Il concetto dell’Intero nel pensiero di Gustavo Bontadini
Terza Parte (3/3)
Da Parmenide attraverso Severino
Il concetto bontadiniano dell’intero trae ispirazione da quello di Severino, che a sua volta si basa sul concetto parmenideo univoco dell’essere inteso come assoluto essere, essere necessario ed eterno, unico ente esistente, per cui si capisce che a queste condizioni tutti gli enti finiti, temporali, divenienti e contingenti o non esistono o dovranno far parte dell’unico esistente, appunto l’Intero: o saranno mere illusoria apparenze, come la maya indiana, o dovranno essere le varie apparizioni o teofanie dell’Assoluto o dell’Intero.
Parmenide è stato indubbiamente lo scopritore dell’ipsum Esse, l’essere sussistente, infinito ed assoluto, ma non ne ebbe piena coscienza, perché ritenne che esso fosse l’essere (einai) come tale. E invece, come chiarirà San Tommaso, l’ipsum Esse è il summum ens e il primum ens, al vertice degli enti.
Parmenide giustamente avverte che tra l’essere e il non essere non c’è via di mezzo. Come egli non porterebbe il nostro pensiero al ben noto sì, sì, no, no di evangelica memoria? Senonchè Parmenide, considerando che la molteplicità, il divenire, l’alterità, le differenze e le diversità richiedono una negazione (questo non è quello, io non sono te), in nome del principio di non contraddizione negò questi valori cadendo nell’assurdo che gli rimprovera Aristotele di confondere tutto con tutto affermando che «tutto è uno»[1]. Parmenide infatti non si accorse che l’alterità non richiede sic et simpliciter la negazione dell’essere, ma solo di questo essere, per affermarne un altro.
Severino dal canto suo ha esposto la sua visione dell’Intero nel suo famoso scritto «la struttura originaria». Il progetto severiniano del quadro sintetico metodologico dell’accesso all’Intero è certamente importante, ma purtroppo è viziato dall’impostazione non propriamente ontologica, ma meccanicistica di impronta cartesiana.
E ciò si nota già subito dall’espressione da lui usata «struttura originaria», come si trattasse di descrivere non il complesso del reale ma l’ordinamento delle parti o il funzionamento di una macchina. Infatti la parola «struttura» che sottintende lo strutturato fa evidentemente riferimento al dar forma a un’opera artificiale. La realtà che ci circonda non è effetto di una costruzione o strutturazione, ma di una creazione dal nulla e di un progetto divino.
Severino intende riferirsi al plesso teoretico originario od «orizzonte circoscrivente» fondamentale atto all’ispezione dell’intero, nonché allo stesso intero in quanto ispezionato da questo plesso, evidente emanazione del cogito cartesiano.
Ora bisogna dire che l’ente metafisico può essere certo composto di parti, come l’ente creato; ma può essere assolutamente semplice, come Dio. La totalità della realtà, oggetto della metafisica, non è per nulla una totalità o un tutto integrale, come fosse un’unica sostanza composta, ma è l’insieme di tutti gli enti sotto il primato dell’ente supremo, Dio, questi sì totalità assoluta, unica totalità assoluta ed infinita, ma, proprio perché tale, assolutamente semplice e indivisibile.
Inoltre la metafisica ha sì per oggetto primario la sostanza e secondariamente l’accidente, ma, come ho detto, non tratta necessariamente della sostanza composta, ma abbraccia anche la sostanza semplice, che non è un intero, ma semplicemente un uno o forma indivisibile. La metafisica divide invece l’essere in essere per partecipazione[2] ed essere per essenza.
Ora il partecipare in senso metafisico è ben altra cosa dall’esser parte integrante di un tutto o in rapporto ad un insieme ordinato in unità, come avviene nelle sostanze o essere il membro di una collezione di enti, così da formare una comunità sotto la presidenza di un sovrano, che ad esse ha dato origine, cioè Dio, anche se pure qui è implicato il concetto di «parte».
