La virtù teologale della Speranza
Conferenza del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP
presso le Suore della Misericordia di Bologna, 11 dicembre 1988
Presentazione
In occasione di
questo Anno Santo della Speranza ho il piacere di presentare una dotta conferenza
di P. Tyn, che tratta della virtù teologale della speranza, ispirandosi alla
dottrina di San Tommaso d’Aquino, fedele interprete del Magistero della Chiesa
Cattolica.
Ho corredato di note il testo e ho tolto il dialogo con i presenti, per il fatto che la registrazione di quei tempi era piuttosto imperfetta rispetto ad oggi, per cui questa parte non emerge con sufficiente chiarezza.
Padre Tomas insiste molto nel manifestare che l’oggetto principale della speranza è l’incontro con Dio in paradiso, grazie alla visione beatifica del Mistero della Santissima Trinità.
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Prima Parte (1/2)
Audio: http://youtu.be/xB4gkqMpBTU ed inoltre:
A. http://youtu.be/y-sSOlcc4V8
B. http://youtu.be/dpYc0WVF5y8
Cari fratelli, sono molto felice di essere qui con voi per parlare della virtù teologale della speranza, una virtù importantissima, soprattutto per noi viatori. Perché, ben sapete che nello stato di comprensori, ovvero nello stato di coloro che già godono della beata visione del Volto del Signore, non ci sarà né fede né speranza; ci sarà solamente la carità.
Tra queste tre cose, dice San Paolo, che sono la fede, la speranza e la carità, la più grande è la carità, perché solo la carità rimane nella patria celeste. Tuttavia non è che la fede e la speranza scompaiano nello stato di beatitudine, perché ci siano dei disperati e degli increduli. Ma c’è uno stato talmente perfetto, che ogni ombra di imperfezione scompare nella visione beata di Dio.
E così, siccome sia la fede che la speranza comportano degli aspetti ancora di imperfezione a differenza della carità, che è solamente perfetta, ecco la ragione per cui la carità rimane anche nella patria beata del cielo, mentre la fede si muta in assoluta visione, certezza ed evidenza di Dio, e la speranza si muta nel possesso beato di Dio.
La speranza non è ancora possesso. Noi speriamo di possedere nientemeno che Dio. Però per ora non Lo abbiamo ancora. È solo appunto nella visione del Volto di Dio, così come il Signore ce l’ha promessa, è solo allora che la promessa sarà adempiuta e che noi entreremo nel felice e perfetto possesso del Signore.
E allora è cosa molto giusta pensare a questo triplice rapportarsi del cristiano a Dio in questa vita, questo triplice rapportarsi a Dio sotto questo triplice aspetto delle virtù teologali della fede anzitutto, della speranza e della carità.
Noi ci concentreremo adesso su quella virtù che si pone come quasi intermedia tra la fede e la carità e che è appunto la speranza. Cercheremo così di intrattenerci un po’ tra di noi sul significato della speranza, che cosa è la speranza, qual è il suo oggetto, e come essa può essere vissuta.
Vediamo, allora, per parlarvi della speranza, di citarvi la fonte alla quale ho attinto, naturalmente soprattutto il nostro caro confratello San Tommaso d’Aquino, il quale ci presenta una ricca dottrina riguardo alla fede, alla speranza e alla carità. Egli si chiede anzitutto se la speranza sia una virtù, se sperare sia un qualche cosa di virtuoso, che procede dalla virtù.
Dice che non c’è dubbio, che la speranza sia un atto di virtù. Perché? Perché ogni atto umano buono procede da qualche virtù. Possiamo essere sicuri che se c’è un agire umano buono, questo agire procede da una qualche virtù. Voi però mi direte: lo pensavamo già che c’è questa corrispondenza tra l’atto umano buono e la virtù antecedente. Ma – rispondo io - è molto meno evidente di quanto non appaia.
