Il concetto dell’essere in San Tommaso ed Heidegger - Parte Seconda (2/2)

 

 

Il concetto dell’essere in San Tommaso ed Heidegger

Parte Seconda (2/2)

Distinzioni tomistiche

L’essere può essere sostanziale o accidentale. L’essere è «l’attualità della sostanza o dell’essenza»[1]; «dico che l’essere sostanziale non è un accidente, ma è l’attualità di qualunque forma sussistente (existentis[2].

L’essere può essere materiale o spirituale. «Ciò che è primariamente materiale è la materia prima e ciò che è primariamente formale è l’essere»[3]; «non c’è nulla di più formale e più semplice dell’essere»[4]; «lo stesso essere è il complemento della sostanza sussistente (existentis); «ogni cosa infatti è in atto per il fatto che ha l’essere»[5]; «le perfezioni di tutte le cose riguardano la perfezione dell’essere. In tanto infatti qualcosa è perfetto in quanto ha l’essere»[6]: «lo stesso essere è ciò che vi è di più perfetto in tutte le cose: si rapporta infatti a tutte le cose come a loro atto; per cui lo stesso essere è l’attualità di tutte le cose ed anche delle stesse forme. Per cui non è comparato ad esse come il ricevente al ricevuto, ma piuttosto come il ricevuto al ricevente; quando infatti dico l’essere dell’uomo o del cavallo, lo stesso essere è considerato come formale e ricevuto, non invece come ciò a cui compete l’essere»[7]; «l’essere è più intimo a qualunque cosa di quanto ciò per cui essa è determinata, per cui, esso rimane anche se quelle cose sono rimosse»[8] . Tommaso vuol dire che l’essere è così importante che può restare da solo anche senza un’essenza o un soggetto da lui distinti.

L’essere è analogico e non univoco. All’analogato sommo corrispondono gli analogati inferiori. Ossia, come dice Aristotele, «si dice in molti modi». Il concetto dell’essere è polisenso, ha molti significati simili o diversi fra loro, senza con ciò cadere nell’equivoco, perché tale polisemìa avviene secondo una proporzionalità, per cui tutti i significati sono coordinati e convergono verso un uno solo, imperfettamente uno, che è appunto il concetto dell’essere come atto dell’ente. Uno in senso assoluto è solo l’uno di numero e un singolo ente e soprattutto Dio il sommo ente (monoteismo), come dice il Concilio Vaticano I: «una singularis substantia».

L’«essere è atto del sussistente»[9]; «in altro modo è detto essere lo stesso atto dell’essenza, così come vivere è l’essere per i viventi, è atto dell’anima; non è atto secondo, ma è atto primo»[10]. L’essere «non dice atto che sia un’operazione transitiva verso qualcosa di estrinseco da produrre nel tempo, ma è atto quasi primo»[11]. Atto primo è lo stesso essere come atto; atto secondo è l’azione.

L’essere come tale prescinde da ogni determinazione. Ma non ne prescinde del tutto come il genere rispetto alle differenze, perchè anche le determinazioni entrano nell’orizzonte dell’essere. L’essere però così astratto appare come qualcosa di vuoto e per questo Hegel lo ha identificato col nulla. Ma è stato un errore grave che conduce al nichilismo.

Occorre infatti distinguere l’astratto da ciò da cui si astrae. L’astratto ha un proprio significato e contenuto intellegibile, che non si svuota per il fatto di prescindere dagli inferiori. Tutti sanno che cosa significa «essere» per quanto la mente resti un una certa confusione o smarrimento per non dire sgomento. Ed inoltre la distinzione-opposizione fra l’essere e il nulla è universalmente intuitiva, certissima e inconfutabile. Ma l’essere nella sua astrattezza assomiglia alla manna nel deserto, che al popolo appariva insipida, così da fargli desiderare la carne, i cocomeri e le cipolle dell’Egitto.  

Il bambino sa che cosa è l’essere perché usa il verbo essere, ma non ha la nozione esplicita dell’ente e ciò è testimoniato dal fatto che non sa usare la parola «ente». Nessuno spiega al bambino che cosa è l’essere, ma lo capisce da solo.

