Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant - Alle origini del modernismo - Terza Parte (3/5)

 

Il cogito di Cartesio e la rivoluzione copernicana di Kant

Alle origini del modernismo

 Terza Parte (3/5)

 Leggiamo quest’altra tesi:

 

«lo spirito, usando della sua propria libertà, suppone che tutte le cose, della cui esistenza è possibile anche il minimo dubbio, non esistano, riconosce essere assolutamente impossibile che, frattanto non esista egli stesso»[1].

Osserviamo che nella ricerca del fondamento della verità la libertà non c’entra niente. Occorre invece la massima attenzione dell’intelletto alla realtà e la disponibilità ad arrendersi all’evidenza. Non si tratta assolutamente di creare dei dubbi artificiali. Non si tratta di dubitare dell’indubitabile, anche se certo occorre verificare se ciò che sembra certo è veramente certo. 

 

La via alla verità ovvero il dubbio metodico

non è il dubbio voluto, ma il dubbio ipotetico

Compito del filosofo non è quello di rompere con questa tradizione, non è quello di mettere in dubbio tutto quello che l’umanità, compreso Gesù Cristo, ha pensato prima di lui. Non è quello di dubitare dell’indubitabile per concludere che il principio primo della certezza, del sapere e della verità è la certezza di dubitare.  

Infatti non dimentichiamo che il cogito cartesiano significa dubito, sono certo di dubitare di tutto. Il dubbio cartesiano non è vero dubbio metodico come quello di Aristotele, Agostino e Tommaso, dubbio che si rivela assurdo e che viene quindi respinto con l’accoglienza della verità, ma è un dubbio sistematico, un dubitare per principio, per cui ciò che nel cartesianismo vien dato per certo, è sempre sotto l’ipoteca del dubbio.

Contrariamente a quanto crede Cartesio, il dubbio universale non è giustificato dall’esistenza dell’errore, che è un fatto accidentale e non costitutivo della facoltà conoscitiva, la quale al contrario conosce naturalmente la verità, altrimenti il soggetto non potrebbe neppure accorgersi di sbagliare. La potenza naturale non può errare perché è il criterio per accorgersi che ci si sbaglia, ossia per riconoscere l’errore. Sappiamo di errare appunto perchè conosciamo il vero al quale paragoniamo l’errore. Ma se i sensi o l’intelletto sbagliano per natura, allora non si può neanche sapere di errare.

Come ci spiega San Tommaso, riprendendo Aristotele nella sua difesa del principio di identità e di non contraddizione nel IV libro della Metafisica, il filosofo che vuol giustificare il principio del sapere, della certezza e della verità deve certamente affrontare l’universalis dubitatio de veritate[2], domandandosi se è possibile, per concludere però immediatamente che tale dubbio può solo essere significato ma non realmente esercitato,  perchè comporterebbe la soppressione o l’autodistruzione del pensiero, giacchè, se sosteniamo una tesi, supponiamo che sia vera, altrimenti non la sosterremmo neppure. Il dubitare non è vero pensare, ma è solo l’oscillazione inconcludente del pensiero, così come la fibrillazione cardiaca non è il battito normale, ma può essere segno di morte. Il cogito cartesiano distrugge se stesso, perché è un pensare senza oggetto.

Si può dubitare ragionevolmente di qualche cosa in particolare, di non dimostrato, di dedotto; ma non si può dubitare di tutto o dell’evidenza, compreso l’atto col quale ne dubitiamo. Dunque esiste con certezza una realtà davanti alla nostra mente, oggetto della nostra conoscenza.

Le certezze che Cartesio ci assicura di recuperare col suo dubbio e il suo cogito, non avevano affatto bisogno di essere recuperate, perchè sono certezze da se stesse e fondamento di tutte le altre, per cui dubitare di esse non è saggezza, ma follia e stoltezza, è inganno e doppiezza.

 

La soluzione cartesiana del dubbio

 ovvero dalla padella alla brace

Cartesio si appella al buon senso, alla coscienza e alla ragione. Ma sono proprio questi i princìpi che gli mancano. Il buon senso è il saper cogliere il vero per mezzo dei sensi ed egli dubita dei sensi. La coscienza è sì il riflettere sulle proprie idee, ma noi le possediamo perché in precedenza abbiamo conosciuto con i sensi[3]. La ragione è sì il dedurre una conclusione da un principio, ma questo principio, il principio di identità dell’ente, lo possediamo non per autocoscienza, ma perchè lo abbiamo dedotto dall’esperienza.