L’essere per partecipazione è un essere inferiore e dipendente dall’essere per essenza, che è essere nel senso pieno ed assoluto, mentre l’essere partecipante è essere in senso debole, essere relativo all’essere per essenza.
Gli enti, ognuno di quali è un intero, non partecipano dell’essere divino, unico essere per essenza, quasi fossero parti della sua essenza, all’interno di questa essenza, ma, benché simili a Lui, stanno al di fuori di Dio, come enti che Gli stanno familiarmente attorno soggetti al suo governo e alla sua provvidenza.
L’Intero bontadiniano non suggerisce per nulla questo rapporto delle creature con Dio, ma si presenta piuttosto come una visione olistica o globale del reale di unità di Dio e mondo, dove non si vede come l’assoluto divino possa emergere sul relativo mondano e trascenderlo, essendo una parmenidea visione dell’essere che «non può non essere», essere immanente al pensiero, un «atto di pensiero» che pensa se stesso, una «struttura originaria» onninclusiva, un «ordine teoretico» includente l’ordine ontologico, «l’ambito in cui si indaga la totalità del reale»[3].
Bisogna osservare che il rapporto degli uomini con Dio non è simile a quello dei lati di un triangolo col triangolo, ma a quello di sudditi nei confronti di un sovrano o di figli nei confronti di un padre. Dio è persona e gli uomini sono persone. Dunque il rapporto non è quello delle parti ad un «intero», ma di persone ad una Persona.
Certamente gli enti non aggiungono nulla all’essere di Dio, dato che Egli è già tutto e creatore di tutto; e però aggiungono più enti. L’essere per partecipazione non perfeziona né aumenta l’essere, ma aumentano gli esseri.
L’intero nella visione bontadiniana non è ciò che risulta dalla coesistenza delle cose con Dio, ma è una sola ed unica cosa composta di parti. Ora in realtà la totalità del reale, oggetto della metafisica non può essere colto dall’esperienza dell’«unità» univoca, la quale coglie solo l’unità e lascia fuori i molti, ma occorre una rappresentazione che non dia tagli al reale, se vuole essere un’esperienza della totalità. I molti non possono essere incastrati per forza nell’univoco, ma occorre dare ad essi degno spazio rappresentativo facendo uso del concetto analogico dell’essere.
L’Intero in Bontadini e in Severino
È evidente l’origine parmenidea della nozione dell’intero, che non per nulla era già stata formulata da Severino, precedente ammiratore di Parmenide. Con Severino Bontadini condivide la ripugnanza nei confronti del divenire, più accentuata in Severino, che lo considera senz’altro contradditorio, mentre per Bontadini il divenire diventa contradditorio solo se è assolutizzato e messo al posto di Dio.
Per questo Bontadini pensa di poter dimostrare l’esistenza di Dio proprio negando l’assolutizzazione che ne fa l’ateo, assolutizzazione che rende il divenire contradditorio. Bontadini crede di poter trovare un concetto più rigoroso di creazione e una via più diretta per dimostrare l’esistenza di Dio che non quella di San Tommaso.
A Severino invece non interessa né dimostrare l’esistenza di Dio né rigorizzare il concetto di creazione, giacchè considera contradditorie sia l’idea di Dio che l’idea di creazione, in quanto Dio produce il mondo dal nulla. Il Dio di Severino è l’essere parmenideo e non il Dio motore primo, causa prima creatore del mondo di Aristotele, di San Tommaso e della Bibbia.
Seguendo Parmenide, Severino rifiuta quelle idee come nichilistiche sostenendo con Parmenide che il nulla non esiste. Anche Bontadini vuol evitare di usare il concetto del nulla nel teorema della creazione e pensa che per dimostrare l’esistenza di Dio si possa fare a meno di usare il principio di causalità e sia sufficiente il principio di non-contraddizione così come è formulato da Parmenide: «l’essere è, il non essere non è». Solo che questo modo di formulare quel principio lascia fuori l’essere contingente, cioè il divenire, che così appare contradditorio.