Certamente il bambino, allorchè comincia a pensare, forma il concetto dell’ente, che, come insegna San Tommaso, è il primo dei concetti che formiamo, spontaneamente, senza che gli venga spiegato, concetto implicito nel concetto della quiddità della cosa materiale. È il più ampio, il più vasto ed universale di tutti i concetti, nel quale tutti si risolvono. Il bambino non usa il termine «ente», ma usa l’equivalente «cosa», nozione anche questa che egli concepisce spontaneamente non perché gli venga insegnata.

Alcune osservazioni alla concezione heideggeriana dell’essere

1. Heidegger non si chiede qual è la causa dell’essere contingente perché blocca l’essere nel finito e nel temporale identificandolo con l’essere simpliciter. Egli non ignora il principio di ragion sufficiente e il problema del fondamento, e non gli manca il concetto del volere, dell’agire, del fare e del produrre, dedica attenzione alla questione della tecnica e della poesia e vi dedica specifici trattati. Ma non riesce ad applicare il principio di causalità efficiente nel campo dell’essere. L’essere, per lui, non ha bisogno di essere spiegato, benché poi lo concepisca come finito e temporale.

2. Come gli fa notare Edith Stein[12], non è capace di concepire l’essere se non come evento, accadimento, storia. Non riesce ad elevarsi alla concezione dell’essere nella sua vera pienezza, ossia l’essere eterno, divino, infinito, sovratemporale, stabile, incorruttibile ed immutabile, quindi puramente spirituale, personale, libero dal divenire e dal tempo, e resta quindi bloccato in una concezione sostanzialmente materialistica della realtà, dell’uomo e dell’essere.

3. E pure è assente nella sua filosofia la nozione analogica di causa efficiente o produttiva, l’atto che attua la potenza. La sua domanda sull’essere non è la domanda di chi constatato l’effetto, s’interroga sulla causa. Egli parte dal confronto tra l’essere e il nulla e si chiede come mai c’è l’essere piuttosto che il nulla, senza accorgersi che la semplice ipotesi di un puro nulla assoluto come negazione di Dio è una pura assurdità. Sarebbe come chiedersi come mai Dio esiste piuttosto che non esistere. Per questo non arriva a comprendere Dio come causa prima. E per conseguenza non è capace di formarsi il concetto di Dio creatore delle cose dal nulla. 

4. La corretta domanda metafisica non è perché esiste l’essere e non piuttosto il nulla, ma: perché esiste l’ente contingente? Chiedersi infatti perché esiste l’essere è come chiedersi perché esiste Dio. Immaginare un assoluto nulla senza nulla di esistente è possibile solo con la fantasia, ma per chi vuol guardare alla realtà è una pura assurdità. È una domanda che non ha senso.

Sensata invece è la domanda: perché esiste il contingente, che di per sé potrebbe non esistere? L’essere come tale non può non essere perché implica l’essere necessario. Su ciò aveva ragione Parmenide. E aveva ragione anche ad opporre l’essere al nulla. Parmenide è anche lo scopritore del principio di identità e non-contraddizione, benchè lo abbia formulato in un modo tale da non includere l’identità del divenire, che così nella sua filosofia sembra contradditorio. 

5. È brutta cosa l’oblio dell’essere, ma è peggio ancora l’oblio di Dio. L’uomo non può non pensare l’essere, ma può non pensare a Dio. In tal caso il pensare all’essere non fa che aggravare la sua situazione fallimentare di «essere-per-la-morte».

6. Heidegger ha fatto bene a richiamare l’attenzione sull’essere, ma ne ha un concetto sbagliato. Presenta sì l’essere come relativo all’essere umano, al finito, al tempo, al nulla, alla morte.

7. Heidegger non si è accorto che la metafisica tomista ha la perfetta percezione del primato dell’essere sull’ente, per cui essa supera la metafisica aristotelica fissata sull’ente. Conscio dell’importanza dell’essere, Tommaso si chiede quale ne è la causa e risponde affermando l’esistenza di Dio creatore, un concetto di Dio che Aristotele non poteva avere perché egli si limita ad indagare l’ente e non pensa a speculare sull’essere.

Per indagare sull’essere non occorre nessun superamento della metafisica, perché non è affatto vero, come crede Heidegger, che essa sia fissata solo sull’ente e non sappia elevarsi all’essere. La metafisica di San Tommaso è precisamente la metafisica dell’essere.

È vero che Platone ed Aristotele non pensarono di valorizzare l’essere (einai) scoperto da Parmenide, ma si limitarono alla considerazione dell’ente (on). Pensò Tommaso a valorizzare l’essere non perché si era accorto della scoperta di Parmenide, ma perché l’aveva scoperto nella Scrittura come Nome divino.