Ora, per fondare il sapere è chiaro che occorre il buon senso. Quindi è stolto credere, con Cartesio, che i sensi ci ingannano, perché il sapere comincia da qui, anche se il suo vertice è in ciò che nell’intelletto intende, ossia l’ente metafisico e analogo.

Per fondare il sapere non c’è da ragionare, ma da vedere, come già sapeva Platone. Una volta visto l’ente con l’intelletto, una volta che l’intelletto distingue la causa dall’effetto, allora da lì la ragione parte per risalire o salire dagli effetti alle cause e per spiegare gli effetti in base alle cause e quindi costruisce il sapere.

Per trovare e riconoscere il principio del sapere e della certezza bastava a Cartesio che avesse riflettuto sul fatto che l’oggetto dell’intelletto è l’ente.  Ora invece nelle sue Meditazioni metafisiche Cartesio non fa parola né dell’intelletto né dell’ente, che sono invece i due elementi essenziali per fondare il principio della verità e della certezza. Ma che razza di metafisica è quella che ignora la nozione dell’ente? Quella che non si domanda con Aristotele: che cosa è l’ente? (ti to on?).

Il principio primo e più certo di tutto il nostro sapere, quello che fonda ogni scienza e dimostrazione, evidente da sé, non è l’autocoscienza, che ne è solo un’applicazione particolare nel caso del proprio io, ma il principio di non-contraddizione[4], principio della logica, fondato su quello di identità[5], principio dell’essere, che Aristotele espone nella sua Metafisica, e che conviene leggere nel commento che ne dà San Tommaso.  Anche qui Cartesio non ha capito, perché lo ha scambiato per una tautologia.

Le idee sono oggetto della logica, non della metafisica. Ma a Cartesio gli insegnamenti ricevuti a La Flèche non gli avevano insegnato la distinzione? O lui non l’ha capita? Ma se si confonde l’essere con l’idea dell’essere si è già idealisti avviati al panteismo, giacchè l’identificazione del pensare e dell’essere è propria solo del pensare divino, non di quello umano.

Già significativo è il titolo dell’opera cartesiana: Meditazioni, il che rimanda all’atto riflessivo proprio del meditare. Ma la metafisica non è anzitutto un riflettere, non è un atto di coscienza o autocoscienza, anche se non lo esclude, bensì è un guardare (theorein) a ciò che ci è dato e ci sta davanti, un indagare sulla realtà che non è prodotto del mio pensiero, ma è creata da Dio senza di me.

Nella metafisica, prima di prender coscienza di quello che già so o delle idee che sono in me, si tratta di constatare a posteriori, induttivamente, intuitivamente e immediatamente che ci sono i fatti, i dati empirici, ci sono gli enti, ci sono le cose e ci sono io. Si tratta di saper motivare quello che esiste e che, non fondato su se stesso, non è ragione a se stesso, applicando per induzione astrattiva il principio di causalità al nostro io e alle cose che ci stanno attorno e che vediamo e sentiamo.

Dubitare in certi casi lo esige la ragione ed è giusto e doveroso. Sospettare fondatamente che non sia vero ciò che appare vero può esser segno di acume critico, di prudenza e cautela intellettuale, può esser segno di una ragione esigente, di serietà scientifica. Verificare se ciò che ci è presentato come vero lo è veramente, denota razionalità e rigore scientifico e un sincero amore per la verità.

Ma il sospettare immotivatamente di falso ciò che viene comunemente ammesso e appare evidente a tutti va fatto cum grano salis e non per partito preso o per il gusto di dubitare senza motivo o per mettere in crisi gli altri. È invece da ingenui e creduloni non accorgersi di un errore nascosto sotto un’apparente verità. Non è sempre detto che sia vero ciò che tale appare.

