Sulla differenza fra il corpo e lo spirito - Terza Parte (3/6)

 

Sulla differenza fra il corpo e lo spirito

Terza Parte (3/6)

 Prima parte – La visione biblico-cristiana

 Il concetto biblico dello spirito

Come è noto, nella Scrittura sono usatissimi i termini rùach e pneuma, che noi traduciamo col termine spirito, dal latino spiritus[1], che significa immediatamente l’alito, il respiro, il soffio, i quali rimandano al concetto della vita, la quale suppone la sostanza vivente, e quindi una sostanza spirituale[2]. Affine alla rùach, del tutto immateriale e sovrasensibile, è la nefesh, che è l’anima dell’uomo e degli animali, sensibile principio di vita del corpo.

La nozione della vita (ebr.hayyim) è una nozione fondamentale della Bibbia. Essa non dà una definizione generale della vita come quella proprietà del vivente per la quale perfeziona se stesso. E però descrive la vita in tutti suoi aspetti e gradi di perfezione, indicando all’uomo che la sua felicità sta nel conseguimento della vita eterna presso Dio.

La Bibbia nota inoltre come in noi facilmente la vita spirituale incontra ostacolo in quella sensibile (la «carne»). Da qui la necessità che essa ci impone di saper rinunciare ai piaceri fisici per salvare quelli superiori spirituali. Ecco il significato dei consigli evangelici.  

La Bibbia ha alcuni simboli fisici della vita, che quindi rimandano  indirettamente allo spirito e all’anima che ne sono il principio: il sangue, l’acqua, il fuoco, l’aria, il vento, tutte cose evidentemente legate alla vita come condizioni di vita o effetti della vita.

La Bibbia prospetta due generi di vita: la vita eterna, incorruttibile ed immortale, propria di Dio, degli angeli santi e dell’anima umana santificata, oggetto del pensiero, della sapienza e della volontà, vita che vince la morte e la toglie di mezzo;  e la vita mutevole, fragile, difettosa, corruttibile, precaria e mortale delle cose sensibili e materiali, oggetto delle passioni e degli appetiti animali.

Tuttavia per la Bibbia la vera vita eterna è legata alla virtù e alla santità. Essa non è assicurata dalla semplice immortalità ontologica, perché anche lo spirito maligno, il demonio, come spirito, è immortale; eppure per la sua malvagità, è castigato con una morte eterna. Non è lo spirito come tale che dà la vita eterna; ma è solo lo Spirito Santo.

La Scrittura non si cura di definire che cosa è lo spirito, ma si ferma abbondantemente a parlare delle sue proprietà o manifestazioni, che sono l’incorruttibilità, l’immortalità, la stabilità, la solidità, la fermezza. la permanenza, l’immutabilità, la fedeltà, la robustezza, la forza creatrice, vitale, motrice e innovatrice, il potere illuminante, la provenienza divina, o la sua stessa divinità, la sapienza, la sublimità, la trascendenza, l’invisibilità, la misteriosità, il suo legame con le passioni, i sentimenti, i valori morali, la virtù, la verità e la libertà, l’amore, il linguaggio, la parola, la santità.

Nella Scrittura, come è noto, non esiste neppure il termine ebraico corrispondente a «persona». Al suo posto la Scrittura parla o di creatura terrestre o celeste o di uomo o donna, madre, padre, ecc. o di angelo o di Dio o della singola persona indicata col nome (scem), il quale, peraltro, non è  un semplice dato anagrafico convenzionale, un puro segno di riconoscimento, come usiamo noi, ma designa l’essenza e la missione di quella data persona. 

In latino il termine persona fu introdotto da Tertulliano, mentre Boezio ne dette la famosa definizione filosofica. I Greci hanno adottato il termine hypòstasis. Eppure quale testo più della Scrittura, fra tutti i testi religiosi dell’umanità  parla meglio della dignità della persona, persona umana, persona angelica e persona divina?

Da notare che il concetto di persona è analogico. Quei filosofi come Fichte e Kant che si sono rifiutati di applicare a Dio il concetto di persona, dimostrano di essersi fermati alla persona umana e di non essere stati capaci di formarsi un concetto metafisico di persona.

Quale testo religioso, quale storia sacra ci presenta personalità così originali, irripetibili e così bene delineate e caratterizzate ad un tempo diverse l’una dall’altra come la Bibbia? Adamo, Eva, Gesù, la Madonna, San Giuseppe, San Paolo, San Pietro, San Giovanni, Davide, Mosè, Elia, Abramo, e infinite altre? Gli arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele?