8. Heidegger non distingue l’essere per partecipazione dall’essere per essenza; e per questo gli manca la nozione analogica dell’essere che comporta i gradi dell’essere. Confonde l’essere con l’essere supremo. Per lui non c’è un più o meno essere; come per Parmenide o c’è l’essere assoluto o non c’è nulla, salvo poi a concepire l’essere come essenzialmente temporale e finito.

9. Per Heidegger non esiste Dio come un essere personale, eterno, infinito, immutabile, puro spirito, causa prima, ente supremo, fine ultimo, creatore e provvidente, giusto e misericordioso. Eppure si vanta di sapere qual è il «Dio divino», il «sacro» meglio di Cristo. Se Dio non è l’ipsum Esse subsistens, chi è Dio per Heidegger? A quale Dio Heidegger ci vuole condurre? Che Dio è il suo? È il Padre che è nei cieli o è il dio di questo mondo?

10.L’uomo è certamente orientato a porsi la domanda sull’essere, ma resta uomo anche chi non la pone. È sbagliato definire l’uomo con la categoria dell’essere. L’uomo non è un trascendentale, ma è un ente categoriale, appartenente al genere sostanza vivente. Il definire l’uomo con metodo metafisico conduce a dare troppo all’uomo, per cui sembra che l’uomo sia intrascendibile e che l’essere dipenda da lui e dare troppo poco all’essere, che viene ridotto a un prodotto dell’uomo o un pensato dall’uomo.

11. Non bisogna confondere l’essere col pensare e col volere. La riduzione dell’essere a pensiero porta all’idealismo; la confusione dell’essere col volere porta al volontarismo. L’intellettualismo in quanto presupposto del sapere riguardo al volere è principio di libertà. Il volontarismo in quanto forzatura dell’intelletto è principio di violenza.

12. Bisogna distinguere l’essere in quanto essere dall’essere vero. Occorre distinguere l’esser vero dal vero essere o verità dell’essere. Il vero essere non è quello di Heidegger, ma quello cristiano illustrato da San Tommaso.

L’essere non suppone niente; il vero suppone il rapporto con l’intelletto pratico o speculativo. Non bisogna confondere la nozione dell’ente in quanto ente con la nozione del vero. Questa suppone il rapporto del pensiero con l’essere e quindi l’essere in rapporto al pensiero. La verità dell’essere suppone l’essere che appare al soggetto, appare a me. Ma io non sono necessario perché ci sia l’essere. L’essere esiste anche senza di me e non appare a me. L’essere non dipende da me, ma sono io semmai che dipendo da quell’essere che mi ha creato, ossia da Dio, il quale potrebbe esistere benissimo anche senza di me e non è obbligato ad apparire a me.

13. Heidegger non accetta la concezione cristiana dell’essere, che comporta l’essere creatore dal nulla. Egli non distingue così l’essere creato dall’essere increato, Dio.  Ora io non sono l’essere, ma ho l’essere. Non sono l’essere in assoluto, ma sono solo qualcosa, una creatura davanti alle altre creature. L’essere non è necessariamente l’essere umano. L’io sono cartesiano è una storpiatura dell’Io Sono biblico. Solo Dio può dire di sé: io sono. Io posso dire solo che esisto o che sono qualcosa che mi riguarda.

Heidegger si vanta di sapere che cosa è l’essere meglio di Gesù Cristo. Per lui il creazionismo biblico è nichilismo perché intende il provenire delle cose dal nulla come se esse da sole si dessero l’essere, cosa evidentemente assurda, ma, come sa qualunque cristiano che conosce il Catechismo, la provenienza delle cose dal nulla significa che è Dio, che, con la sua onnipotente azione creatrice le trae dal nulla. Allora si salva il principio di causalità, che vuole che il passaggio dalla potenza all’atto o dal possibile all’attuale avvenga in forza di un ente già in atto.

Ma questa offesa al principio di causalità appare nella concezione heideggeriana dell’uomo come essere che supera sé stesso. Proprio Heidegger che tiene tanto a sottolineare, anche all’eccesso, la fragilità, precarietà e finitezza delle forze umane, nega poi alla natura umana i confini o limiti fissati da Dio creatore e concepisce un superuomo, un agente dotato di tale potenza attiva ontologica da produrre un effetto – il trascendimento di sè od oltrepassamento del proprio limite – causato dalla condizione di partenza che comporta un livello ontologico inferiore a quello dell’effetto prodotto.