Riconoscere per dubitabile e non dar per certo ciò che si afferma per via di ipotesi o semplice opinione, non confondere l’argomentazione dialettica con la scienza, evitare argomenti sofistici, è segno e dar prova di saggezza, modestia ed onestà. Darlo per certo è fare gli spacconi e gli imbonitori, è presunzione ed esibizionismo, è pretesto per sottrarsi agli obblighi morali imposti dalla verità e fare i  propri comodi.

Dubitare di ciò che è certo, come fa Cartesio, può dar l’impressione di straordinario acume critico, ma è in realtà sciocco esibizionismo, laccio per gli incauti, e scusa per il proprio libertinaggio. E lo stesso biasimo meritano coloro che per gli stessi motivi creano problemi che non esistono. Tra costoro purtroppo si deve annoverare Cartesio.

Cartesio ci dice che noi possiamo avere la certezza di dubitare. Va bene, io posso avere questa certezza; ma a che mi serve tale certezza? A me non interessa tanto la certezza di pensare o dubitare, quanto piuttosto di poter pensare la verità delle cose, ciò che è oggettivamente certo e non ciò che io decido o voglio che sia certo.

La vera certezza è quando l’intelletto smette di oscillare e si ferma perchè necessitato o dall’evidenza o dalla dimostrazione della cosa, in modo da escludere l’alternativa opposta, e non dal fatto che io scelgo a mia discrezione senza motivo una delle due alternative.

In altre parole, se è vero che la verità del mio sapere dipende dalla mia buona volontà di adeguarmi al reale così com’è, la verità delle cose non dipende da una mia scelta o decisione, io non sciolgo il dubbio su di esse in questo modo, perché esse possiedono la loro verità già da se stesse; esse sono presupposte al mio pensarle, non dipendono da ciò che io penso di loro. Esse restano le stesse qualunque cosa io pensi di loro, perché la loro verità non dipende dal mio decidere se ci sono o cosa sono, ma dal fatto che esse sono effetto della volontà di Dio che le ha create. A loro non interessa niente che cosa io pensi di loro; a loro interessa essere come Dio le vuole. 

Se lo sciogliere un dubbio reale e angoscioso è altamente meritorio e segno di alta filosofia, sciogliere un dubbio artificioso che spaventa e sconcerta, creato apposta per far poi la figura del genio al momento di scioglierlo, non è cosa dignitosa, ma segno di un animo crudele e narcisista. Non è questa l’impresa del filosofo, ma semmai spettacolo da circo o gioco da prestigiatore o scherzo da salotto. Chi fa cose del genere non può meritare l’altissimo titolo di fondatore della filosofia moderna.

Cartesio, davanti a tutta l’umanità e alle generazioni future, vuol fare la figura di sciogliere il dubbio più serio che fino ad allora fosse mai stato concepito, quello concernente l’esistenza della verità e il principio del sapere. E si convinse che grazie al suo ritrovato geniale ed inaudito, al quale nessuno prima di lui aveva mai pensato[6], il famoso cogito, l’umanità da allora in poi avrebbe potuto procedere sicura sulla via della verità.  

I suoi seguaci sono convinti di vivere oggi in un’umanità finalmente giunta a maturità, al livello della ragione e della scienza, dopo aver definitivamente superato e abbandonato i tempi arcaici, ossia la mentalità dualista e oggettivista precedente a Cartesio. Per questo provano una tollerante commiserazione per tutti quegli uomini tuttora viventi, come in particolare i cattolici, avanzi del passato, ancora fermi alla grecità di Aristotele, al realismo ingenuo e mitologico di Gesù Cristo e della filosofia scolastica di San Tommaso, tuttora ignari del valore incomparabile della filosofia moderna.

Io sono o io esisto?

È vero che Cartesio, quando parla dell’io, è ben lontano dal pensare all’io trascendentale di Kant o all’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel o Husserl o Gentile. Egli pensa al suo io umano individuale empirico di Renato Cartesio, anche se è vero che intende parlare dell’io umano come tale. Tuttavia lo concepisce in modo così iperbolico e spropositato, che lascia spazio per sviluppi panteistici, che non penso fossero nelle intenzioni di Cartesio, ma che di fatto si possono logicamente dedurre da quanto Cartesio dice di questo io.

