Oltre la ragione e contro la ragione - Seconda Parte (2/3)

 

Oltre la ragione e contro la ragione

Seconda Parte (2/3)

 

Dalla ragione alla fede e dalla fede alla ragione

Il problema dell’idealismo

 Da princìpi di ragione ossia partendo dalla filosofia la mente umana può giungere, per grazia di Dio, alla fede e costruire la teologia cristiana; ed una volta conseguita la fede, alla luce della fede mediante la ragion pratica può costruire la teologia morale e organizzare l’attività morale.

Il disprezzo per la ragione e il modo esagerato di Lutero di concepire la corruzione della natura umana a seguito del peccato originale, lo portano a negare che dalla ragione possa venire la verità e quindi a negare l’esistenza di verità umane universali e certe, naturali, razionali o filosofiche e a sostenere che la verità viene solo dalla fede e dall’accoglienza della Parola di Dio, credendo con ciò di magnificare la fede, mentre in realtà la distrugge, abbassandola al livello di un’esperienza, un sentimento, un’emozione o al massimo una visione o un sapere intuitivo ed immediato, mentre la vera fede cristiana non è affatto questo: il sentire o vedere immediato è proprio del senso o al massimo della ragione.

La fede cristiana è un sapere teologico soprannaturale intellettuale e concettuale, infuso da Dio, mediato da una previa opera della ragione, che è già consapevole dell’esistenza di Dio per averla dimostrata, ed inoltre ha constatato l’attendibilità della testimonianza dell’annunciatore del messaggio di fede.

Ridurre quindi la fede a un sentimento o a un sapere immediato vuol dire abbassarla al livello del senso e della ragione, ignorando il carattere di soprannaturalità della fede. Così si spiega come mai Hegel, che dichiara di voler dare base filosofica alla sua fede luterana, considera la ragione come rivelazione divina: perché già Lutero stesso, nel suo fideismo, aveva confuso senza accorgersene la fede con quella stessa ragione contro la quale aveva lanciato i suoi strali in nome della fede.

Kant

In tal modo gli idealisti tedeschi a cominciare da Kant finirono per far coincidere il razionalismo cartesiano col fideismo irrazionalista luterano e cominciarono a parlare di una «fede razionale» e di una ragione assimilata a una rivelazione divina o identificata con Dio stesso.

Inoltre la confusione del credere col vedere porta gli idealisti a confondere la fede-ragione con una visione originaria, immediata ed apriorica di Dio. Oggetto iniziale, finale e permanente del pensiero, dirà esplicitamente Hegel, non è l’ente, non è la realtà esterna, non sono le cose esterne, ma Dio. Il primo conosciuto non sono le cose sensibili, ma è Dio. Il pensiero non parte più dalle cose per arrivare al concetto di Dio, ma parte dal concetto di Dio per affermare l’esistenza di Dio e delle cose. Anzi l’idea di Dio identificata con Dio è la condizione di possibilità del stessa esperienza sensibile. L’ordine del conoscere è capovolto ed è identificato con l’ordine dell’essere: come dal primo ente, Dio, deriva l’ente finito e sensibile, così  la conoscenza non parte più dalle cose per arrivare a Dio, ma parte da Dio per arrivare alle cose, trascurando il fatto che questo processo conoscitivo è proprio ed esclusivo  di Dio e non dell’uomo.

Sorse così quel razionalismo aprioristico che da Cartesio avrebbe portato allo gnosticismo idealista e panteista di Hegel: il reale è il razionale, l’identità del pensiero con l’essere, la cosa è il concetto della cosa, l’ideale è identico al reale, e primeggia sul reale. Come si giunse a questo punto? Perché Cartesio aveva concepito la ragione in atto di pensare (res cogitans) come essenza dell’uomo.

Da ciò Kant ha ricavato il suo concetto di ragione: dopo avere con una falsa umiltà proibito alla ragione di elevarsi al soprasensibile partendo dall’esperienza, viene poi fuori, trattando della ragion pratica, con una ragione basata solo su se stessa, che costruisce una «metafisica» non come scienza dell’ente, ma come «ragione che conosce se stessa».