La Scrittura conosce però anche uno spirito cattivo, maligno, impuro, tentatore, bugiardo e omicida, che è il demonio. Essa dunque non ammette uno solo spirito, ma una pluralità di spiriti: ogni uomo è un corpo vivente animato dal suo spirito, che è l’anima (nefesh, psychè). Ma per la Scrittura esistono anche creature puramente spirituali, senza corpo, benchè possano apparire con sembianze umane: sono gli angeli (eb.malàk, gr. anghelos, inviato, messaggero).

Sono rappresentati con le ali, per significare la loro elevatezza al di sopra dei corpi e delle realtà terrene, nonché la potenza dello spirito, che vola veloce e libero in alto, in cielo a somiglianza degli uccelli. Invece lo spirito maligno è rappresentato con immagini bestiali, mostruose, terrificanti o lascive.

Fin dai primissimi secoli dell’era cristiana gli apologisti e i Padri della Chiesa e già da prima di Cristo e subito dopo gli agiografi biblici, compreso lo stesso San Paolo, a contatto con la filosofia greca, notarono la possibilità di utilizzare la nozione greca di pneuma per interpretare quella ebraica di rùach.

Tale opera di assunzione critica della psicologia greca, come è noto, continuò sino a che nacquero la filosofia e teologia scolastiche medioevali, mentre il Magistero della Chiesa seguì con benevolenza questa complessa operazione culturale ed esegetica, vigilò per scartare gli errori e nel contempo assunse alcune nozioni aristoteliche dovutamente purificate da San Tommaso d’Aquino per la formulazione degli stessi dogmi antropologici e pneumatologici.

Pertanto le affermazioni della detta Enciclopedia, secondo le quali «la psicologia ebraica è ben lontana dalla speculazione astratta della nostra psicologia aristotelico-scolastica»[3] e per la Sacra Scrittura «lo spirito non ha mai il significato filosofico che ha questa parola nel pensiero dei Greci»[4] sono del tutto false, se si prescinde ovviamente dagli aspetti materialistici o idealistici del pensiero greco.

Gli Autori delle Voci dell’Enciclopedia relative alla tematica dello spirito si mostrano evidentemente incapaci di comprendere quella che è stata l’opera di chiarificazione cattolica dell’essenza o natura dello spirito, del quale parla così spesso, in diversi modi e in diverse forme e gradi la Scrittura.

Ciò che appare infatti a prima vista nella concezione biblica dello spirito, compreso Dio stesso, il che fa comodo alla nostra carnalità, è che non esista uno spirito puro, del tutto esente da materia, uno spirito soltanto intellegibile e pensabile. Eppure già il pagano Tacito si era accorto con stupore, lui che ammetteva degli dèi così concreti, sensuali e corposi, che gli Ebrei concepiscono «unum Numen sola mente»[5]. Ora la scolastica medioevale, approvata dalla Chiesa, ci ha fatto capire, grazie ad un saggio uso delle categorie aristoteliche, ciò che la Bibbia intende massimamente per rùach e pneuma: uno spirito o una sostanza che non esclude di unirsi a un corpo per formare l’uomo, ma anzitutto, soprattutto e sommante la sostanza o natura o essenza puramente spirituale: l’angelo e Dio.

Che cosa è lo spirito? Che cosa è questo «spirito» del quale parla la Bibbia? Come conoscerlo? Come concepirlo? Come pensarlo? Come parlarne? Questa è la stata la grande questione affrontata dalla scolastica medioevale.

Quando io parlo con Dio o prego l’angelo custode o la Madonna o San Domenico o San Tommaso o penso alla mia anima o mi sforzo di comprendere l’anima di un mio fratello, che cosa ho davanti alla mia mente? Come mai questa conoscenza dello spirito mi dà tanta gioia? Come mai ricevo delle risposte, dei consigli, dei rimproveri delle indicazioni?

Come mai dai Santi del cielo ricevo un conforto maggiore di quello che ricevo dai buoni di questa terra? Perchè dall’approvazione della mia coscienza ricevo un conforto maggiore di quello che mi viene dal consenso degli uomini di questo mondo? Che cosa sarebbero la Messa, la vita morale, il rapporto col prossimo, la mia vita personale senza questo contatto col mondo dello spirito?

Confesso che non so dire a parole che cosa il mio spirito vede ed ha davanti a sé. Eppure sono certissimo di avere davanti delle persone reali, ben distinte fra di loro e niente affatto dei fantasmi della mia immaginazione, come credono stoltamente i materialisti.