Infatti, un io che coglie se stesso come pensante – ma poi pensante che cosa? - a prescindere da un precedente contatto sensibile con le cose, contatto che viene escluso perché inattendibile, un io puro spirito, inteso pensante per essenza (res cogitans) e non per l’attuazione di una potenza o facoltà come avviene in noi, quindi una ragione sussistente e non semplice facoltà di un soggetto, l’esistere di un io che pensa e che è identicamente il suo essere e il suo pensare  (cogito-sum), che io è? Che ragione è? Che soggetto è? Che uomo è? Che essere è? Che pensare è? È solo un io umano o qualcosa di più?

E inoltre questo sum come tradurlo? Io sono? Ma solo Dio può dire di sé Io Sono (Es 3,14). Di me invece posso solo dire io esisto. Un conto infatti è l’essere in atto, l’esistere, l’attuazione del possibile e un conto l’atto d’essere o essere come atto di una potenza, essere che io posseggo non come atto sussistente, ma atto della mia potenza di essere Giovanni, atto creato da Dio e partecipato dello essere sussistente che è Dio. Se confondo qui l’esistere con l’essere, mi faccio Dio. Cartesio si rese conto di questo rischio? Il semplice sum è ambiguo, perché può significare sia sono che esisto.

Osserviamo inoltre che la metafisica è un sapere aperto all’universalità dell’essere.  Essa riguarda certo il fondamento di tutte le scienze e di tutte le certezze. Ma la metafisica si apre all’essere non perché lo deduce dall’autocoscienza dell’essere di un individuo umano, ma astraendo da ogni ente ciò che ogni ente possiede, che è appunto l’essere.

Che io possa dal mio essere ricavare il concetto dell’essere universale, è certo possibile. Ma io giungo alla coscienza del mio essere non semplicemente per un atto di riflessione su di me, ma sulla base di una precedente conoscenza dell’essere delle cose. È questo essere, oggetto del sapere fisico, il punto di partenza per arrivare al mio essere e al mio pensare l’essere. Mancando di questo presupposto, la mia coscienza sarebbe vuota e io dovrei ancora cominciare a pensare come un neonato di tre settimane.

D’altra parte è vero che Il cogito è strettamente legato al sum. Ma qual è l’esatto significato dell’ergo? È una deduzione, una conseguenza, una conclusione logica? Così sembrerebbe, ma, come lo stesso Cartesio spiegò[7], così non è. Lo ha spiegato bene Hegel laddove, chiamando Cartesio «fondatore della filosofia moderna»[8], afferma che il cogito ergo sum è la «la proposizione attorno alla quale si aggira tutta la filosofia moderna».

Kant ripete l’impresa di Cartesio

Il modo kantiano nell’affrontare il problema della metafisica non è diverso da quello cartesiano. Sono entrambi convinti che fino al loro tempo l’umanità non aveva raggiunto un saldo principio del sapere. Kant si mostra cartesiano in questa convinzione così come Cartesio credette che spettasse a lui rifondare la metafisica. Tuttavia Kant non pretende correggere Cartesio. Al contrario riprende anche lui il principio del cogito, che Kant chiama «io penso» o «appercezione trascendentale.

Come Cartesio, Kant ritiene che fino al suo tempo, seguendo col metodo aristotelico, ossia realista, di basarsi sulle cose esterne, per fondare la metafisica, si sia sempre sbagliato. Da come imposta il suo discorso, si capisce che egli ritiene invece che Cartesio abbia trovato la via giusta. Per questo si capisce bene, come risulta dallo svolgimento della Critica della ragion pura, che egli parte da lui.

Infatti nell’ argomentazione nella Prefazione alla II edizione e nell’Introduzione all’opera, Kant non accenna mai a Cartesio. Pare non tener conto della sua fondazione della metafisica. Ma in realtà ne imita l’atteggiamento presuntuoso di chi crede di aver trovato finalmente la verità dopo un infinito passato di illusioni.

E Kant giunge agli stessi risultati: abbiamo così che invece dell’intelletto che indaga sull’ente, il compito della metafisica diventa quello di collezionare dati di coscienza, come se tutta la realtà si esaurisse nei contenuti di coscienza e non ci fosse fuori di essa una realtà ben più vasta, profonda e superiore di quanto è contenuto nella nostra coscienza.

