Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini - Prima Parte (1/3)

 

Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini

Prima Parte (1/3)

Egli è tutto

Sir 43, 27

Tutte le cose sono a coppia

Sir 42,24

 

Alla ricerca di una visione originaria e totale della realtà

Non c’è dubbio che la filosofia in quella sua espressione fondamentale e suprema che è la metafisica, esprime il desiderio, l’aspirazione e il bisogno dell’uomo di formarsi un quadro complessivo della realtà, che possa unitariamente, ordinatamente e sinteticamente descrivere i suoi princìpi ed elementi, le sue articolazioni e modalità originarie e di fondo, in modo da avere una visione d’insieme – una specie di panorama -  che possa in qualche modo abbracciare tutta la realtà: una visione certa, dimostrativa, razionale, fondata, sistematica, sintetica, compendiosa, complessiva, totale, globale, completa, chiara ed unitaria della realtà, riducendo o riconducendo per quanto è possibile, tutto il sapere umano e filosofico a un'unica visione, espressa possibilmente in un minimo essenziale di proposizioni o asserzioni principiali e principali, fondamentali, evidenti, intuitive incontrovertibili, logicamente connesse fra loro e tutte dedotte da un principio primo assolutamente evidente.

Questa visione globale originaria onnicomprensiva si potrebbe paragonare al quadro di comando di un aereo o al quadro delle luci in una chiesa. Nella concezione cristiana dell’esistenza e della vita si può paragonare al Simbolo della fede.

Per fare questo lavoro, occorre scegliere un punto di vista che assicuri un oggetto così universale, che in qualche modo abbracci tutta la realtà. Questo oggetto lo ha scoperto Aristotele: è l‘ente come tale (on, ens), ciò che ha un’essenza (usia, essentia) e San Tommaso ha aggiunto: in atto d’essere (einai, esse).

Il nostro punto di partenza sono i sensi, che però sono ristretti al particolare. Bisogna pertanto assurgere all’intelletto, vera facoltà dell’universale. Non si può partire direttamente dall’intelletto, come ha creduto Cartesio, perché se non son veraci i sensi, non può esserlo neppure l’intelletto. Né l’intelletto può sostituire il senso nell’accertare la veracità del senso, ma occorre che sia lo stesso senso a farlo.

Ora però né Aristotele né i Medievali sia cristiani che musulmani pensarono di poter elaborare sinteticamente in poche proposizioni fondamentali tra di loro ordinate quella visione complessiva della realtà, ma si limitarono a compilare ampli trattati di metafisica.

È impossibile avere una visione complessiva della realtà senza che noi in qualche modo la unifichiamo. Occorre dunque avere la nozione dell’uno o dell’unità. La realtà è un insieme di enti. Per abbracciarla è dunque importante formare la nozione di ente, che ci permette in qualche modo di abbracciare tutti gli enti, giacchè è chiaro che ogni ente è un ente, per cui di ogni ente si può predicare l’esser ente, predicato universale di ogni ente. Dunque un conto è l’ente, che è un concetto, e un conto un ente tra i molti, che è cosa reale.

L’ente non è uno solo, benché possegga una relativa, non univoca ma analogica unità. Gli enti sono molti, ciascuno con la sua unità, giacchè ogni ente è un ente. Abbiamo qui l’unità ontologica o trascendentale. Uno vuol dire indiviso. L’uno è indiviso, ma può essere o divisibile o indivisibile. È indivisibile se è una forma semplice; è divisibile se è un tutto composto di parti o di elementi.

L’uno può riferirsi o alla sostanza o all’accidente della quantità. L’uno sostanziale è l’uno trascendentale, l’ente in quanto uno. L’uno accidentale o quantitativo è l’uno di numero. Sia l’uno ontologico che quello numerico sono divisibili. L’uno ontologico è qualcosa e non è l’altro, per cui esso è il principio della distinzione fra gli enti. È anche l’uno individuale, che però non può essere logicamente diviso (in-dividuus), mentre è l’effetto della divisione della specie: un individuo della specie umana. L’uno di numero come uno matematico, ossia il numero uno, appartenente alla categoria della quantità, è anche il principio della numerazione o del conteggio.