Osservo ancora che tutto il famoso problema medioevale degli universali non è altro che una discussione sul potere dell’intelletto, quindi dello spirito. La teoria aristotelica dell’astrazione dell’universale dal particolare sensibile che cosa è se non un’interpretazione dell’attività dello spirito? Tutto l’interesse medioevale per la metafisica esprime un interesse per la realtà dello spirito.

Tutte le discussioni sull’immortalità o meno dell’anima[6] che cosa sono se non una ricerca su che cosa è lo spirito? La mistica medioevale che cosa è se non la prospettiva di avere un’esperienza dello spirito? Che senso ha l’ascetica medioevale se non il bisogno di fruire della libertà e della gioia dello spirito? In che consiste la sapienza se non nel saper apprezzare le cose e le gioie dello spirito? Chi è lo stolto, qual è l’uomo carnale, se non colui che, sedotto dai piaceri della carne, non sa elevare lo sguardo allo spirito?

Ma esiste anche un’esegesi gnostico-idealista della Scrittura, legata ad un ebraismo non materialista ma spiritualista e magico, influenzato dalla mitologia egiziana, greca o babilonese, che dette luogo alla Kabbala. Essa finisce nel panteismo[7] dell’identificazione dell’io con Dio e col mondo, mentre la tendenza materialista, presente nel Vangelo nel partito dei sadducei, ebbe piena espressione nel Talmud.

È dalla esegesi spiritualista gnostica che deriva l’antropologia del Dio-in-me di Lutero, dell’«io sono» cartesiano, della «pura ragione» di Kant, dell’«io puro» di Fichte, dell’«Io assoluto di Schelling», dello Spirito assoluto di Hegel e della «coscienza pura» di Husserl.

Materia e forma nel racconto biblico della creazione

Invano cercheremmo nella Bibbia la distinzione aristotelica fra materia e forma. Eppure, quanto bene questi concetti si adattano a spiegare la chiarissima distinzione che la Bibbia fa tra corpo e spirito, fra angeli e uomini, fra carne e spirito, fra corpo ed anima, fra cielo e terra, fra Dio e mondo, fra il mortale e l’immortale, fra ciò che passa e ciò che non passa.

Già subito all’inizio del Genesi la Scrittura ci presenta quali sono state in un tempo passato le origini del mondo e quindi ci insegna che il tempo ha avuto un inizio, «in principio» (berescìt)[8].

Quindi l’universo non esiste da sempre, come credeva Aristotele, ma da un tempo finito. Una successione infinita di fenomeni, uno spazio infinito possono essere immaginati, ma non corrispondono a quanto constata la scienza sperimentale. Su ciò la scienza concorda con la fede.

La quantità degli enti non è infinita. Tutto è preciso, determinato e misurato, come dice la Scrittura: «Tutto hai disposto in numero, peso e misura» (Sap 11,21). L’infinito quantitativo può essere immaginato, ma non può esistere in atto nella realtà.

Nulla c’è in natura di indeterminato, ma indeterminate sono le nostre conoscenze. Se in natura non vigesse il determinismo e ci fosse il caso, la scienza sarebbe impossibile. Non sono probabilistiche le leggi della natura, ma lo sono certe nostre conoscenze perché non conosciamo con certezza la verità. Come diceva giustamente Einstein, «Dio non gioca ai dadi» perché Egli è il legislatore della natura. Egli sa benissimo perché i due dadi danno quel risultato e non possono non darlo. Siamo noi che calcoliamo le probabilità perché non sappiamo il perchè e le leggi di certi fenomeni. Ma Dio li conosce perché li crea Lui.

La nostra esperienza del mondo fisico ci dice che è limitato e finito dalla quantità numerica e continua nello spazio e nel tempo, nel piccolo come nel grande, nel passato come nel futuro. Ogni fenomeno è causato da un altro fenomeno, però ha un inizio, una crescita, un apice, un calo e una fine. Tutto è generabile e corruttibile e tutto si trasforma.

Il progresso della scienza sposta continuamente i confini del noto, ma il noto ha sempre dei confini.  L’infinità delle forme e della materia non ci si presenta mai in atto ma solo in potenza.

La narrazione genesiaca della creazione ci mette subito davanti alla distinzione fondamentale dello spirito, il «cielo» (shamaìm) e il corpo, la «terra» (eretz). Certamente il cielo, qui, è immediatamente il cielo in senso fisico, ma nulla impedisce, come già avevano notato i Padri, di vedervi adombrata la creazione degli angeli, quindi i puri spiriti.