L’impostazione di Kant è dunque simile a quella di Cartesio: come Cartesio cambia l’orientamento del pensiero dal realismo all’idealismo, Kant fa la stessa cosa con la sua rivoluzione copernicana. Come in Cartesio non è l’idea ad essere funzionale al reale, ma è il reale ad essere relativo all’idea, così in Kant non è più il soggetto che gira attorno all’oggetto, ma è l’oggetto che gira attorno al soggetto. È quella che Rahner chiama la «svolta al soggetto» e Maritain «l’avvento dell’io». In parole povere, puntare sull’oggetto non serve a nulla. Bisogna volgersi al soggetto. Con quale risultato? Vediamo.

A differenza di Cartesio, il quale, pretendendo di fondare la metafisica con un’opera del tutto personale che non ha bisogno di confrontarsi con nessuno, per cui non cita mai nessun filosofo, salvo poi a risentire dell’influsso dell’essenzialismo  suareziano appreso a La Flèche[9], Kant ha il buon senso e la modestia di partire confrontandosi con l’empirismo di Locke e Hume da una parte e il razionalismo di Leibniz e Wolff dall’altra, nel tentativo di instaurare un accordo fra esperienza e ragione, sempre però sulla base del cogito cartesiano («io penso»).

Per fare quest’opera di fondazione, Kant pensa di prendere in considerazione la ragione e impegnarla in un esame su se stessa per verificarne i limiti e la capacità e vedere che cosa in metafisica può dire con certezza e che cosa no. Kant riconosce che noi in generale, per giungere a un sapere razionale abbiamo bisogno di partire dall’esperienza. Da qui i giudizi sintetici a priori, che uniscono concetti a priori con i dati a posteriori dell’esperienza.

Ma questa è la scienza dei fenomeni fisici. Ora, qual è invece l’oggetto della metafisica? Kant si limita a dire che sarebbe una realtà che trascende l’esperienza, ma non precisa quale realtà. Stranamente non ricorda che l’oggetto della metafisica è l’ente in quanto ente e le proprietà dell’ente. Oggetto della metafisica è anche la cosa in sé in quanto realtà esterna o il proprio stesso io, realtà che  possono essere materiali o spirituali.

Ma Kant limita la cosa in sé alla sola realtà materiale. Tuttavia egli ha ben presente il mondo dello spirito, della scienza, del noumeno, dell’incondizionato, dell’assoluto, del trascendente, del trascendentale, del pensiero, della coscienza e della ragione.

Per Kant la metafisica è la scienza della «ragion pura», la ragione che si occupa di se stessa e del suo mondo interiore, nel quale è presente un sistema di «concetti puri» o di «idee» (Cartesio diceva «innate»), non tratti dall’esperienza, precedenti l’esperienza, «a priori», condizioni di possibilità dell’esperienza. Ragion pura vuol dire non mescolata con l’esperienza, come è invece la ragione fisica, o con l’immaginazione, come è la matematica.

È evidente qui l’influsso del cogito cartesiano col suo mondo interiore di idee innate, precedente l’esperienza sensibile del mondo esterno. La differenza con Cartesio è che Kant non ha alcun dubbio sull’esistenza delle cose sensibili. Tuttavia, a differenza di Cartesio, il quale, una volta garantito dalla veracità divina, non ha difficoltà a ritenere di conoscere l’essenza delle cose, Kant qui ha un atteggiamento agnostico, anche se ha il merito di formare il concetto di «fenomeno», come oggetti della fisica sperimentale.

Mancando tuttavia di una base filosofica aristotelica, Kant soffre nocumento dalle predette due correnti di pensiero, gli empiristi e i razionalisti, entrambe ignare della vera natura ed importanza della categoria analogica della sostanza e in particolare della forma sostanziale, già ripudiata da Cartesio. L’apprezzamento del valore analogico della sostanza, viceversa, avrebbe consentito a Kant di accordare veramente senso e intelletto, materia e spirito, coscienza e conoscenza, ente ed essenza, pensiero ed essere.