Nello stesso tempo Kant non accetta una rivelazione divina che pretenda di oltrepassare i limiti della ragione, perché egli intende questi limiti come regola della verità dei contenuti della religione. «Limite», qui, pertanto non dice finitezza superabile da un’infinità, ma dice norma, regola, criterio. Per Kant non è che la ragione sia limitata, così da poter essere superata da quella divina. Il limite, qui, non è l fatto che la ragione sia limitata, ma è l porre un limite, una misura. 

Non esiste pertanto un sapere divino superiore a quello della ragione. Non ammette una teologia basata su di una rivelazione divina, come è quella rivelata proposta dalla Chiesa, e quindi una teologia cristiana. Kant ha ragione nel non ammettere una religione i cui contenti siano contro la ragione o fuori dalle regole della ragione. Solo che egli non ammette un sapere sovrarazionale, il sapere cristiano di fede, che si presenta superiore alla ragione. Per lui si tratta di un falso sapere che in realtà è impostura e fantasticheria.

Per Kant Dio non esiste come persona reale fuori e al di sopra della ragione, ente primo, supremo e sommo, creatore della ragione, ragione sussistente e infinita, ma come Idea suprema della ragione, Idea a priori che è necessario ammettere per dare unità suprema al sapere della ragione e come postulato della ragion pratica per spiegare l’assolutezza dell’imperativo categorico proprio della coscienza morale.

Si capisce allora come la ragione kantiana sbocchi nella ragione hegeliana, divina per se stessa, che sostituisce il primato dell’intelletto, declassato ad astratto distinguere con il primato sintetico della ragione autocosciente come Io che riflette su se stesso nella circolarità conflittuale della dialettica dell’Idea assoluta.

Hegel

Se Kant parla di una fede razionale e di una religione, che rifiutano come irrazionali i dogmi cristiani, che trasgrediscono i suoi invalicabili limiti, per cui Kant non ammette una rivelazione divina circa verità sovrarazionali, Hegel intende farsi interprete della fede cristiana riconducendola alla filosofia da lui intesa come pieno svelamento razionale e logico di quei contenuti che la fede accetta senza dimostrarli.

L’interesse di Kant per lo spirito si limita allo spirito umano. Dio come Spirito non ha posto nella teologia kantiana[1], strettamente limitata al dettame della ragione e diffidente nei confronti dei dogmi cristiani, che secondo Kant trasgrediscono i giusti limiti della ragione. Mentre Kant è legato alla religiosità illuministica, razionalistica e massonica, Hegel vive nell’atmosfera della religiosità romantica, della restaurazione postnapoleonica, recupero parziale del misticismo medioevale ma inquinato da tendenze panteistiche, conseguenze dell’ormai indiscusso cogito cartesiano, al quale si aggiunge il soggettivismo fideista luterano.

Così Hegel non ha alcun problema a riconoscere che Dio è Spirito e quindi parla dello Spirito assoluto con riferimento a Dio[2]. Ma la cosa notevole è che Hegel non parla mai di Spirito Santo, ma sempre e solo di «Spirito» ed anzi la sua famosa espressione «spirito del mondo» (Welgeist) ha una curiosa sinistra assonanza con quello che San Paolo chiama «spirito di questo mondo» (I Cor 2,10).

Hegel non disdegna di parlare di fede cristiana e religione rivelata come religione dello Spirito. Tuttavia per lui «il contenuto della filosofia e della religione è il medesimo»[3]. E di fatti per Hegel non c’è una superiorità della fede sulla ragione, perché la filosofia è il sapere assoluto; non esiste per lui un sapere superiore a quello della ragione. Così pertanto, la ragione supera l’intelletto e solo lei conduce alla verità intera in forza della sintesi dialettica, al di là del sì e del no come nella cusaniana coincidentia oppositorum perché Dio stesso è dialettico, mentre l’intelletto col suo distinguere crea opposizioni che è compito della ragione conciliare e superare.

Per Hegel la fede ha quindi sì Dio come oggetto di conoscenza; ma solo attraverso la rappresentazione immaginativa (Vorstellung) e sensibile, mentre la filosofia forma il concetto di Dio, anzi di Dio come Concetto e ne definisce l’essenza come Idea assoluta. La filosofia appartiene all’ordine del pensare (denken) e dimostra la necessità logica di ciò che per la fede è un mistero e un semplice dato di fatto.