Bontadini tenta di emanciparsi dalla sirena severiniana che vuol condurlo all’ateismo, ma non sapendo rinunciare al monismo Parmenideo, resta intrappolato nel concetto severiniano dell’intero, che Severino espone in questi termini:
«Poiché è autocontradditorio che vi sia altro oltre l’intero immutabile e la totalità del divenire … non vi è altro, oltre l’immutabile, senza di cui la totalità del divenire non sarebbe; quest’ultima, cioè, non richiede altro, per essere, che l’intero immutabile. Sì che l’immutabile non è semplicemente ciò senza di cui la realtà diveniente non è, ma ciò per cui questa realtà è», cioè l’immutabile non fà essere il divenire dal nulla, ma l’immutabile è il divenire. … «All’opposto l’intero immutabile è, anche se la realtà del divenire non è» - il divenire è contradditorio -.
«Il che da un lato discende dall’accertata autocontradditorietà della appartenenza necessaria del divenire all’intero; dall’altro lato è ottenuto direttamente; che se l’intero immutabile fosse solo in quanto l’orizzonte del divenire è, questo orizzonte conterrebbe una positività che non è contenuta nell’immutabile. … Se la totalità del divenire non appartiene necessariamente all’intero e se l’immutabile intero è ciò per cui quella totalità è, che la totalità del divenire sia, è una decisione dell’immutabile».
Da notare che questa «decisione» non è da intendersi come libera e volontaria scelta di un supremo agente personale, che decide così ma potendo decidere diversamente. Questo è ciò che crede Bontadini, ma non certamente Severino. L’immutabile non è causa libera di un mutabile contingente, perchè per Severino il contingente non esiste, è contradditorio. Solo l’essere necessario esiste. Quindi anche quella «decisione» non ha niente a che vedere con la contingenza, con un atto che c’è ma poteva o potrebbe non esserci.
Non si tratta di una decisione pratica ma teoretica, così come io decido di assentire alla tesi dimostrata di un teorema. Non si tratta quindi di un atto contingente, ma necessario così come l’essere è necessario, pena la contraddizione.
Ma il punto è proprio qui, che per Severino l’intero è la sintesi dell’«intero immutabile e della totalità del divenire»; «l’immutabile non è semplicemente ciò senza di cui la realtà diveniente non è, ma ciò per cui questa realtà è» . Il primo sta nel secondo come il secondo sta nel primo, benché siano nemici irriducibili che si escludono a vicenda.
È quello stesso che avviene nell’Io di Fichte: esso pone il non-io suo nemico dentro di sé, così che essi sono obbligati a stare assieme pur odiandosi a vicenda. Dov’è qui l’assoluto? Non c’è! E per questo giustamente Fichte fu accusato di ateismo. Lo stesso avviene in Severino: l’immutabile è immutabile proprio perché ha in sé il mutevole. L’eterno è eterno divenire, per cui alla fine Parmenide raggiunge Eraclito.
Severino da una parte afferma che «la totalità del divenire non appartiene necessariamente all’intero», ma dall’altra che l’esistenza del mutabile dipende da una decisione non pratica ma teoretica, cioè necessaria dell’immutabile, sicchè la contraddizione entra nell’essenza stessa dell’Intero o dell’Assoluto.
Il che è come dire che l’immutabile non può stare senza il mutabile, perché non lo crea dal nulla, ma se lo trova davanti come l’essere si oppone al non-essere. Ci chiediamo allora: come fa l’immutabile ad essere mutabile?
Si vede come Severino, che si atteggia ad inflessibile difensore del principio di non-contraddizione contro il nichilismo e la «follìa dell’Occidente», alla fine è superato da Bontadini, che egli accusa di non essere abbastanza rigoroso nel sostenere quel principio. Infatti Bontadini sostiene l’identità dell’Assoluto, che per lui è Dio e non nega la realtà del divenire creato da Dio.
Severino invece arriva a porre la contraddizione nell’assoluto stesso dando prova di cadere nell’ateismo e nella contraddizione della quale non se ne può immaginare una peggiore: quella di metterla nello stesso assoluto, come del resto aveva già fatto Hegel, dal cui falso teismo e dal cui panteismo è sorto, come è noto, l’ateismo marxista,
Possiamo adesso vedere la differenza fra l’Intero severiniano e quello bontadiniano. Traggono entrambi ispirazione dall’Intero parmenideo, ma mentre quello severiniano conclude nell’ateismo-panteismo, quello bontadiniano dà spazio al teismo, addirittura a quello aristotelico-tomista[4].