Infatti, mentre l’empirismo nasconde a Kant l’entità della sostanza, ridotta a un cumulo di sensazioni, il razionalismo parimenti ignora questa entità, privandola dell’atto d’essere e della sussistenza e riducendola all’estensione matematica e all’essenza individuale.

Ne soffre il concetto kantiano della cosa, che perde la sua sostanzialità materiale e spirituale, nonchè la dottrina dell’anima umana come forma sostanziale del corpo. Kant parla anche di spirito, ma non ne spiega la natura e lo separa dalla realtà della cosa che diventa del tutto inintellegibile, un esistente senza essenza, benché Kant si ostini a chiamarla noùmeno, ma verrà eliminata da Fichte, per trasportare tutto l’essere nel pensiero e nell’io.

Inoltre Kant risente simultaneamente della concezione humiana empirista della ragione e della concezione apriorista, razionalistica, cartesiana, pensando di conciliarle tra di loro, ma in realtà senza accorgersi della loro incompatibilità, essendo peraltro entrambe false concezioni della ragione. Infatti, mentre Kant assume da Hume il concetto di ragione speculativa, la quale, partendo dall’esperienza non riesce a dimostrare l’esistenza di Dio e l’assolutezza del dovere morale: Prende da Cartesio il concetto di ragion pratica la quale postula l’esistenza di Dio come ideale della ragion pratica la quale vuole assolutamente adempiere al dovere morale nei confronti del proprio io e del prossimo.

Kant non ammette quindi una ragione divina creatrice, trascendente e superiore alla ragione umana, che dia legge a quest’ultima ordinandole quali azione deve compiere per raggiungere la virtù e la perfezione morale. Kant prende da Cartesio il concetto di ragione umana che discende dal concetto di res cogitans: la ragione non è una facoltà, un accidente della sostanza umana, ma è l’uomo stesso, è una ragione sussistente come la ragione divina. Quindi la ragione è divina per se stessa. Questo è il concetto kantiano di autonomia della ragione.

Kant, ingannato dallo scetticismo di Hume, accusa di dogmatismo il realismo per la sua convinzione di poter fondare la certezza metafisica e quindi dimostrare l’esistenza di Dio a partire dall’esperienza e non si accorge di cadere lui stesso nel dogmatismo credendo di poter risolvere il problema della verità non con l’intelletto come fa il realista, ma con la volontà, come aveva fatto Cartesio col suo cogito.

Così succede che la ragion pratica kantiana non mette in pratica ciò che la ragione speculativa vede ed ha dimostrato. Non è che io compio il mio dovere perché so che Dio esiste e, mi ha creato in quanto soggetto a certi doveri. No; io so già per conto mio, in base alla mia ragione, quali sono questi doveri, li decido io, mi sento da essi obbligato e, avendo l’idea di Dio come idea suprema della ragione ed ente supremo creatore e legislatore dell’uomo, senza che io possa dimostrare con la ragione speculativa che questo Dio esiste veramente, voglio o postulo questa esistenza fittizia che mi è utile per affermare la mia volontà.

Così in Kant resta la speculazione intellettuale per la scienza dei fenomeni, come in Hume, ma la metafisica, la morale e la teologia, come in Cartesio, hanno un fondamento volontaristico, così come il cogito cartesiano non dipende dall’intelletto necessitato dall’evidenza oggettiva, ma dalla decisione della volontà che dà per certo ciò di cui si dubita. Infatti io penso vuol dire io dubito.

C’è da dire quindi che l’operazione fatta da Cartesio e Kant per fondare la metafisica idealista è stata simile quella di Protagora che vede nell’uomo e non in Dio la regola della verità – e Platone lo rimprovera di ciò[10] -, sia Cartesio che Kant spostano il riferimento del vero dall’oggetto al soggetto, dall’essere al pensiero.

Fine Terza Parte (3/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 aprile 2024



Come ci spiega San Tommaso, riprendendo Aristotele nella sua difesa del principio di identità e di non contraddizione nel IV libro della Metafisica, il filosofo che vuol giustificare il principio del sapere, della certezza e della verità deve certamente affrontare l’universalis dubitatio de veritate, domandandosi se è possibile, per concludere però immediatamente che tale dubbio può solo essere significato ma non realmente esercitato,  perchè comporterebbe la soppressione o l’autodistruzione del pensiero, giacchè, se sosteniamo una tesi, supponiamo che sia vera, altrimenti non la sosterremmo neppure.