Per Hegel la mia ragione è la stessa ragione divina, perché la ragione è per se stessa divina, è Dio, è Spirito. Egli parla bensì di una religione «rivelata», ma questa espressione, nella mente di Hegel, non significa una religione come dottrina rivelata da Cristo e dalla Chiesa alla mia ragione, dottrina o dogma contenente verità per me misteriose che devo accettare per fede. Ma significa che è la stessa ragione che rivela il contenuto della religione nascosto sotto le figure e i simboli dell’immaginazione.

Con la sua divinizzazione della ragione Hegel avverte la possibilità di essere accusato di panteismo e cerca di scagionarsene con una definizione grossolana di panteismo - «Dio è tutte le cose empiriche, senza differenza, le più pregiate come le triviali»[4], cosa che, come osserva, non è mai venuta in mente a nessuno.

Eppure non si rende conto del fatto che se l’essere è identico al pensare, se il pensiero è intrascendibile, se il razionale è il reale, se la cosa è il concetto della cosa, se l’essere s’identifica con l’essere divino, e d’altra parte, se ogni cosa è un ente e l’uomo è un ente, il panteista viene proprio a sostenere quella assurdità e, quel che è peggio, identifica l’essere umano con l’essere divino. Il panteismo («tutto è Dio») non è altro che questo.

Così la fede per Hegel è bensì conoscenza della Verità divina assoluta, ma sotto i veli e le figure dell’immaginazione secondo una gnoseologia realista, che pone Dio trascendente alla ragione umana. Questa conoscenza per Hegel dev’essere superata dall’intuizione della ragione, fondata sull’autocoscienza cartesiana, propria dell’idealismo, per la quale io conosco nella mia autocoscienza, ossia Dio non più nei termini di un essere esterno al pensiero, ma come Spirito cosciente di se stesso nel mio essere cosciente di me stesso.

Hegel fa corrispondere la fede e la religione all’attitudine realistica, per la quale ammetto un reale al di là della capacità della mia ragione, un reale del quale non vedo la ragione o necessità logica. Ora Hegel, come è noto, considera come tutti gli idealisti questa attitudine come una ragione bloccata nell’esteriorità, alienata da se stessa e non tornata su se stessa come autocoscienza compiuta. Dice Hegel:

 

«La religione può avere un contenuto qualsivoglia; ma è ferma la posizione della coscienza che il contenuto è tale che sta al di là e, se anche la determinazione arriva a una rivelazione soprannaturale, il contenuto è senz’altro dato ed esterno per noi. Ne viene, per una rappresentazione che il contenuto divino è solo dato, che non è accessibile alla ragione, che noi nella fede dobbiamo comportarci solo passivamente»[5].

Il realista non ha difficoltà a riconoscere che c’è una realtà a lui esterna che non ha posto lui ma che gli è data, una realtà trascendente che apprende sì con l’intelletto e concepisce, ma che non conosce esaustivamente e che con la ragione non riesce pienamente a comprendere o a spiegarsi. Per questo nel realista c’è una disponibilità naturale a credere a qualcuno, uomo o Dio, che gli parla di qualcosa che per lui è misterioso.

Il realista non fatica quindi ad avvertire Dio come un Tu, del quale si fida e che è pronto ad ascoltare. Egli sa che deve ricevere dalla realtà, dev’essere informato dagli altri e dalle cose, perché egli non è la totalità dell’essere.

Viceversa l’idealista, come Hegel, per il quale l’essere coincide col suo io o con la sua autocoscienza, non vuole ammettere niente di cui non abbia coscienza e che non sia nella sua coscienza, qualcosa di ricevuto, che non sia posto da lui e che venga dal di fuori o dagli altri, poiché per lui non esiste niente al di fuori o al di là della sua coscienza. O qualcosa che gli appare è tale per cui lo avverte come qualcosa di pienamente controllabile da lui, e allora lo accetta; altrimenti lo respinge come non esistente o impossibile.