Quanto alla terra, l’ebraico non ha un termine corrispondente alla yle aristotelica e neppure è presente il concetto di materia prima. Anche il termine ebraico adamà, suolo, da cui Adamo, è utile per designare la materia. Tuttavia si può affermare che la terra (eretz) è la materia (yle), anche se non vi corrisponde esattamente, essendo terra la materia già formata o materia seconda, ciò che comunemente chiamiamo terra. In tal senso San Paolo parla dell’uomo che «tratto dalla terra è di terra» (I Cor 15,47).

«Tornare alla terra» (Sir 17,1) per la Bibbia significa morire, ossia il fatto che l’uomo, fatto di terra, al momento in cui l’anima lascia il corpo, perde la forza vitale, per cui ciò che resta di lui, il cadavere, è quella terra ossia quella materia della quale era fatto.

Dal punto di vista ontologico la forma presuppone la materia perché possa dar forma alla materia. Ma dal punto di vista temporale è chiaro che forma e materia sorgono assieme, dato che la materia non può stare senza la forma.

Ciò ovviamente l’agiografo lo sapeva benissimo, ma ha voluto esprimersi come se Dio abbia creato prima la materia (eretz, che significa «terra», 1,2) e successivamente abbia creato la «luce» (or), che significa la forma, come potrebbe fare un costruttore che prima costruisce una casa e poi l’arreda. Per questo la terra appare all’inizio informe (tohu)[9] e vuota (bohu). Non c’è la materia prima.

La materia è rappresentata anche dalle «tenebre che sono sulla faccia dell’abisso (tehom)». Ma sopra la terra c’è il cielo. E lo «spirito (rùach) di Dio si muove sulle acque» (v.3).

Che lo spirito sia forma e principio di vita appare al momento della creazione dell’uomo, dove è detto che «il Signore formò (yadar), cioè dette forma all’uomo dal fango della terra (haàdam afar min hadamah, 2,7). Ecco di nuovo la materia: il fango della terra. A questo fango Dio «spira in faccia un soffio di vita» (rùach) e l’uomo fu fatto anima vivente» (nefesh, 2,7).

Importante per la Bibbia è anche il concetto di «polvere» (afar), che indubbiamente indica la materia, materia della quale è fatto l’uomo e nella quale torna quando muore. Il termine ha un accento spregevole, perché indica la dissoluzione del corpo umano a seguito della morte come castigo del peccato originale. La polvere per l’antico Ebreo, ignaro delle conoscenze della moderna chimica, era cosa di nessun valore e simbolo di abiezione e per questo, sparsa sul capo, rappresentava il gesto del penitente che si umilia davanti a Dio.

Il termine ebraico «carne (basar, gr.sarx) ha molti significati. Può significare la creatura umana (Gv 1,14) o anche qualunque creatura nella sua limitatezza e fragilità (Giob 34,5). Può significare l’uomo tendente al peccato e ribelle allo spirito (Rm 7,18). San Paolo parla anche di «mente carnale» (Col 2,18,23). Ma non c’è dubbio che significa anche il corpo umano nella sua materialità (Sal 84,2). La carne di Cristo è chiaramente il suo corpo. Ricordiamo qui che il corpo di Gesù nel sepolcro non è propriamente un cadavere, cioè non si corrompe, benchè separato dall’anima, ma è tenuto in essere dalla sua unione ipostatica con la Persona del Verbo.

Occorre anche fare attenzione all’uso che San Paolo fa della parola «corpo» in Rm 8, 10-12, dove parla del corpo che è «morto» e delle «opere del corpo», che devono morire. Chiaramente, per interpretare correttamente queste espressioni, occorre collegare corpo a «carne» (vv.12-13), dove Paolo intende carne nel senso suddetto dell’uomo sensuale schiavo del vizio e della concupiscenza.

Un uso simile di corpo lo troviamo in I Cor 15,44, dove Paolo ancora si riferisce all’uomo fragile dell’attuale natura decaduta, uomo destinato a diventare «corpo spirituale» (v.46), ossia l’uomo nuovo ed immortale della risurrezione.

Il libro della Sapienza distingue la materia (yle) dalla forma (morfè) affermando «Dio ha creato il mondo da una materia senza forma» (11,17), sottintendendo ovviamente che abbia creato anche la materia, come è detto nel c.2 del Genesi. Il libro del Siracide parla della «materia del fuoco» (28,10). Tuttavia la Scrittura non si ferma su questa distinzione tra materia e forma e preferisce quelle tra spirito o corpo, spirito e carne, anima e corpo, corpo e spirito.