Per fondare il sapere non c’è da ragionare, ma da vedere, come già sapeva Platone. Una volta visto l’ente con l’intelletto, una volta che l’intelletto distingue la causa dall’effetto, allora da lì la ragione parte per risalire o salire dagli effetti alle cause e per spiegare gli effetti in base alle cause e quindi costruisce il sapere.

È vero che Cartesio, quando parla dell’io, è ben lontano dal pensare all’io trascendentale di Kant o all’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel o Husserl o Gentile. Egli pensa al suo io umano individuale empirico di Renato Cartesio, anche se è vero che intende parlare dell’io umano come tale.

Come Cartesio, Kant ritiene che fino al suo tempo, seguendo col metodo aristotelico, ossia realista, di basarsi sulle cose esterne, per fondare la metafisica, si sia sempre sbagliato.

C’è da dire quindi che l’operazione fatta da Cartesio e Kant per fondare la metafisica idealista è stata simile quella di Protagora che vede nell’uomo e non in Dio la regola della verità – e Platone lo rimprovera di ciò -, sia Cartesio che Kant spostano il riferimento del vero dall’oggetto al soggetto, dall’essere al pensiero.

Immagini da Internet: Cartesio e Kant

[1] Meditazioni metafisiche, Edizioni Laterza, Bari 1968, p.59.

[2] Commento alla Metafisica di Aristotele, Edizioni Marietti, Torino-Roma, 1964, libro III, c.1, Lect. I, n.343, p.97.

[3] L’atto riflesso dell’intelletto è molto importante in metafisica per quanto riguarda il passaggio del conoscere dall’atteggiamento naturale, spontaneo ed ingenuo del sapere diretto a quello critico, nel quale l’intelletto è consapevole di conoscere la verità. Qui l’ente appare in quanto vero, in quanto pensato. Abbiamo la verità dell’essere. Se Cartesio avesse studiato qui l’insegnamento di San Tommaso non le avrebbe dette così grosse.  Cf F.-X. Putallaz, Le sens de la réfléxion chez Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 1991; BenoÎt Garceau, Judicium.Vocabulaire, sources, doctrine de Saint Thomas d’Aquin, Vrin, Paris 1968; P.Hoenen, La théorie du jugement d’après St.Thomas d’Aquin, Apud aedes Universitatis Gregorianae, Romae 1953; Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, a cura di Luca Gabbi e Vittor Ugo Petruio, Donzelli Editore, Roma 2000.

[4] Non est affirmare et negare simul idem de eodem sub eodem.

[5] Quidquid est, est id quod est et non aliud a se.

[6] Il principio cartesiano, come ha fatto ben notare Heidegger, non è altro che una riesumazione del principio protagoreo: «La tesi di Descartes viene continuamente associata al detto di Protagora e in quest’ultimo è vista l’anticipazione della metafisica moderna di Descartes: infatti in entrambi i casi viene espresso quasi tangibilmente o primato dell’uomo» (Da Nietzsche, Edizioni Adelphi, Milano 1994, p.646). Ma potremmo chiederci: e Heidegger come ha rimediato a questo errore?

[7] A Cartesio si fece notare che anche Sant’Agostino aveva detto «si fallor, sum», ma Cartesio rispose che il suo cogito era nuovo ed diverso, perché Agostino ammetteva che la conoscenza si ricava dall’apprendimento delle cose esterne, mentre per lui anche la conoscenza delle cose si ricava dal cogito. Gilson scambia Cartesio per un agostiniano e Agostino per un idealista. Purtroppo il grande e dottissimo storico tomista della filosofia medioevale qui commette un grave errore d’interpretazione, Vedi Introduction à l’Étude de Saint Augustin, Vrin, Paris 1969, p.321.

[9] Vedi E. Gilson, Études sur le rôle de la pensée médiévale dans la formation du système cartésien, Vrin, Paris, 1975.

[10]«Il Dio è per noi la massima misura di tutte le cose, molto di più di quanto lo può essere un uomo, come i seguaci di Protagora dicono ora», Leggi, 716c.

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