Ora è chiaro che se c’è qualcosa di sommamente trascendente rispetto alla ragione, questo è il dato di fede, per cui per l’idealista questo dato esterno è quanto di più ripugnante alla ragione egli possa concepire. Con tutto ciò Hegel continua a parlare di «fede cristiana», ma in realtà questa fede non è il prender per vera la dottrina rivelata da Gesù Cristo, per il motivo della sua autorità divina, ma è concepita come l’intuizione immaginaria o «rappresentazione» (Vorstellung) preparatoria o introduttiva all’Idea della ragione. Ciò che inizialmente per Hegel appare come esterno – fede, religione – si rivela essere interno e immanente alla coscienza -ragione, filosofia -.

Così per Hegel non è la fede ad essere l’inveramento della ragione; non è la religione ad essere l’inveramento della filosofia, ma è questa ad essere l’inveramento di quella perché la filosofia sa il perché è così ciò che la religione e la fede sanno soltanto che è così. Dice Hegel:

 

«La filosofia si determina come una conoscenza della necessità del contenuto della rappresentazione assoluta e della necessità di entrambe le forme, cioè da una parte dell’intuizione immediata, della sua poesia e della rappresentazione che fa soltanto un presupposto, e della rivelazione oggettiva ed estrinseca» (arte); «dall’altra dapprima il profondarsi in sé soggettivo, poi del movimento soggettivo e della identificazione della fede con l’oggetto presupposto» (religione)[6]. «La fede riposa sulla testimonianza dello Spirito, che, in quanto testimonia, è lo Spirito nell’uomo»[7]. Invece nella filosofia la «logicità è il suo risultato come spiritualità»[8].

Nella religione-fede lo Spirito, ossia Dio stesso, testimonia di sé nell’uomo. Nella filosofia-ragione si ha il «sillogismo della riflessione spirituale nell’Idea»[9], dove la «natura è il termine medio»[10]. A questo sillogismo segue

 

«l’idea della filosofia, la quale ha per termine medio la ragione, che sa se stessa, l’assolutamente universale: termine medio che si dualizza in spirito e natura, fa di quello il presupposto come processo dell’attività soggettiva dell’idea, che è in sé e oggettivamente»[11]. «L’Idea eterna in sè e per sé si attua, si produce e gode se stessa eternamente come Spirito assoluto»[12].

Hegel intende dunque dire che io con la mia ragione come Spirito, che si attua come Idea, svelo ciò che per la fede è il mistero, capisco nel concetto e dimostro il perché e la necessità logica della verità divina, quella verità che la fede accetta come un dato di fatto senza conoscerne la ragione.

Questa coincidenza del concetto umano col concetto divino nasce dal fatto che l’idealista confonde il pensabile col pensato, il reale esterno a lui ignoto col reale immanente nella sua coscienza, per cui per lui non esiste un reale pensabile, ma per lui anche il pensabile è da lui pensato. Non riesce ad ammettere che per lui esista un non pensato da lui. «Se io penso al non pensato – egli dice – già lo penso e quindi è pensato da me». Con queste parole l’idealista si conferma nel suo tipico errore di confondere l‘essere con l’essere pensato. Io certo posso pensare al non pensato, ma se esso diventa pensato da me in me, questo non vuol dire che non resti in se stesso non pensato.

Egli ha un bel dire che dicendo ciò non intende dire di essere onnisciente, tuttavia, il pensiero dovrà ben avere un oggetto, per cui, quando egli dice che non c’è nulla che non sia da lui pensato e che non c’è nulla fuori del suo pensiero a cui egli non pensi, che cosa viene a dire che tutto è nel suo pensiero? Allora che cosa significa «tutto» se non «tutte le cose», compreso Dio? Dunque come non verrebbe a dire che lui, pensando il tutto, pensa e quindi conosce tutte le cose? E che cosa è questa se non onniscienza?

Rahner falsifica la gnoseologia tomista in senso hegeliano.