Infatti, in qualche modo molto più che un singolo atto, è la virtù che porta all’agire perfetto. Che cosa è la virtù? La virtù si definisce generalmente come un abito buono, dove per abito non si intende naturalmente l’abito, di cui ci si riveste esteriormente. E però si chiama habitus, abito[1], proprio perché è qualche cosa di simile a ciò di cui ci rivestiamo. Noi, i nostri abiti li portiamo abitualmente, cioè è una consuetudine per noi essere così rivestiti.
Un peccato, sapete, lo possiamo fare tutti, no? Invece il disastro comincia a nascere là dove c’è una abituale e costante inclinazione al male. È molto difficile liberarsi di questo. Similmente, il Signore vuole da noi non solo che siamo buoni di tanto in tanto o che ci capiti talvolta anche di essere buoni. Ciò è già una cosa molto bella. Questo riguarda tutta la nostra vita morale. Penso che non ci sia nessuno per fortuna a cui non capiti di essere talvolta anche buono. Il Signore invece vuole che noi siamo buoni costantemente, cioè che ci educhiamo a tendere con una certa perseveranza e tenacia al bene.
Noi nelle virtù troviamo un grande appoggio. Molto spesso, si dice: io non voglio agire per abitudine[2]. Essa è vista come qualche cosa di negativo. E in parte è anche vero. Quando uno prega, è chiaro che non basta semplicemente appoggiarsi all’abitudine. Bisogna metterci proprio il cuore, l’anima, tutto l’uomo, nel momento in cui si prega.
Però talvolta succede che non è possibile. Voi lo sapete bene, avete esperienza di preghiera, sapete come noi poveretti nello stato presente, quaggiù in questa situazione terrena, spesso ci disperdiamo; i nostri pensieri volano qua e là, abbiamo quelle famose cosiddette distrazioni. Vedete allora come è importante non affidarsi solo alla spontaneità del momento propizio, ma avere proprio delle buone abitudini. Quando manca la soavità dell’atto, almeno c’è l’inclinazione buona dell’abito. Quindi è vero che bisogna cercare di tradurre le buone abitudini in buone azioni, sentite proprio a livello di atto. Però, in mancanza di un agire consapevole, è sempre bene avere almeno le buone abitudini.
Quindi, le buone abitudini non sono affatto da disprezzare. Certo, non bisogna però assumere quell’atteggiamento di dire: mi basta avere queste buone inclinazioni; e poi non mi dò più da fare. No, no, è pericoloso, perché se uno non esercita le virtù, le buone abitudini poco alla volta scompaiono.
Ora, le virtù, abiti morali buoni, sono anzitutto di un duplice ordine: le virtù acquisite e le virtù infuse. E in questa cosa è una meraviglia vedere come il Signore è buono con noi, perché Egli non si accontenta di invitarci a creare dentro di noi delle buone abitudini per conto nostro. Il Signore sa come siamo deboli e peccatori, che camminiamo lentamente e con tanti errori, con tante titubanze, con tanta fatica.
Che cosa fa allora il Signore? Fa scendere su di noi la rugiada del suo Santo Spirito. E ci dà allora quasi, o meglio senza quasi, proprio delle abitudini buone, che sono immesse nella nostra anima da Lui, Dio Onnipotente. Cosicchè, pensate, un bambino appena battezzato è un uomo perfettamente virtuoso. Non ha fatto neanche un unico atto di virtù. E però è già virtuoso, perché ha tutte le virtù infuse.
Per esempio, ogni tanto sorrido quando leggo il trattato dell’amico d’Aquino sulla prudenza. San Tommaso, infatti, seguendo Aristotele, dice che i giovani non possono essere prudenti. Egli aveva una certa diffidenza verso i giovani, perché riteneva che il giovane non può essere prudente. Perché? Perché non ha sufficiente esperienza di vita. Indubbiamente la prudenza è virtù degli anziani[3], proprio perché solo chi è vissuto per lungo tempo può acquisire sufficiente esperienza per agire bene.