I concetti di potenza ed atto sono totalmente assenti; eppure vivissime nella Scrittura sono la percezione delle realtà mutevoli, provvisorie, momentanee, caduche, temporali, fragili, generabili e corruttibili, nonché l’idea del divenire, del progresso e dello sviluppo, cose messe a confronto con la perennità, solidità, stabilità, immutabilità ed immortalità dei valori morali, spirituali e divini.

Importante è il nesso fra anima e spirito come princìpi di vita. San Paolo (II Ts 5,23) riprenderà questa congiunzione dello psichico con lo spirituale e parlerà dell’uomo composto di corpo (soma), anima (psychè), e spirito (pneuma) non certo per negare la dualità corpo e anima, ma per precisare il livello spirituale e quello psichico-sensitivo dell’anima.

La dottrina di Cristo sull’anima e il corpo

Nella dottrina di Cristo il tema dell’anima svolge un ruolo di primaria importanza accanto a quello dello spirito, mentre è chiara la distinzione fra anima e corpo e la maggiore importanza dell’anima, che è ciò che in noi ci mette in contatto con Dio.

Gesù non parla mai né di forma né di materia, o di atto e potenza, ma è evidente la distinzione che fa da una parte tra Dio ed angeli puri spiriti, e dall’altra se stesso come uomo, gli altri uomini e le cose materiali del mondo. Tema caro a Gesù affine all’anima è quello del cuore (eb.leb), che rappresenta il mondo della coscienza, degli affetti, dei sentimenti, dell’intelligenza e della volontà.

Il termine carne, a seconda dei contesti, significa, ora il nostro corpo, ora la creatura umana nella sua fragilità, peccabilità e debolezza, secondo un’accezione del termine già presente nell’Antico Testamento e in San Paolo.

Con le sue parole i suoi gesti e con l’annuncio del suo potere di far risorgere da morte e gli stessi miracoli di risurrezione da morte da Lui operati, Gesù mostra chiara coscienza del fatto che la natura umana è composta di un una parte materiale corruttibile, il corpo, e di una parte spirituale incorruttibile, l’anima. Cristo insiste in modo particolare sulla vita eterna, che è la vita propria di Dio, alla quale l’uomo è chiamato a partecipare[10].

Gesù sa bene che un corpo, una pietra come tale non ha vita. Si guarda bene dal farne un idolo. E tuttavia ai suoi occhi le cose materiali, i corpi non viventi, le cose economiche, la salute fisica, gli onesti piaceri del corpo hanno una loro dignità, ma devono essere utilizzati solo per il bene dello spirito. Gli stessi animali e le piante sono oggetto del suo rispetto e occasioni per essere simboli e immagini della stessa vita umana in rapporto al regno di Dio. Il mondo delle cose materiali dev’essere chiaramente al servizio dell’uomo e secondo la volontà di Dio.

Cristo parla molto dello spirito, ne esalta tutti i valori: la verità, l’amore, la libertà, la legge, la santità, la gloria, mostrando nel contempo con i miracoli e le guarigioni l’attenzione, la premura e il rispetto per i bisogni fisici, la dignità del corpo e dei beni della natura fisica.

Col metodo espositivo delle parabole mostra l’analogia tra i beni del corpo e quelli dello spirito e come dalla conoscenza delle realtà materiali ci si può e ci si deve elevare a quella delle realtà spirituali.

Illustra il ministero degli angeli, il rapporto dello spirito con la carne, il primato dello spirito sulla carne, dell’uomo sugli animali e sulla natura, della mente sui sensi, della volontà sulle passioni, l’importanza dello spirito nella guida dell’uomo, smaschera e denuncia la falsa spiritualità dei farisei, i quali, dando l’apparenza della pietà e della dottrina, in realtà nascondevano superbia, avarizia, gola e lussuria.

Parla della misteriosa persona di uno Spirito Consolatore, uno Spirito Santificatore e di Verità che Egli avrebbe mandato e donato da parte del Padre per condurre la Chiesa alla pienezza della verità. Riconosce l’esistenza degli angeli e dei demòni e mostra nei loro confronti il suo potere divino.