Infatti mentre in Severino l’essere come in Parmenide non va soggetto a gradi, sicchè non si può parlare di un ente supremo causa prima e fine ultimo, Bontadini coglie in Parmenide l’essere identità assoluta e l’ipsum Esse, ma non lo segue nella negazione del divenire, che per Bontadini come per Aristotele, resta sperimentabile, vero e reale.
Permane però il fatto che l’Intero bontadiniano, come quello severiniano, resta di marca idealista, perché la fondazione parmenidea passa attraverso il cogito cartesiano, per cui il realismo bontadiniano non è originario come quello aristotelico-tomista, ma derivato dalla fondazione parmenidea attraverso Cartesio.
Per Bontadini infatti il pensiero coglie l’essere e si adegua all’essere, e in ciò egli è realista, ma è un essere che non è esterno o presupposto al pensiero bensì immanente al pensiero. L’essere per Bontadini è essenzialmente l’essere pensato. Non ammette un essere non pensato. In ciò è idealista. Questo essere è l’intero, l’«unità dell’esperienza», è la stessa esperienza, è l’uno di Parmenide, uno che è tutto e quindi l’Intero.
Il giusto metodo
Come arrivare alla visione della totalità? Quale metodo seguire? Anche qui il realismo si oppone all’idealismo, Aristotele si oppone a Cartesio. Per Cartesio si tratta di confrontare delle idee chiare e distinte e vedere nella discussione quali sono le più chiare e distinte.
Ma siccome manca il riferimento alla realtà, che è quella che genera una idea per tutti e si resta solo sul piano delle idee, quello che sembra a me si oppone a quello che sembra a te, per cui non si riesce mai a raggiungere una conclusione universalmente condivisa, cioè si resta sempre sul piano delle opinioni e non si raggiunge la scienza.
Si ha un bel parlare dell’uno o del bisogno di unità, ma questo uno resta un uno per me e un uno per te, non si arriva a capo di nulla e si litiga senza fine. La discussione o tesi dialettica resta sul piano del probabile e non si riesce a trovare un comune accordo, non si riesce ad uscire dalla contraddizione. I pareri sono e rimangono contrari.
Si comincia con l’opposizione fra l’affermazione (positio) e la sua negazione (resolutio); ma la negazione della negazione (compositio), che dovrebbe essere la conclusione o «sintesi», non scioglie la contraddizione, non difende e non rimette in piedi l’affermazione iniziale negata, perché essa resta esposta alla negazione, dato che nessuno sa qual è la verità.
Questa conoscenza della verità avviene solo nella scienza con la risposta del maestro alle obiezioni. Ma questo perché l’argomentazione scientifica dimostra con necessità logica il suo assunto riducendolo all’identità dell’essere rappresentato nell’idea, in modo tale che la verità appare a tutti e quindi l’opponente, illuminato dalla risposta del maestro alla sua obiezione, si accorge di aver torto o che l’obiezione non era fondata, e quindi, se è leale ed onesto, ritira l’obiezione e non insiste.
Ora la questione della visione della totalità del reale non può essere data in mano alla dialettica, perché è una questione che risponde a una massima esigenza di verità e di certezza. Non si può affidarla alla dialettica, ma occorre la sentenza della scienza più rigorosa, libera da qualunque contraddizione. Ma il problema è che l’idealista confonde la dialettica con la scienza, come appare evidente in Hegel.
Quando non si tiene d’occhio la realtà, il semplice dibattito delle idee riferite ad idee, come dimostra l’esperienza, ci impiglia in contrasti irresolubili, perché, intervenendo anche interessi privati o passioni. ognuno bada alle proprie idee, al proprio io e manca il doveroso misurarsi comune sulla realtà, che è l’agostiniano lumen publicum, la regola della verità e dell’accordo fra i pensanti. Ci dimentichiamo che le idee non sono fini a se stesse, ma servono a rappresentare la realtà.