L’essere sussistente, scoperto da Parmenide, è unico e uno solo perché in certo modo, virtualmente, è tutto, non nel senso che sia tutte le cose, ma tutte le perfezioni, come ha chiarito San Tommaso. In tal modo tutto è in qualche modo uno, non nel senso che s’identifichi all’Uno, ma nel senso che si raduni attorno e sotto l’Uno.

Il difetto di Parmenide, segnalato da Aristotele è il fatto che il suo Uno negava le differenze e quindi la molteplicità degli enti. Ma non c’è dubbio che esiste un ente, Dio, che è assolutamente uno, primo di tutti gli enti e al vertice di tutti gli enti, insieme però con la molteplicità degli enti.

Parmenide non aveva quindi tutti i torti nel pensare che tutto è Uno, ma non fu capace di spiegare le differenze tra gli enti. L’opposizione dell’essere al non-essere è giusta, ma non si limita a fondare il principio di non-contraddizione; essa serve anche a spiegare le differenze fra le cose nel senso che questo non è quello e questo diventa quello. Non esiste solo la cosa, ma anche il qualcosa. Non c’è solo la cosa, ma ci sono anche le cose.

Platone capì che tutto, cioè tutte le cose, escono dall’Uno, raggiungono un termine o un limite tornano all’Uno. Egli aveva capito contro Parmenide che non c’è solo l’Uno, ma ci sono anche i molti. Il problema era come pensarli assieme in modo unitario, così però da salvare le differenze. A questo punto intervenne Aristotele con la sua idea geniale dell’analogicità dell’essere.

Platone comprese anche contro Parmenide che il due non è solo l’opposizione dell’essere al non-essere. Esso non è spregevole, ma apprezzabile, perchè esiste anche nella realtà in quanto unione dei diversi. E così Platone operò le prime distinzioni dell’essere, seguìto poi e perfezionato da Aristotele, il quale si premurò di evitare che la dualità diventasse dualismo.

Per esempio egli non contrappose come Platone l’anima al corpo, ma ne fece la forma sostanziale, così da ottenere e salvare l’unità della persona umana. Non contrappose senso ad intelletto, ma li congiunse ordinando il primo al secondo nell’atto della conoscenza. Non contrappose la materia allo spirito, ma li unì nel formare il concetto della natura umana.

Nell’ordine del pensiero Platone scoperse la dialettica e cioè che nel discorso non esiste solo l’opposizione fra il sì e il no, come aveva capito Parmenide, ma esiste anche una ricerca della verità mediante quella opposizione senza che si giunga alla certezza. Si sa che c’è la verità, ma non si riesce a trovala con certezza. Aristotele fece sua questa visione di Platone, ma elaborò anche una triade logica rigorosa, che consentisse il raggiungimento della certezza e questo fu il sillogismo dimostrativo come principio della scienza.

Plotino riprese l’intuizione di Platone, secondo il quale tutto deriva dall’Uno, esce dall’Uno e torna all’Uno. Successivamente Proclo precisò questa visione riducendo il moto del reale a tre momenti: l’inizio o la stasi (monè o stasis); il progresso o l’uscita (proodos) e il ritorno (epistrofè): il moto è circolare; l’inizio coincide con la fine. Così mettiamo assieme l’unità (il circolo) col moto (uscita e ritorno) e con la molteplicità (inizio, mezzo, fine).

Per Plotino l’Uno è un Intero che si divide dando luogo al mondo, ma poi si riunifica, facendo scomparire il mondo. È come un sole che manda luce fino ad un certo limite, raggiunto il quale, i raggi si ritirano là da dove sono venuti. Il mondo quindi per Plotino non è creato dall’Uno, ma è un’espansione dell’Uno, e non resta in eterno accanto e sotto all’Uno, cioè sotto Dio, come invece si ricava dalla teologia di Aristotele, ma è lo stesso Uno in quanto diviso, per cui al riunificarsi dell’Uno il mondo scompare nell’Uno.  

In Plotino la riconciliazione del mondo con Dio non è la pace e la comunione tra Dio e il mondo, che restano due, ma è l’identificazione del mondo con Dio. Lo stesso distinguersi del mondo da Dio, per Plotino, è già un male. E per questo, per togliere il male occorre togliere la distinzione, che è l’effetto della divisione dell’Assoluto o dell’Intero. Per Plotino come per Parmenide il due non deve permanere, perché è male. Solo l’Uno è bene. Ogni dualità è un «dualismo» da togliere. Ciò deriva da Parmenide.