14. Che l’uomo possa e debba trascendere sé stesso intenzionalmente lo aveva detto già Sant’Agostino: ma al grande Dottore della Chiesa non era passata neanche per l’anticamera del cervello l’idea che l’uomo potesse innalzare o aumentare la propria essenza al di là dei limiti assegnatigli da Dio, come se la nostra natura fosse un palloncino che si gonfia col soffiarci dentro.

15. Il nulla di cui parla Heidegger, che sarebbe segno e nascondimento dell’essere, potrebbe avere un valore teologico se volesse significare che per il nostro concetto dell’essere, Dio è nulla di tutto ciò che noi concepiamo, nella finitezza della nostra ragione, come essere, ma che in realtà Dio è l’ipsum Esse.

Ma Heidegger col suo concetto del nulla non intende assolutamente questo: il nulla per lui rivela l’essere come fenomeno, come essere-per-me, posto-da-me, come progetto ed evento, come storicità o temporalità, come finitezza, perchè questo è l’essere di Heidegger, Egli non vuol sentir parlare di Esse subsistens, né di essere personale, eterno, infinito, immutabile, assoluto, puramente spirituale.

16. Heidegger non nega che Dio esiste ma non afferma neppure che esiste. E non è neppur chiaro qual è il suo concetto di Dio. Non è l’ente supremo, non è l’ipsum esse, non è l’essere perfettissimo, non è la causa prima, non è il creatore. E allora? D’altra parte l’essere di Heidegger - essere dall’uomo e per l’uomo e vertice dell’uomo - non ha tutta l’apparenza di un idolo? Può l’uomo vivere senza sapere se Dio c’è o non c’è?

Da dove ricava Heidegger il suo concetto dell’essere.

Heidegger attinge alle più svariate fonti, tranne da quella dove avrebbe potuto trovare il giusto concetto dell’essere: San Tommaso ed Aristotele. Egli infatti, negando che la Bibbia sappia che cosa è l’essere, ed affermando che essa  collega falsamente l’essere con Dio, ritiene di sapere per esperienza  meglio della Bibbia che cosa e l’essere e di possedere così un più alto e più vero concetto di Dio basato sulla sua concezione  dell’essere, concezione che egli  attinge all’àpeiron inintellegibile di Anassimandro, all’einai panteistico di Parmenide, al divenire di Eraclito, all’essere umano di Protagora, all’io sono di Cartesio, all’io penso di Kant, all’io opero di Fichte, all’essere come volere di Schelling, all’essere-nulla di Hegel e all’essere come volontà di potenza di Nietzsche.

Per Heidegger la nozione dell’essere non la formiamo a seguito dell’atto del giudizio di esistenza di qualcosa, giudizio col quale affermiamo l’essere o l’esistere di qualcosa e separiamo in questo giudizio l’essere materiale dall’essere spirituale, dal che formiamo la nozione analogica, gerarchica e partecipativa dell’essere, che può essere sia materiale che spirituale, sia pura forma (il nus di Anassagora, l’idea platonica e il pneuma di San Paolo) che composto di materia e forma.

Heidegger non sa nulla né del puro spirito, né dell’eterno, né di forma, né di materia, né della sostanza, né degli accidenti, né di analogia, né di partecipazione, né di gradi dell’essere e del sapere e pretende di sapere che cosa è l’essere meglio di Aristotele, meglio della Bibbia, di Gesù Cristo e di San Tommaso.

Heidegger vuol parlare dell’essere solo con un linguaggio poetico, allusivo, oracolare, rivelativo, metaforico, immaginoso, simbolico, accantonando o ignorando o fraintendendo tutte le nozioni proprie e necessarie di atto e potenza, essenza e natura, materia e forma, causa ed effetto, mezzo e fine, ente analogo, univoco ed equivoco, ente ideale (di ragione) e reale, sostanza e accidenti.

Gli resta ben poca cosa: la domanda sull’essere, peraltro malformulata alla maniera di Leibniz, domanda che si chiede il perché di ciò che è già perchè. Resta la distinzione fra lo svelato e il nascosto, fra il presente e l’assente, l’aperto e il chiuso. Ora però, che l’essere sia presente o assente, svelato o velato, aperto o chiuso, conosciuto o sconosciuto, l’essere è sempre l’essere.