E anche Bontadini purtroppo è su questa strada. Egli parla bensì di sapere, di verità e di certezza, mostra sì un bisogno di cogliere l’essere e la realtà, ma poi quando passa al dunque si mostra intrappolato nell’essere di Parmenide e nei giochi inconcludenti della dialettica hegeliana, anziché ricorrere al vero metodo scientifico che ci offre Aristotele col suo passaggio dalle premesse alla conclusione, dal mosso al motore, dal contingente al necessario, dal particolare concreto all’universale astratto, dall’effetto alla causa secondo la regola del principio di causalità o dall’analogato inferiore al sommo analogato o secondo il metodo platonico del passaggio dall’essere per partecipazione all’essere per essenza, o dall’esemplato all’esemplare o dal sensibile all’intellegibile.
Bontadini è un caso tipico dell’equivoco nel quale purtroppo molti cattolici sono caduti e cadono circa la questione della «filosofia moderna». Giustamente desiderosi di essere moderni, si sono tuttavia imprudentemente lasciati sedurre da quella sopravvalutazione quasi idolatrica della modernità che ha dato origine al modernismo. Ora dobbiamo sì essere moderni, ma ciò non ci autorizza ad essere modernisti, perché questa è una falsa modernità, dannosa per la cultura e per la Chiesa.
Cartesio, ben lungi dal costituire la filosofia moderna, ben lungi dall’aver fatto fare alla filosofia un progresso epocale rispetto ad Aristotele, la fa retrocedere ai tempi di Anassimandro, di Parmenide, di Eraclito e di Protagora. Non è Cartesio ma Aristotele il vincitore dello scetticismo e del dubbio, il fondatore della scienza, della certezza e della verità. Il pensiero non ha iniziato a funzionare con Cartesio, ma ha smesso. I guai del nostro tempo sono causati da un’assenza di pensiero. Perché esso riprenda la sua attività normale, occorre tornare ad Aristotele.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 19 ottobre 2024
Severino ha esposto la sua visione dell’Intero nel suo famoso scritto «la struttura originaria». Il progetto severiniano del quadro sintetico metodologico dell’accesso all’Intero è certamente importante, ma purtroppo è viziato dall’impostazione non propriamente ontologica, ma meccanicistica di impronta cartesiana.
Osserviamo che la struttura è l’ordine delle parti di qualche artificiato plasmabile od organizzabile in parti: la struttura di un edificio, la struttura di una macchina, la struttura di un’opera d’arte.
Inoltre la metafisica ha sì per oggetto primario la sostanza e secondariamente l’accidente, ma, come ho detto, non tratta necessariamente della sostanza composta, ma abbraccia anche la sostanza semplice, che non è un intero, ma semplicemente un uno o forma indivisibile. La metafisica divide invece l’essere in essere per partecipazione ed essere per essenza.
Il partecipare in senso metafisico non va inteso in senso quantitativo, così come la fetta di una torta è parte della torta, e neppure sociologico, così come l’individuo è parte della società, o in senso anatomico, così come il fegato è parte del corpo dell’animale.
L’essere per partecipazione è un essere inferiore e dipendente dall’essere per essenza, che è essere nel senso pieno ed assoluto, mentre l’essere partecipante è essere in senso debole, essere relativo all’essere per essenza.
[1] Metafisica, vol. II, libro Lamda, cap.10, 1075b15, col commento di Giovanni Reale, Edizioni Luigi Loffredo, Napoli 1968, p.251.
[2] Vedi Cornelio Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S.Tommaso d’Aquino, Edizioni SEI, Torino 1950; Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.
[3] Cit. da G.Barzaghi, Disegno-mistero eterno. La simultaneità dell’ispezione, in Sacra Doctrina,1, 2024, p.26.
[4] Vedi Marco Berlanda, L’unica svolta di Bontadini. Dal fideismo attualistico alla metafisica dell’essere, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 2023, pp.415-424.
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.