Però, è un po’ tragico questo destino dell’uomo. Proprio quando uno comincia a diventare saggio, proprio allora le forze gli vengono meno. Per fortuna il Signore Dio ci viene incontro. E che cosa fa? Dà anche ai giovani la virtù della prudenza, che loro non hanno acquistato, ma che il Signore Dio Sapientissimo immette nell’anima umana con il santo Battesimo, con la grazia che Egli dà.
Quindi ogni anima in grazia possiede tutte le virtù infuse. Anche qui mi pare che si debba fare un discorso molto delicato. Perché uno potrebbe dire: a questo punto il Signore mi infonde tutte le virtù; allora non c’è più bisogno che mi eserciti ad averle. Non è del tutto così. Perché ricordatevi sempre di quello che dice San Paolo: noi, quel tesoro lo portiamo in vasi di creta. È molto bello, questo. Cioè noi siamo dei vasi fragilissimi. Vale a dire che l’essere della grazia, l’essere dei doni dello Spirito Santo, l’essere delle virtù infuse, in particolare delle virtù teologali, in noi è fragile.
Invece, ciò che le virtù sono in se stesse, astraendo dalla nostra debolezza, ciò che lo Spirito Santo è in Se Stesso, è qualcosa di sublime e di eccelso, addirittura di eterno, perché è Dio stesso. Dio eterno, nella santa grazia, si rende presente in noi in un modo non eterno. Vedete il mistero. Cioè Dio non può venire meno in Sè. Ma, ahimè, noi possiamo venire meno riguardo a Dio.
Vedete allora, che nessuno può dire: io ho le virtù infuse e grazie al Signore, che me le dà, se poi non mi do da fare per acquisire le virtù umane. Notate come qui nella vita di grazia, il divino e l’umano si incontrano a vicenda. Quindi quasi per consolidare, o preparare il terreno per le virtù infuse, occorre praticare le virtù acquisite[4].
Ora, la speranza è una virtù sublime. Ma essendo virtù teologale, non è una virtù che si può acquisire con un agire puramente umano. Vi ho citato l’esempio della prudenza, Di prudenze ce ne sono due tipi. C’è la prudenza acquisita: l’uomo che diventa saggio e che approfondisce così questa sua esperienza di vita, cerca di orientarsi in un modo sempre più profondo, più esatto, anche più deciso. Perché il prudente è anche un uomo che decide facilmente, dopo aver pensato molto a quello che deve fare. Questa è la prudenza acquisita.
Poi c’è la prudenza, che si trova anche nei neonati appena battezzati, cioè la prudenza infusa. Invece, per quanto riguarda la speranza, e così pure le virtù sorelle della fede e della carità, vedete, a livello di queste virtù teologali non c’è possibilità di acquisirle. Sono virtù solamente divine, che noi possiamo avere solo per infusione da parte di Dio. La parola infusione è molto bella. E’ come se il Signore inondasse la nostra mente di Se stesso. Perché è Lui, nelle sue diverse partecipazioni, che appunto costituisce così nella nostra anima questa triade di virtù teologali.
Ora, San Tommaso dice che non c’è alcun dubbio che se l’atto della speranza è un atto buono, esso deve procedere organicamente, oserei dire, da una virtù corrispondente. Ora, come dice San Tommaso, l’atto della speranza è indubbiamente buono. Dunque, notate il suo ragionamento.
Egli cioè dice che l’atto umano, il nostro agire umano, si dice buono quando raggiunge la pienezza della sua misura, della sua regola, del dovuto. Oh, qui l’umanità moderna fa un po’ fatica. Perché, qui si fa anche il discorso sulla legge. Ahimè. Persino moralisti contemporanei hanno fatto un pochino difetto sul piano della legge.