La divisione dell’Uno che è Spirito comporta, secondo Plotino, il sorgere del male, che coincide, come già in Platone, con la materia, mentre il ricomporsi dell’Uno, che è buono, comporta la scomparsa del mondo, della materia e del male.

Origene fu ingannato da questa visione, per cui negò l’esistenza dell’inferno. Senonchè nella rivelazione cristiana l’inferno, certamente, se Dio avesse voluto, avrebbe potuto non esistere. Ma di fatto, secondo la rivelazione, esiste e la sua possibilità è data dal fatto che la creatura può scegliere il male. Il cristianesimo non prevede la scomparsa del male, ma la sua soggezione al bene. Scompare il peccato, ma non la pena.

Il bisogno dell’unità nell’età moderna

Il bisogno di una visione sintetica del reale, che deducesse tutto dall’uno e riducesse o conducesse tutto all’uno rinacque con Cartesio, che col suo cogito sembrava dare alla filosofia un principio più radicale e sicuro puntando sul pensiero e non sull’essere, e ponendo il pensiero come presupposto all’essere anziché come aveva fatto Aristotele, che faceva iniziare il sapere dall’esperienza delle cose sensibili ammettendo l’essere come presupposto al pensiero. 

Cartesio non rifiutava il realismo, ma pretendeva di fondarlo sull’idealismo: non è dalla realtà che si ricava l’idea ma è dall’idea che si ricava la realtà.  Da Cartesio però si poteva ricavare l’idealismo assoluto con esclusione totale del realismo, come effettivamente avvenne a partire da Fichte fino a Gentile: la realtà è l’idea, sicchè oggetto del pensiero è il pensiero. Se il pensiero non dipende all’essere, ma, come dice Bontadini, è «già per sé stesso garanzia del proprio valore»[1]; se basta a sé stesso, che bisogno c’è di cercare un essere fuori del pensiero?

Bontadini fu formato in questo clima che a tutta prima fece suo, ma presto si accorse dell’importanza decisiva e suprema dell’essere e quindi scoprì il realismo, ma non fu mai capace di assumerlo fino in fondo come avevano fatto Aristotele e San Tommaso, dei quali egli, anche come cattolico, era ammiratore. Gli rimase il pregiudizio idealista che l’essere non può essere esterno al pensiero o, come egli dice, che il pensiero è «intrascendibile».

Così Bontadini scambia per dualismo la dualità aristotelica di pensiero ed essere come se il realismo ponesse un essere estraneo al pensiero, confondendo l’esterno con l’estraneo. Per il realismo invece l’essere è esterno, ma non estraneo, anzi il pensiero è fatto per l’essere e l’essere è fatto per il pensiero; ma il primato va all’essere e non al pensiero, perché è il pensiero ad essere il prodotto dell’essere e non viceversa.

Che lo spirito abbia il primato sulla materia, d’accordo. Ma ciò non significa affatto primato del pensiero sull’essere, perché, se è vero che il pensiero è atto dello spirito, l’essere materiale è più reale dell’essere intenzionale col quale noi pensiamo le cose materiali. Cento talleri reali valgono più di cento talleri pensati. E credo che anche Bontadini, quando andava a ritirare lo stipendio di docente, su ciò sarà stato perfettamente d’accordo. E allora perché non lo dice?

Di fatto Bontadini cadde nella trappola di Cartesio e, benchè avvertisse gli errori dell’idealismo e avesse sete di realtà, non riuscì mai del tutto a liberarsi da questo impostore, che ai suoi occhi appariva addirittura lo scopritore del pensiero, come se l’umanità, compreso Gesù Cristo, prima di Cartesio, non sapesse che cosa è il pensiero.

Il pensiero di Cartesio agli occhi estasiati di Bontadini sembra assumere l’aria di una rivelazione divina che libera l’umanità dalle tenebre nelle quali era immersa da età immemorabile. Egli infatti fa queste stupefacenti affermazioni che hanno tutto il sapore di un cieco fanatismo indegno di quella grande intelligenza che fu poi tutto sommato Bontadini:

«Prima di Cartesio il pensiero era nulla, nulla come pensiero, cioè come novità, perché tutto il suo contenuto era già nell’oggetto in sé, individuato in un certo modo, cui al pensiero restava da sostituire il proprio modo (il modo del rispecchiamento), che era dunque un modo, un fatto anch’esso, come qualsivoglia; mentre questo modo del pensiero è l’unico che sia dato, l’unico fatto; il fatto (come modo) e quindi non più rispecchiamento. Tanto si riconobbe quando, partiti da esso come primo indubitabile, si vide entrare nel suo concetto, come suo essenziale contenuto, quei fatti e quei modi che prima stavano insieme con esso; prima sopra di esso, ora sotto: così il pensiero nella sua novità, nel suo valore, diventa tutto da nulla e non può rassegnarsi ad essere semplicemente qualcosa (Gentile). Tutto se stesso, dico, tutto ciò che gli compete e che gli era misconosciuto: l’Unità dell’Esperienza, il nostro mondo»[2].

È evidente il rifiuto di concepire il pensiero come ordinato all’essere, come via verso l’essere, come rappresentazione dell’essere, come adeguazione all’essere. È chiaro il misconoscimento della vera dignità del pensiero nel momento in cui si pretende di affermarla in modo spropositato, almeno il pensiero umano.

Tuttavia Bontadini si accorgerà che l’idealismo in fin dei conti finisce nel nichilismo, perché propone un pensare senza oggetto[3] (il pensiero che pensa il pensiero)[4], per cui contro di esso recupera il realismo affermando che il pensiero è pensiero dell’essere.

Il guaio sarà tuttavia che questo essere Bontadini lo intende immanente al pensiero e non trascendente il pensiero, non fuori, presupposto e indipendente dal pensiero. Dunque, finchè Bontadini ammette l’essere come oggetto del pensiero, ammette Dio; ma nel momento in cui nega l’extramentalità dell’essere, cade inevitabilmente, anche contro voglia, o nel panteismo o nell’ateismo.

La svolta di Bontadini, della quale parla Berlanda[5] consiste essenzialmente nel fatto che Bontadini, dopo aver incontrato San Tommaso, nonostante la seduzione della sirena severiniana che lo tormenterà e tenterà per anni, alla fine, dopo incertezze e un’aspra resistenza a Severino dettatagli dalla sua coscienza di cattolico, resosi ben conto di come era finito Severino, si deciderà per il teismo, benché mai del tutto libero dall’idealismo.

A questo punto possiamo vedere la differenza fra la totalità idealista e quella realista, fra l’unità idealista e quella realista e perché il realista rifiuti di parlare qui di «intero» e parli solo dell’unità molteplice o dell’insieme unitario di tutte le cose assieme, Dio e il mondo (Deus per quem omnia facta sunt). Per il cristianesimo e per una sana metafisica Dio è in tutto, ma anche al di sopra di tutto.

Così, mentre l’idealista vede solo Dio e le cose solo in Dio, il realista vede simultaneamente Dio e le cose fuori di Dio, senza che le cose aggiungano a Dio alcunché, giacchè Egli è già Tutto, e tuttavia esse sono fuori di Dio in quanto ne sono un’imitazione creata e il loro essere è essere per partecipazione, mentre Dio è essere per essenza e quindi non sono affatto parti dell’essenza divina, che è semplicissima, come se Dio fosse un unico ente, un composto, appunto un «Intero», risultante dalla convergenza e unione dell’insieme delle cose all’interno dell’essenza divina.

È vero che le cose in Dio sono Dio. Ed è vero che Dio vede le cose in Sé stesso, ma le vede anche in sé stesse, giacchè Egli sa bene distinguere Sé stesso dalle cose che crea. Infatti le cose esistono anche fuori di Dio come sue creature. E Dio potrebbe esistere benissimo anche senza le cose create, mentre è chiaro che se le poniamo solo in Dio, succede che l’essenza divina non può stare senza le cose e cadremo nel panteismo.

Non si tratta, quindi, per il realista, che vuol considerare il reale nella sua totalità di distinguere, esaminare ed organizzare logicamente le parti (le cose) di un unico Ente, l’Intero, non si tratta di esporre unitariamente un pensiero (il suo)  come un pensato (il reale), ma di vedere una complessità, un insieme in un’unica visione complessiva: Dio assieme alle cose e come le due realtà (quella molteplice mondana e quella divina) si distinguono e si congiungono fra loro nella  comune nozione analogica dell’essere.

