

Per questo, affinchè essenza esista nella realtà, occorre che Dio le doni l’essere, la faccia essere, le aggiunga l’essere. L’essere non può che essere causato dall’essere. L’essenza creata non ha l’essere per conto proprio; lo ha invece Dio. E per questo Egli è la causa dell’essere dell’essenza creata, ossia ne è il creatore.

L’essere si distingue in «essere partecipante ed essere sussistente» (existens)[12]; l’essere si distingue pertanto in essere per partecipazione ed essere per essenza.

Per Tommaso l’ente la cui essenza è quella di essere – Dio – è l’ente che non può assolutamente non essere, l’essere assolutamente necessario. L’ente che può non essere ha un’essenza distinta dal suo atto d’essere. È l’ente contingente, la creatura, il cui essere ha la sua ragion d’essere nell’essere divino.

Fine Prima Parte 

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 luglio 2024

Nati per pensare l’essere, ci dimentichiamo dell’essere. Nati per contemplare la verità dell’essere, ci chiudiamo nel nostro soggettivismo, nella quotidianità, nella chiacchiera, ci annulliamo nel nichilismo, nell’esistenza inautentica. Fatti per l’essere ci disperdiamo fra gli enti. Benchè l’essere appaia, si sveli, ci illumini e si manifesti, ci sottraiamo alla sua presenza e al suo appello. 

Quello che purtroppo in Heidegger ci fa cadere le braccia è il fatto che dopo queste constatazioni verissime ed importantissime, quando gli chiediamo di chiarirci che cosa intende quando parla della relazione dell’uomo con l’essere, chi è per lui l’uomo e che cosa per lui è l’essere, proviamo un’enorme delusione.

Infatti, Heidegger pone tra l’uomo e l’essere una reciprocità, che non corrisponde alla realtà: in realtà è l’uomo che dipende dall’essere e non l’essere che dipende dall’uomo. Se il nostro destino è nelle nostre mani e non in quelle dell’essere, ossia di Dio, l’uomo prende il posto di Dio, ma nasce un dio fasullo.

La giusta risposta alle giuste constatazioni di Heidegger, il vero rimedio, li troviamo invece nella concezione tomista dell’essere, sorgente di una teologia che ci presenta un Dio veramente al suo posto, non come proiezione dell’uomo, ma come creatore e salvatore dell’uomo.

Tommaso ci avverte che non possiamo ridurre l’essere a un’essenza o concepirlo come fosse un’essenza, perché allora non distingueremmo più l’essenza dall’essere, che è l’atto dell’essenza. L’essenza è ciò che l’ente è, ciò per cui l’ente è ciò che è. L’essere è ciò per cui l’ente è o è in atto. Un ente o essenza senza l’essere è semplicemente possibile; con l’essere è attuale.

 

Immagini da Internet

[1] Vedi Victor Farias, Heidegger e il nazismo, Bollari Boringhieri, Torino 1988.

[2] Nietzsche, Adelphi Edizioni, Milano 2013.

[3] Nel 1947 Heidegger, nel clima di riflessione amara sull’immane sciagura che il nazismo aveva procurato all’Europa e alla civiltà umana con la seconda guerra mondiale, pubblicò la famosa Lettera sull’umanesimo, con la quale egli sembra volere in qualche modo ridimensionare il suo passato filonazista che aveva contribuito alla distruzione dell’umanesimo, con una pia meditazione sulla dignità umana e sulla necessità di rifondare l’umanesimo. Ma al di là del tono dimesso di chi deve rispondere al tribunale della storia, Heidegger non rinuncia alla sua visione di fondo dell’uomo e non di Dio come fondamento ed autore dell’essere.

[4] Tomismo e pensiero moderno, Edizioni PUL, Roma 1969, pp.104-112.

[5] Contra Gentes, I, c.28.

[6] Sum. Theol., I, q.14, a.4.

[7] In III Sent., D.6, q.2, a.2.

[8] Contra Gentes, I, c.22.

[9] Sum. Theol., I, q.3, a.4.

[10] Compendium Theologiae, c.11.

[11] De anima, a.6, ad2m.

[12] De substantiis separatis, c.9, n.94.

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