Notiamo la sua confusione fra il verum e l’ens ut ens,  il suo insistere ossessivo sull’essere e sull’oblio dell’essere, senza mai chiarire cosa intende per «essere», l’inutile distinzione fra metafisica («ontico») ed ontologia («ontologico»), la sostituzione del concetto con l’esperienza, l’apprensione al posto del giudizio,  la negazione dell’ente, l’affermazione del nulla, l’identificazione dell’essere con l’essere umano, l’uomo come apertura all’essere, il «sacro» di Hölderlin,  il rifiuto di Dio come ente supremo e causa prima, il «Dio divino» superiore al Dio biblico di Gesù Cristo, la distinzione fra trascendentale e categoriale, che egli peraltro intende in senso idealistico kantiano e non tomista.

Ci chiediamo: questo Dio «divino», che non è l’ipsum Esse subsistens di San Tommaso, di Cristo e di Mosè, non è il Dio ente supremo, causa prima, creatore del mondo e dell’uomo, che Dio è? Non è certamente il vero Dio. Ma allora chi è? L’uomo? Il dio di questo mondo? Il demonio?

Bibliografia

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M.-D.Philippe, L‘être. Recherche d’une philosophie première, Éditions Téqui, Paris 1972, pp.157-166.

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Andrea Colombo, Heidegger l’esistenzialista, in I maledetti. Dalla parte sbagliata della storia, Lindau, Torino, 2017, pp.61-73.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 luglio 2024


Tommaso dice che l’essere è così importante che può restare da solo anche senza un’essenza o un soggetto da lui distinti. L’essere è analogico e non univoco. All’analogato sommo corrispondono gli analogati inferiori. Ossia, come dice Aristotele, «si dice in molti modi». Il concetto dell’essere è polisenso, ha molti significati simili o diversi fra loro, senza con ciò cadere nell’equivoco, perché tale polisemìa avviene secondo una proporzionalità, per cui tutti i significati sono coordinati e convergono verso un uno solo, imperfettamente uno, che è appunto il concetto dell’essere come atto dell’ente. Uno in senso assoluto è solo l’uno di numero e un singolo ente e soprattutto Dio il sommo ente (monoteismo), come dice il Concilio Vaticano I: «una singularis substantia».

Il bambino sa che cosa è l’essere perché usa il verbo essere, ma non ha la nozione esplicita dell’ente e ciò è testimoniato dal fatto che non sa usare la parola «ente». Nessuno spiega al bambino che cosa è l’essere, ma lo capisce da solo.

Certamente il bambino, allorchè comincia a pensare, forma il concetto dell’ente, che, come insegna San Tommaso, è il primo dei concetti che formiamo, spontaneamente, senza che gli venga spiegato, concetto implicito nel concetto della quiddità della cosa materiale. È il più ampio, il più vasto ed universale di tutti i concetti, nel quale tutti si risolvono. Il bambino non usa il termine «ente», ma usa l’equivalente «cosa», nozione anche questa che egli concepisce spontaneamente non perché gli venga insegnata.

Per Heidegger invece la nozione dell’essere non la formiamo a seguito dell’atto del giudizio di esistenza di qualcosa, giudizio col quale affermiamo l’essere o l’esistere di qualcosa e separiamo in questo giudizio l’essere materiale dall’essere spirituale, dal che formiamo la nozione analogica, gerarchica e partecipativa dell’essere, che può essere sia materiale che spirituale, sia pura forma (il nus di Anassagora, l’idea platonica e il pneuma di San Paolo) che composto di materia e forma. 


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[1] Sum. Theol., I, q.54, a.1.

[2] Quodlibetum XII, q.5, a.5.

[3] In II Sent., D.1.q.1, a.1.

[4] Contra Gentes, I, c.23.

[5] Contra Gentes, II, c.53.

[6] Sum. Theol., I, q.4, a.2.

[7] Ibid., a.1, ad 3m.

[8] In II Sent., D.1, q.1, a.4.

[9] In I Sent., D.8. expos. Textus.

[10] In I Sent., D.33, q.1, a.1, ad 2m.

[11] De veritate, q.23, a.4, ad 7m.

[12] Essere finito ed essere eterno, Città Nuova Editrice, Roma 1988.

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