Nella visione idealistica, invece, Dio non potrà più essere il tomistico-biblico semplicissimo ipsum Esse per se subsistens a tutto trascendente, ma dovrà rassegnarsi a far parte di un tutto, un «Intero», composto dalla somma di Dio e del mondo, che poi sarebbe lo stesso Dio.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 ottobre 2024

 

L’essere sussistente, scoperto da Parmenide, è unico e uno solo perché in certo modo, virtualmente, è tutto, non nel senso che sia tutte le cose, ma tutte le perfezioni, come ha chiarito San Tommaso. In tal modo tutto è in qualche modo uno, non nel senso che s’identifichi all’Uno, ma nel senso che si raduni attorno e sotto l’Uno.

Il difetto di Parmenide, segnalato da Aristotele, è il fatto che il suo Uno negava le differenze e quindi la molteplicità degli enti. Ma non c’è dubbio che esiste un ente, Dio, che è assolutamente uno, primo di tutti gli enti e al vertice di tutti gli enti, insieme però con la molteplicità degli enti.

Platone comprese contro Parmenide che il due non è solo l’opposizione dell’essere al non-essere. Esso non è spregevole, ma apprezzabile, perchè esiste anche nella realtà in quanto unione dei diversi. E così Platone operò le prime distinzioni dell’essere, seguìto poi e perfezionato da Aristotele, il quale si premurò di evitare che la dualità diventasse dualismo.

Plotino riprese l’intuizione di Platone, secondo il quale tutto deriva dall’Uno, esce dall’Uno e torna all’Uno. Successivamente Proclo precisò questa visione riducendo il moto del reale a tre momenti

Bontadini scambia per dualismo la dualità aristotelica di pensiero ed essere come se il realismo ponesse un essere estraneo al pensiero, confondendo l’esterno con l’estraneo. Per il realismo invece l’essere è esterno, ma non estraneo, anzi il pensiero è fatto per l’essere e l’essere è fatto per il pensiero; ma il primato va all’essere e non al pensiero, perché è il pensiero ad essere il prodotto dell’essere e non viceversa.   

 Immagini da Internet:

- Parmenide
- Platone




[1] Introduzione al Discorso sul metodo di Cartesio, La Scuola Editrice, Brescia 1957, p. XVII.

[2] Studi sull’idealismo, Vita e Pensiero, Milano pp.134-135.

[3] Ho spiegato più volte nei miei scritti su Cartesio come il cogito cartesiano non ha oggetto perché non è un vero pensare ma è un dubitare. Quindi se c’è un pensare che è nulla, questo è proprio il pensare cartesiano.

[4] Solo il pensiero divino è pensiero del pensiero, non certo quello umano.

[5] Marco Berlanda, L’unica svolta di Bontadini. Dal fideismo attualistico alla metsfisica dell’essere, Vita e Pensiero, Milano, 2022.

2 commenti:

  1. Grazie Padre per l'utilissima sintesi di cui ne farò tesoro come riferimento. Mi pare che si possa dire, con Don Mauro Gagliardi e il suo libro di dogmatica ("La verità é sintetica"), che la filosofia cristiana si basa sul concetto dell' "et-et", cioé di vedere una "complessità" nel quadro "unitario" che descrive la realtà. Dico bene?

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    1. Caro Alessandro,
      ricordo con tanta simpatia e ammirazione Don Gagliardi, per averlo conosciuto a Roma tanti anni fa e avere ascoltato una sua dotta ed interessante conferenza.
      Il principio dell’“et-et” non è altro che l’esplicitazione dell’analogia dell’essere, che dà fondamento alla diversità, mentre conserva la visione dell’unità.
      Certamente questo principio ci rende capaci di vedere la complessità e la molteplicità nell’unità. Questo principio permette di collegare le cose tra di loro, di stabilire rapporti e somiglianze e, sul piano sociale, creare relazioni pacifiche e soluzione dei conflitti, perché esso vede la presenza del bene nei beni più diversi apparentemente contrastanti tra di loro. Quindi è un meraviglioso fattore di conciliazione e di pace, mentre crea l’ordine e l’armonia.
      Questo principio a sua volta è basato su quello più radicale di tutti, che è il principio di identità o di non contraddizione, che oppone l’essere al non-essere, il sì al no, il vero al falso, il bene al male, in modo che bisogna scegliere uno dei due termini senza che ci sia una terza possibilità. Abbiamo allora il principio del terzo escluso. Questo primo principio si esprime col simbolo “aut-aut”.

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