Prospetta per l’uomo redento dal peccato, vincitore di Satana e fruente della grazia di figlio di Dio l’ingresso fin da adesso in un futuro ultraterreno e celeste Regno di Dio, evidentemente spirituale, anche se nuova umanità risorta da morte per un vita eterna ed un’eterna beatitudine nella contemplazione del Mistero Trinitario in compagnia degli angeli e di tutti i santi.

La falsificazione materialista dell’antropologia biblica

Sono in circolazione dizionari biblici che sul tema della concezione biblica dell’anima, confondendo il significato della parola «anima» col concetto di anima dicono per esempio delle stoltezze di questo genere:

 

«Lungi dall’essere una “parte” che, assieme al corpo, costituisce l’essere umano, l’anima designa l’uomo tutto intero, in quanto animato da uno spirito di vita. Propriamente parlando essa non abita in un corpo, ma si esprime per mezzo del corpo, che anch’esso come la carne, designa l’uomo tutto intero. … Per i semiti, il soffio rimane inseparabile dal corpo che anima; indica semplicemente il modo con cui la vita concreta si manifesta nell’uomo»[11] .

È qui evidente la confusione tra la questione di che cosa designa o significa il termine anima e il concetto di anima. Il dizionario approfitta disonestamente del significato della parola anima usata per sineddoche per esprimere un concetto di anima di tipo materialistico, che non è affatto quello biblico.

Invano inoltre il dizionario vorrebbe rifarsi alla «mentalità semitica» a sostegno della sua falsa interpretazione. Occorre invece ricordare che essa, benché utilizzata da Dio per comunicarci la sua verità, di per sé non è priva di una tendenza materialistica, che si fa sentire in alcuni luoghi della Scrittura come per esempio nel libro del Qoelet, nel quale non è Dio che parla, ma abbiamo la confessione di un animo disilluso e amareggiato, il quale, però, riflettendo, si ricorda che Dio è provvidente e giusto giudice.

Dov’è allora la rivelazione divina che ha giustificato la sua inserzione fra i libri ispirati? La troviamo alla conclusione di questa travagliata confessione di un animo combattuto: «sappi che su tutto questo Dio ti convocherà a giudizio» (11.9). «Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza» (12,1). «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto. Infatti Dio citerà in giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene e male» (12.13-14).

Dunque, nessuna concessione al materialismo, ma al contrario, il trionfo dello spirito sulle illusioni e tentazioni della carne. Questa è la grande lezione di Qoelet: non lasciarci vincere dalla tentazione del materialismo, per quanto all’esperienza dei sensi possa avere l’apparenza della verità. Una lezione, certo, che non va oltre quanto è dettato dalla sana ragione, una lezione che potremmo sentire anche da un filosofo pagano. Eppure, essa resta sempre importante anche oggi, allorchè dopo 2000 anni di cristianesimo, ci stiamo dimenticando non dico dei misteri della fede, ma anche di quelle che sono le basi stesse dell’etica naturale e del senso della vita.

Quando invece la mentalità semitica prende il sopravvento e si esprime senza un vivo contatto con la Scrittura, emerge chiaramente la sua tendenza materialistica[12], come è accaduto per esempio con Avicebron (Ibn Gebirol)[13] nel sec. XI e con lo stesso Marx.  Questa tendenza materialistica si esprime ai tempi di Cristo nella setta dei sadducei.

La mentalità semitica non acquista alcuna universalità per il solo fatto di mediare la dottrina della Scrittura, ma resta nella sua particolarità, per cui non può essere utilizzata come espressione dell’universalità e della verità dell’insegnamento biblico sull’anima.

Un altro dizionario biblico che in nome della mentalità semitica vorrebbe negare la distinzione fra anima immortale e corpo mortale, e quindi tra materia e spirito, addebitata alla «filosofia greca» è il Nuovo Dizionario di Teologia Biblica a cura di Pietro Rossano, Gianfranco Ravasi e Antonio Girlanda, Edizioni Paoline, Torino 1988, alla voce UOMO.

È evidente l’intenzione del dizionario di presentarsi non come un semplice dizionario, ossia testo per la definizione dei nomi o vocaboli o termini biblici, ma quella di essere un vero e proprio trattato di antropologia, dal quale è escluso qualunque riferimento al Magistero della Chiesa in qualità di definitivo interprete dell’insegnamento biblico.