Non occorre la fede: basta la ragione

La distinzione fra ragione e fede si giustifica solo in una gnoseologia realista, non in una gnoseologia idealista. Infatti se io,  come credeva Hegel, e come già aveva vaticinato Cartesio, pongo l’essere e il mio essere nel momento in cui lo penso,  se ciò a cui penso non è un reale a me esterno, ma è un pensato da me, un mio concetto o una mia idea, se  il mio essere è il mio pensare, se il reale non è fuori di me, ma coincide con la mia ragione, se non distinguo la cosa dal concetto della cosa, se il mio conoscere non è imparare cose nuove a me prima sconosciute, ma è il prendere coscienza di ciò che già so, se il reale o l’ente non mi è inizialmente ignoto, così che per conoscerlo io debba contattarlo con i sensi e apprenderlo con l’intelletto, se l’ente non è altro da me, ma sono io, sicchè conoscendo l’ente prendo coscienza di me stesso, torno su ciò che già sapevo, allora è evidente che nel cammino della mia ragione non posso incontrare cose o realtà o verità che superino la portata della mia ragione, sicchè io, per poterle conoscere, mi senta obbligato a fare un atto di fede, ossia a credere a colui, uomo o Dio, che mi annunci o mi riveli quelle cose o quelle verità.

Ma c’è un’ulteriore conseguenza e cioè che se tutto questo è vero, allora il mio pensare in nulla si distingue dal pensare divino, il quale solo è identità di essere e pensare, come dimostra San Tommaso[13].

Rahner, con studiati artifici e patenti falsificazioni di testi[14], attribuisce a San Tommaso una gnoseologia che non è la sua, ma quella di Hegel modificato da Heidegger. Infatti Rahner prende da Hegel il principio che essere significa pensare e il pensare è l’essere, ossia dell’identità di conoscenza e autocoscienza, di reale e razionale. Da Heidegger prende la riduzione del pensare all’essere uomo. L’uomo è l’essere che pensa l’essere. E l’essere è l’essere umano nel tempo.

Vediamo i molteplici fraintendimenti e manipolazioni di testi tomistici con i quali Rahner trasforma Tommaso in un hegeliano condito di Heidegger.

1.Rahner cita le parole di San Tommaso del Proemio al Commento alla metafisica di Aristotele: «Intellegibile et intellectum oportet proportionata esse et unius generis, cum intellectus et intellegibile in actu sint unum». Rahner interpreta così:

 

«essere e conoscere derivano da un’unica radice, sono in un’unità originaria. Essere è per sé conoscere e conoscere è la capacità che ha l’essere, per la sua stessa costituzione, di riflettere su se stesso, è la sua soggettività»[15].

In realtà per Tommaso le cose non stanno affatto così. Essere e conoscere sono in un’unità originaria solo in Dio, la cui essenza, come chiarisce bene Tommaso[16], è proprio quella di essere l’unico ente la cui essenza sia appunto identità di essere e di conoscere. Dio è il suo essere e il suo conoscere. Solo Lui è assoluta autocoscienza e soggettività assoluta. Concepire l’essere alla maniera di Rahner è lo stesso che concepirlo alla maniera di Hegel: l’essere è Dio. Ma questo è panteismo, cosa aborrita da Tommaso ed eresia condannata dalla Chiesa.

L’essere, per San Tommaso, è semplicemente l’atto dell’ente, non importa che sia materiale o spirituale, umano o divino. Il conoscere intellettuale, quindi, e l’autocoscienza non sono la proprietà dell’essere come tale, ma solo di una categoria di enti, gli enti spirituali, l’anima umana, l’angelo e Dio.

2. Rahner cita a sostegno della sua interpretazione le seguenti parole di Tommaso: «intellectus in actu perfectio est intellectus in actu»[17]. Esse corrispondono a una formula aristotelica più volte ripresa da Tommaso: «intellectus in actu est intellectum in actu», che parrebbe avere un sapore idealista; e difatti le si può considerare un punto di contatto con l’idealismo. Ma vanno spiegate con cura. Non si tratta infatti qui di un’identità ontologica, come vorrebbe Rahner, identità che sarebbe assurda, ma solo intenzionale, come si premura di spiegare Tommaso subito sotto:

 

«Res intellecta est perfectio intelligentis secundum suam similitudinem quam habet un intellectu: non enim lapis qui est extra animam est perfectio intellectus possibilis nostri»[18].

Ora, Intellectus in actu est intellectum in actu vuol dire che quando io pronuncio un giudizio vero, il contento intellegibile inteso di ciò che penso è identico al contenuto reale di ciò che è, di ciò che esiste in sé fuori di me. E mentre il contenuto interiore del mio pensiero l’ho prodotto io col mio intelletto, l’essere del reale fuori di me e davanti a me («ob-jectum») non l’ho prodotto io, ma l’ho trovato già fatto,  creato da  Dio. Ma il mio intelletto e l’oggetto reale del mio conoscere non siamo affatto identici, ma siamo ontologicamente diversi.