Dicono: insomma, l’uomo agisce, e così fa le sue scelte nelle situazioni concrete. No. Non ci siamo. La nostra scelta non si può orientare solo secondo la situazione concreta in cui siamo chiamati ad agire. Ma anzitutto bisogna calare, nella concretezza della situazione in cui si agisce, la Legge santa del Signore. Guai a noi, se perdiamo di vista questo. È una cosa davvero tragica. Lo si vede, proprio si avverte attorno a noi, che il grande dimenticato - non dico nel mondo dove è ovvio questo, ma nella cristianità -, il grande dimenticato è Dio stesso. Questo è pauroso.
Questa è l’etica della situazione[5]. Persino moralisti cristiani dicono: il mio atto è buono se io mi sono dato da fare per agire nella concretezza della situazione. No. Il mio atto è buono solo quando io sono riuscito a tradurre nella concretezza del mio agire, la santità eterna immutabile della Legge di Dio. Avete ben sentito, no? Si dice tanto spesso: tutto cambia, tutto si evolve, tutto è in continua evoluzione, nulla rimane. Tuttavia, “Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. E noi lo crediamo, fratelli cari. Se non lo credessimo, guai; non abbiamo più la fede cattolica, la fede soprannaturale. Quindi noi crediamo nella eternità della Legge di Dio.
Ora, questa Legge del Signore non può venire meno; è eterna, e con essa dobbiamo continuamente confrontarci. Però le cose non vanno alla pari[6]. Questa è la superbia tipica dell’uomo contemporaneo: io, così, dialogo con la Legge di Dio. No: io mi sottometto alla Legge di Dio. Certo, con lucida razionalità e con deliberata scelta, ma mi sottometto, perché la Legge del Signore è superiore alle mie opinioni e alle mie convinzioni.
Allora, è cosa sommamente importante che il nostro atto libero abbia quella pienezza dovuta, che è tradurre nella concretezza dell’agire la Legge del Signore, i suoi Comandamenti. Ora, San Tommaso dice che questa norma del nostro agire, questa legge è duplice. Una è la legge naturale, che in fondo è costituita dalla razionalità della nostra natura umana, cioè dal fatto che Dio, nella sua ineffabile bontà, ha voluto al di sopra di tutte le creature materiali, già dotate di stupende perfezioni, l’uomo con la sua capacità di pensare. Invece le piante solamente vivono, gli animali solamente sentono. E’ soltanto questa capacità quella che rende l’uomo “Poco meno degli angeli”, per usare le parole della Sacra Scrittura del Salmo 8, che tutti conoscete.
Quale dignità, fratelli! Noi siamo creati a immagine e somiglianza di Dio! Quindi un riflesso di Dio in noi è la Legge di Dio in noi. Dice San Paolo: “Anche i pagani sono inescusabili”. San Paolo è severo. Infatti i pagani potrebbero dire: “noi che colpa abbiamo? Gli Ebrei, va bene. Essi non hanno accettato il Signore, benchè abbiano avuto la Legge, la Torah, hanno avuto la rivelazione. Noi, che cosa c’entriamo? Noi siamo buoni[7], perché uno può sottostare alla legge solo se la conosce.”
No, dice San Paolo, anche voi pagani avete una legge di Dio. Quale legge? Quella scritta nel vostro cuore. C’è una Legge di Dio scritta nel nostro cuore. E’ come se il Signore, prima di scolpire il Decalogo sulle Tavole di pietra, avesse scolpito nel nostro cuore quelle stesse Parole, le dieci Parole come le chiamano gli Ebrei.
E, ahimè, purtroppo quelle dieci Parole si allontanano fin troppo facilmente dal cuore del popolo. Ecco perché il Signore poi deve riscriverle ancora su Tavole di pietra e riproporle appunto agli Israeliti e anche a noi, perché quella Legge non può mai venire meno. Noi abbiamo nel nostro cuore le Parole del Signore, scritte non su Tavole di pietra, ma su tavole del cuore, un cuore circonciso, un cuore che il Signore ha dotato della capacità di amare Lui, il nostro Fine Ultimo e il nostro Sommo Bene.