Partendo quindi dal principio che per l’interpretazione della Scrittura non occorra la filosofia greca, sottintendendo evidentemente la filosofia di Aristotele corretta da San Tommaso, ma ci si deve rifare alla mentalità semitica, risulta che la Sacra Scrittura avrebbe dell’uomo

 

«una concezione rigidamente compatta, compreso come unità e totalità psicofisica, in cui non si possono distinguere né tanto meno separare parti componenti o princìpi ontologici diversi, aggregati in modo da formare un tutto. Detto in una formula sintetica, secondo l’antropologia semitica l’uomo non si può dire un composto da un’anima, principio spirituale e da un corpo, principio materiale, come è invece nell’antropologia greca».

È evidente in questa concezione dell’uomo nella quale la forma ovvero l’anima  non può separarsi dal corpo e non sussistere senza il corpo, l’impossibilità di ammettere una spiritualità ed immortalità dell’anima. Ci si chiede allora che senso ha parlare, come fa il dizionario, di uomo che si rapporta a Dio, di salvezza, di spirito, di immagine e somiglianza di Dio, di coscienza, di fede, di libertà, di grazia, di morale, di angeli, di immortalità, di risurrezione e di vita eterna.

È chiaro inoltre che in una simile antropologia dell’indissociabilità dell’anima dal corpo, l’anima non sopravviverà più alla morte del corpo, ma morirà con lui, salvo poi ad ammettere un’assurda risurrezione di entrambi dopo la morte.

Che nella Scrittura vi si siano tracce di una antropologia materialistica non c’è dubbio. È quella che si trova presente nel Qoelet e che appare evidente ai tempi di Cristo nel partito dei sadducei. È indubbiamente un vizio dell’Ebreo, che gli ha procurato la fama popolare dell’usuraio, dell’avaro e dell’affarista. Questo vizio appare nel Talmud e nella Kabbala e si prolunga fino all’ebreo Karl Marx.

Ma fare di questa concezione aberrante il paradigma della concezione biblica dell’uomo è un’offesa gravissima al messaggio immortale e divino che Israele ha lasciato all’umanità circa l’infinita dignità della persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio proprio in quanto dotata  di un’anima spirituale ed immortale, capace di fruire della figliolanza divina e della gloria della vita eterna.

I casi allora per il dizionario sono due: o si ammettono le attività e le finalità dell’anima e dello spirito, superiori e distinte dalle materiali, fisiche e corporee, e allora si deve riconoscere francamente e coerentemente la trascendenza dello spirito e dell’anima sul corpo e la loro proprietà di sussistere separatamente dal corpo. Oppure si parla «semiticamente» di indissociabilità del corpo dall’anima e allora fermiamoci al livello psichico dell’animale e rinunciamo a parlare delle attività e dei bisogni dello spirito.

Chiare poi sono le conseguenze morali di simile antropologia: se anima e corpo non sono due parti della natura umana, ma sono un tutt’uno, se la materia non si distingue dalla forma, ma la forma non può stare senza la materia, e se la forma non è superiore alla materia, ma è alla pari della materia, se il sesso e il mangiare[14] sono identici allo spirito, non si vede più che possibilità o necessità ci sia di reprimere la carne o di astenersi dalla carne per liberare lo spirito o che senso abbiano i voti religiosi e le pratiche ascetiche.

Non si vede più che senso abbia il gesto del martire che per salvare l’anima rinuncia al corpo o quello del benefattore o del missionario o del medico che affronta fatiche, pene e sacrifici per ovviare ai bisogni del prossimo. Tanto vale godersi i piaceri e le proprie ricchezze infischiandosi dei bisogni altrui e del culto di Dio.

Dobbiamo dire dunque che la vera antropologia biblica, infallibilmente interpretata dal dogma cattolico che si vale di categorie aristoteliche perfezionate da San Tommaso, nulla ha a che vedere con questa pasticciata concezione «semitica», ma ci mostra con coerenza e fondatezza che se l’uomo esercita attività spirituali ed ha bisogni spirituali e un rapporto con Dio è perché ha un’anima spirituale che sopravvive immortale alla morte del corpo.

Fine Terza Parte

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 giugno 2024

Ciò che appare infatti a prima vista nella concezione biblica dello spirito, compreso Dio stesso, il che fa comodo alla nostra carnalità, è che non esista uno spirito puro, del tutto esente da materia, uno spirito soltanto intellegibile e pensabile. Eppure già il pagano Tacito si era accorto con stupore, lui che ammetteva degli dèi così concreti, sensuali e corposi, che gli Ebrei concepiscono «unum Numen sola mente». Ora la scolastica medioevale, approvata dalla Chiesa, ci ha fatto capire, grazie ad un saggio uso delle categorie aristoteliche, ciò che la Bibbia intende massimamente per rùach e pneuma: uno spirito o una sostanza che non esclude di unirsi a un corpo per formare l’uomo, ma anzitutto, soprattutto e sommante la sostanza o natura o essenza puramente spirituale: l’angelo e Dio.