Faccio un esempio. Se l’uomo è un animale ragionevole e io penso e dico che l’uomo è un animale ragionevole, io sono nel vero perché il pensabile o essere «animale ragionevole» si trova ad essere lo stesso nel mio pensiero e nella realtà.

Il che ovviamente non vuol dire che l’animale ragionevole nel mio spirito e fuori di me, ossia l’uomo in carne ed ossa sia ontologicamente la stessa cosa che è ontologicamente il mio intelletto, come Rahner fa dire a S.Tommaso. Solo se io fossi Dio, identità di essere e pensiero, totalità assoluta dell’essere, virtualmente contenente in sé ogni essere perché ideatore e creatore dell’essere, potrei pensare ad un’identificazione ontologica del mio intelletto con la realtà.

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 maggio 2024

 


La distinzione fra ragione e fede si giustifica solo in una gnoseologia realista, non in una gnoseologia idealista. Infatti se io,  come credeva Hegel, e come già aveva vaticinato Cartesio, pongo l’essere e il mio essere nel momento in cui lo penso, se ciò a cui penso non è un reale a me esterno, ma è un pensato da me, un mio concetto o una mia idea, se il mio essere è il mio pensare, se il reale non è fuori di me, ma coincide con la mia ragione, se non distinguo la cosa dal concetto della cosa, se il mio conoscere non è imparare cose nuove a me prima sconosciute, ma è il prendere coscienza di ciò che già so, se il reale o l’ente non mi è inizialmente ignoto, così che per conoscerlo io debba contattarlo con i sensi e apprenderlo con l’intelletto, se l’ente non è altro da me, ma sono io, sicchè conoscendo l’ente prendo coscienza di me stesso, torno su ciò che già sapevo, allora è evidente che nel cammino della mia ragione non posso incontrare cose o realtà o verità che superino la portata della mia ragione, sicchè io, per poterle conoscere, mi senta obbligato a fare un atto di fede, ossia a credere a colui, uomo o Dio, che mi annunci o mi riveli quelle cose o quelle verità.

Ma c’è un’ulteriore conseguenza e cioè che se tutto questo è vero, allora il mio pensare in nulla si distingue dal pensare divino, il quale solo è identità di essere e pensare, come dimostra San Tommaso.

Rahner, con studiati artifici e patenti falsificazioni di testi, attribuisce a San Tommaso una gnoseologia che non è la sua, ma quella di Hegel modificato da Heidegger. 

Immagine da Internet: San Tommaso d'Aquino, Peroni Giuseppe



[1] Vedi Italo Mancini, Kant e la teologia, Cittadella Editrice, Città di Castello, 1975.

[2] Come è noto, Hegel parla del suo tempo come tempo di manifestazione totale dello Spirito. Cf Massimo Borghesi, L’età dello Spirito in Hegel. Dal Vangelo «storico» al Vangelo gelo «eterno», Edizioni Studium, Roma 1995. Del resto, che cosa è la Fenomenologia dello Spirito che cosa è in fondo se non la descrizione della progressiva manifestazione dello Spirito divino nella storia e nella coscienza dell’uomo?

[3] Enciclopedia delle scienze filosofiche un compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.517.

[4] Op.cit., p.519.

[5] Lezioni sulla filosofia della religione, Zanichelli Editore, Bologna 1974, vol. II, p.233.

[6] Ibid., p.516.

[7] Ibid., p.517.

[8]Ibid., p. 528.

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11]Ibid., p. 529.

[12] Ibid.

[13] Sum.Theol.,I, q.14, a.4.

[14] Per una dettagliata dimostrazione di questa truffa, vedi il famoso studio critico di Cornelio Fabro, La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi, Milano 1974, analisi lucidissima che purtroppo non è riuscita ad impedire l’esplosione di rahnerismo che oggi sta affliggendo la Chiesa con gravi conseguenze sul piano dei costumi morali.

[15] Uditori della parola, Borla, Roma, 1977, p.70.

[16] Sum.Theol.,I, q.14, a.4.

[17] Contra gentes, II,c.99.

[18] Ibid.

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