Poi San Tommaso dice che però, al di là di quella regola, che è la nostra stessa natura umana, nello splendore della sua razionalità e della sua divina similitudine, al di là di questa regola prossima, vicina a noi c’è la regola umana, creata, che però viene da Dio, intendiamoci. Però è impressa quasi nell’uomo. Tuttavia, c’è un’altra regola del nostro agire, che è Dio stesso. Pensate, cari fratelli.
Ci sono poi alcune azioni, ovviamente buone di una bontà superiore a quelle azioni naturali, che sono buone di una bontà soprannaturale. Sono azioni, che nella loro pienezza riguardano una norma, che non è più umana, ma che è immediatamente divina.
Quindi, se una persona agisce in un modo giusto, temperante, prudente, secondo le virtù morali, certamente loda il Signore con la sua vita. Non c’è dubbio. Però lo loda - capitemi bene -, in un modo mediato. Prima realizza la sua dignità umana e realizzandola dà lode al Signore, perché Egli che cosa vuole, se non la nostra dignità umana? Vuole questo anzitutto. È così che ci ha creati. Ci ha fatti poco meno degli angeli.
Quindi, se noi rispettiamo noi stessi, la nostra verità di uomini, come dice spesso il Santo Padre, ossia la verità dell’uomo, ci sono delle azioni, nelle quali noi diamo lode a Dio immediatamente, come se raggiungessimo Dio stesso come norma o legge del nostro agire, senza mediazioni interposte. So che non è facile. Però spero che andando avanti nel discorso che lo approfondiremo un po’.
San Tommaso dice che la speranza raggiunge a Dio stesso. Essa ha per oggetto Dio stesso; non riguarda qualche cosa di umano, qualche cosa di creato; ma la sua norma è Dio stesso. Ecco perché si dice che è virtù teologale. La differenza tra le virtù morali e le virtù teologali è proprio questa: le une e le altre danno lode a Dio. Le virtù morali lo fanno realizzando un bene umano, mentre le virtù teologali danno lode a Dio immediatamente realizzando un bene sovraumano, un bene divino. È uno stupendo mistero.
Vuol dire che il Signore non si accontenta di chiamarci a una beatitudine umana, ma vuole che siamo beati della sua beatitudine divina, ed anzi, che non possiamo essere pienamente uomini se non ci trascendiamo in Lui, Dio Onnipotente, Nostro Creatore e nostra eterna beatitudine. E’ così, cari fratelli.
E allora nella speranza l’atto dello sperare, raggiunge Dio stesso[8]. Perciò è un atto buono, anzi ottimo, perché è buono di una bontà divina, e dunque è atto di virtù. La speranza, teniamo presente questo, raggiunge Dio stesso. Quello che noi speriamo è Dio[9] e la ragione per cui speriamo è ancora Dio. E cercheremo di spiegarlo meglio in seguito.
Ora, come dice ancora San Tommaso, l’oggetto proprio della speranza non può che essere uno solo, cioè la beatitudine eterna. Se qualcuno spera altre cose, non ha la speranza nel senso cristiano della parola[10]. E’ possibile sperare in tante cose, intendiamoci bene. Non è che uno pecchi.
Facciamo l’esempio dello studente che dice: io spero di fare un bell’esame. Per carità. Poverino. E’ nel suo diritto di sperare questo. Oppure l’ammalato che dice: io spero che quella difficile operazione, alla quale devo sottomettermi, abbia una buona riuscita. Speranza buona, anche questa. Non c’è nessun dubbio.
Però la vera speranza teologale non è né quella dello studente, che vuole avere un bel voto all’esame, né quella del malato che vuole subire un’operazione senza traumi. Ma è la speranza del cristiano, che spera, al di la di ogni bene creato, una sola cosa: la vita eterna in Dio, anzi quella eternità, che è Dio stesso.