Invano cercheremmo nella Bibbia la distinzione aristotelica fra materia e forma. Eppure, quanto bene questi concetti si adattano a spiegare la chiarissima distinzione che la Bibbia fa tra corpo e spirito, fra angeli e uomini, fra carne e spirito, fra corpo ed anima, fra cielo e terra, fra Dio e mondo, fra il mortale e l’immortale, fra ciò che passa e ciò che non passa.

Quindi l’universo non esiste da sempre, come credeva Aristotele, ma da un tempo finito. Una successione infinita di fenomeni, uno spazio infinito possono essere immaginati, ma non corrispondono a quanto constata la scienza sperimentale. Su ciò la scienza concorda con la fede.

La quantità degli enti non è infinita. Tutto è preciso, determinato e misurato, come dice la Scrittura: «Tutto hai disposto in numero, peso e misura» (Sap 11,21). L’infinito quantitativo può essere immaginato, ma non può esistere in atto nella realtà.

Nulla c’è in natura di indeterminato, ma indeterminate sono le nostre conoscenze. Il progresso della scienza sposta continuamente i confini del noto, ma il noto ha sempre dei confini. L’infinità delle forme e della materia non ci si presenta mai in atto ma solo in potenza.

Gesù non parla mai né di forma né di materia, o di atto e potenza, ma è evidente la distinzione che fa da una parte tra Dio ed angeli puri spiriti, e dall’altra se stesso come uomo, gli altri uomini e le cose materiali del mondo.

Immagine da Internet: Dettaglio del Giudizio Universale, L'Arcangelo motore del Sole, Giotto - Padova, Cappella degli Scrovegni

[1] Vedi i significati di SPIRITUS nel dizionario Latino-Italiano del Georges-Calonghi, Rosenberg&Sellier, Torino 1955.

[2] Vedi le voci SPIRITI MALIGNI, SPIRITO, SPIRITO DELL’UOMO, SPIRITO SANTO nell’Enciclopedia della Bibbia, LDC-Torino-Leumann 1971.

[3] Vol.VI, p.616.

[4] Ibd., p.620.

[5] Historiae, V, 1-13.

[6] Sulla questione dell’anima, vedi AA.VV., L’anima, a cura di Michele Federico Sciacca, Morcelliana, Brescia 1954; Angelo Zacchi, L’uomo, Libreria Editrice Ferrari, Roma1954; Psychologia metaphysica, Università Gregoriana, Roma 1956; Roger Verneaux, Psicologia, Paideia Editrice, Brescia 1966; Claude Tresmontant, Le problème de l’âme, aux Éditions du Seuil, Paris 1971; Cornelio Fabro, L’anima, Edizioni EDIVI, Segni (Roma), 2005; Roberto Marchesini, La psicologia e San Tommaso d’Aquino, D’Ettoris Editori, Crotone 2013; L’anima nell’antropologia di S.Tommaso, Atti del Congresso della SITA a cura di A. Lobato, Edizioni Massimo, Milano 1987.

 

[7] Sul panteismo, vedi Francesca Pannuti, Panteismo. Minaccia o prospettiva? Edizioni IF Press, Morolo, 2010; Albero Cesare Ambesi, Il panteismo, Edizioni Xenia, Milano 2000.

[8] Ab initio temporis, come insegna il dogma della creazione del’universo del Concilio Lateranense IV del 1215.

[9]  Nel libro XII delle Confessioni S.Agostino svolge molte giudiziose considerazioni sul rapporto della materia con lo spirito commentando il c.1 del Genesi.

[10] Vedi il mio libro La vita eterna, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2015.

[11] Dizionario di teologia biblica a cura di Xavier Léon-Dufour, Edizioni Marietti, Torino 1974, alla voce ANIMA.

[12] Essa ha certamente influenzato la sensualità e la passionalità dell’etica coranica.

[13] Confutato da S.Tommaso nel suo opuscolo De substantiis separatis sive de angelorum  natura in Opuscula philosophica, Editrice Marietti Torino-Roma 1954.

[14] Il famoso detto di Feuerbach «l’uomo è ciò che mangia» è in perfetta linea con la mentalità semitica. Ma siamo sicuri che rifletta veramente l’antropologia biblica?

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