Bisogna tenerlo sempre presente, perché, spesso noi confondiamo le parole. Noi diciamo: io ho la speranza; spero che domani ci sarà una bella giornata. Certo, è una bella speranza anche quella. Ma non è la speranza teologale, a meno che quel domani, non sia il domani della eternità; allora è una speranza teologale. Quindi l’oggetto proprio, che definisce la speranza come virtù teologale, è solo il bene soprannaturale della eterna beatitudine. Nientemeno che questo.
Notate. Una cosa molto simpatica in questo nostro illustre Confratello San Tommaso, quando tratta delle virtù, è che proprio per elevarsi alle cose più sublimi, parte dalle cose più umane e più ovvie. Parte da cose infime. E’ interessante allora che, parlando della speranza, San Tommaso non comincia subito dalla virtù teologale, ma parte proprio dalle passioni dell’anima umana. Pensate: dalle passioni della nostra anima.
Ora, la speranza c’è anche a livello passionale. C’è persino negli animali. Voi sapete che anche negli animali c’è la passione. Sapete bene come l’antropologia distingue le passioni del concupiscibile, e cioè l’amore, l’odio, il desiderio, la fuga, la gioia e la tristezza, dalle passioni dell’irascibile, il timore, l’audacia, la speranza, la disperazione e l’ira. Undici passioni. Adesso non mi soffermo. Ma è molto bello anche quel trattato sulle passioni
Ora, la speranza, come abbiamo detto, appartiene alla parte irascibile dell’anima. Come si definisce la speranza passione? Si definisce così: la speranza è un desiderio, ma non solo. Il desiderio è una passione della parte concupiscente dell’anima. Il desiderio riguarda un bene assente, un bene che non si possiede. Invece, se uno ama un qualche bene, lo possiede, e ne gode.
Così i santi in cielo. Essi sono in possesso di Dio. La loro è solo una gioia. Ecco perché non c’è più né desiderio né speranza. E il nostro cammino sulla terra è desiderio, è speranza, è un sospirare rispetto al cielo, che è ancora lontano, seppure lo viviamo già nella beata promessa.
Allora, il desiderio però si differenzia dalla speranza, perché la speranza aggiunge al desiderio la difficoltà. Notatelo. Si tratta della difficoltà del bene da ottenere. Il desiderio riguarda dei beni assenti, ma facili da ottenere. Invece la speranza riguarda dei beni, ovviamente assenti, sennò non sarebbero sperati, ma sarebbero goduti; beni assenti, ma difficilissimi da ottenere. Ecco perché lo studente può dire: io spero di avere un bel voto, se l’esame è difficile. Ma non si limita al desidero. Perché può anche desiderarlo. Ma se non studia?[11].
Quindi in qualche modo la speranza riguarda dei beni assenti difficili da raggiungere. Ma poi c’è un’altra sfumatura, che è interessante nell’oggetto della speranza. Se quel bene difficile da raggiungere apparisse alla nostra mente come impossibile, che cosa succede? Succede una cosa poco piacevole, che la speranza si muta in disperazione. Entrambe sono passioni dell’irascibile. Speranza e disperazione[12].
Se uno studente si accorge di non avere studiato abbastanza, e quindi sa che all’esame farà brutta figura, che cosa fa? Non lo affronta. Perché? Perché dispera. Speriamo solo per quell’esame lì. Poi dopo si rifarà coraggio e nutrirà la speranza, per l’esame successivo? Però in quel momento, accorgendosi dell’impossibilità di raggiungere quel bene, rendendosi conto che il bene non è solo difficile, ma impossibile, comincia a disperare.
Allora, notate bene. Qui non si tratta più della speranza passione, com’è ovvio, ma dell’eternità beata, che ci è stata promessa dal Signore e che noi attendiamo in particolare in questo sacro tempo di Avvento. Vedete come avete scelto bene il tema. È proprio quello adatto per la terza domenica di Avvento, che è tutta così gioiosa, ma nel contempo è una gioia ancora non pienamente realizzata, in sostanza è la gioia della attesa.
Fine Prima Parte (1/2)
P. Tomas Tyn, Op
Registrazione e custodia dell’audio a cura di diverse persone
Trascrizione da registrazione di Suor Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 6 settembre 2015
Testo con note rivisto da Padre Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 3 dicembre 2017 – Fontanellato, 8 aprile 2025
[1] L’abito del quale parla Padre Tomas è un accidente del soggetto umano e più precisamente un perfezionamento del suo agire psicospirituale, per il quale il soggetto è abilitato o reso capace o in grado di compiere abitualmente, spontaneamente e con facilità un atto che può essere buono o cattivo. Quando l’abito è buono, abbiamo la virtù; quando è cattivo abbiamo il vizio.
[2] Bisogna distinguere l’abito dall’abitudine. L’abito riguarda l’intelletto e la volontà, per cui esso è comandato, coltivato e messo un atto dalla volontà. L’abitudine è una tendenza psicofisica a ripetere atti psicofisici istintivamente in modo irriflesso, indipendentemente dalla volontà. Per questo, mentre la abitudini ci accomunano con gli animali, gli abiti appartengono solo all’uomo.
[3] L’anzianità come maturità spirituale non è solo frutto dell’età, ma di un lungo esercizio nella virtù iniziato possibilmente sin dalla gioventù. A questa condizione l’anziano si distingue nella prudenza e nella sapienza. La parola «prete» viene da presbyteros, che è l’anziano.
[4] È vero che le virtù infuse ci sono donate da Dio in uno stato di perfezione. Ma esse sono soggettate nel nostro soggetto umano, che come tale, come dice anche Padre Tomas, soffre di varie fragilità e difetti, oltre ad aver bisogno di un perfezionamento continuo nell’esercizio delle virtù acquisite. Per questo, se non coltiviamo le virtù acquisite, rischiamo di perdere anche quelle infuse.
[5] Questa tendenza ereticale era già stata condannata dal Sant’Offizio il 2 febbraio 1956 (Denz. 3918-3921). Qui il problema è quello di saper regolare il rapporto fra l’astratto e il concreto. La legge morale viene necessariamente concepita, in quanto legge universale, in modo astratto. La concretezza non riguarda quindi la legge, che non muta ed è uguale per tutti, ma riguarda l’azione, la quale, per essere efficace, non può non essere concreta, come lo è la situazione nella quale occorre applicarla. Tuttavia la situazione non è la norma dell’azione, ma è solo una circostanza nella quale la legge dev’essere applicata.
[6] Padre Tomas vuol dire che la legge umana non è alla pari di quella divina, sicchè l’uomo abbia facoltà o diritto di contrattare alla pari con Lui nella determinazione del contenuto della legge; ma la legge è fissata da Dio e l’uomo deve semplicemente obbedire.
[7] Innocente
[8] La speranza, come le altre due virtù teologali, raggiunge e riguarda certamente Dio, ma sotto il profilo di ciò che ci promette e quindi non Dio come tale, che è invece oggetto della contemplazione e della visione beatifica.
[9] Nella speranza teologale contemplazione e della visione beatifica. bisogna distinguere un aspetto oggettivo da un aspetto soggettivo. Il primo è Dio stesso, che il Bene eterno, dal quale mi attendo il paradiso; il secondo è il bene mio personale. che consiste nella visione beatifica, che tuttora non posseggo. Per questo la speranza ha per oggetto un bene futuro.
[10] Occorre fare attenzione a non abbassare il livello della meta alla quale tendiamo e che speriamo di raggiungere.
[11] Sott’inteso: non ha ragionevole motivo di sperare.
[12] Bisogna distinguere la disperazione dalla semplice cessazione della speranza e dalla mancanza di speranza. La disperazione è uno stato emotivo di sconcerto perché ci si accorge di dover rinunciare a un bene a cui teneva molto. La cessazione della speranza avviene quando si è raggiunto il bene sperato. La mancanza di speranza è una colpa morale dovuta al fatto che uno non vuol sperare, quando avrebbe le ragioni di sperare.
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