Oltre la ragione e contro la ragione
Prima Parte (1/3)
Sono accusata di stoltezza da uno stolto
Sofocle, Antigone, 470
Ragione e intelletto
La realtà
che ci circonda ovvero l’orizzonte sconfinato dell’essere nel quale siamo e
viviamo comprende enti costituiti in gradi diversi di entità: al più alto grado
il mondo dello spirito, ossia gli enti sovrarazionali: le anime separate, gli
spiriti, Dio e la nostra stessa anima, enti razionali e di nostra pari dignità:
i nostri simili nell’umanità, nonché il mondo materiale degli enti
infrarazionali, gli animali, le piante e l’universo fisico.
La ragione è quella facoltà che il nostro intelletto possiede di avanzare nella conoscenza procedendo nel tempo mediante una successione di giudizi metodicamente concatenati l’uno di seguito all’altro secondo nessi regolati dalla logica, che è l’arte del saper ragionare con proficuo e senza sbagliare.
La ragione è messa in moto dall’intelletto ed ogni suo ragionamento conclude e si ferma in un atto dell’intelletto col quale esso contempla la verità raggiunta. La conclusione raggiunta costituisce la base e il punto di partenza della ragione per riprendere il cammino e fare un altro passo nel progresso della scienza.
L’intelletto è la facoltà del conoscere vale a dire del divenire immaterialmente tutte le cose mediante un’immagine o similitudine o rappresentazione, che astrae dalla concretezza materiale della cosa singola (intelletto passivo o ricevente). Per operare questa identificazione intenzionale o immateriale con la cosa, l’intelletto (intelletto agente) produce una rappresentazione o concetto e sono prodotti dall’intelletto, con i quale e nel i quale esso coglie l’essenza o la forma (specie impressa) del suo oggetto, l’ente o il reale. Nella rappresentazione o concetto della cosa e nel giudizio l’intelletto esprime mentalmente (specie espressa, verbum interius) quanto della cosa ha capito e lo esprime esteriormente nel linguaggio (verbum exterius).
L’intelletto comincia la sua attività contattando mediante i sensi una singola cosa, un singolo ente sensibile, dal quale poi ricava successivamente la nozione metafisica dell’ente in quanto ente. E da qui capisce che ogni ente è quello che è e non altro, formulando così il principio di identità.
In secondo luogo l’intelletto si accorge che gli enti con i quali viene a contatto sono causati, cioè non hanno in se stessi la ragione e il fondamento del proprio esistere. A questo punto l’intelletto formula il principio di causalità e si domanda qual è la causa degli enti contattati.
A questo punto entra in funzione l’attività della ragione, la quale si propone di chiarire perchè quella causa produce quell’effetto e qual è la causa di quel dato effetto. Inoltre l’intelletto scopre che ogni ente agisce e si domanda per quale fine agisce. Ecco formulato il principio di finalità. La ragione, dal canto suo, viene stimolata a cercare la causa per la quale un dato ente persegue quel dato fine.
Se con la scoperta della causa efficiente la ragione in quanto speculativa contempla l’ordine dell’essere o del reale, essa, con la scoperta del fine, in quanto ragion pratica, forma la nozione del bene, oggetto della volontà e può quindi indirizzare la volontà alla pratica del bene ed alla prosecuzione del fine.
In altre parole, l’intelletto scopre l’ordine dell’azione, cosicchè dà modo alla ragione di diventare ragion pratica, la quale si incarica di presentare alla volontà il fine da raggiungere e detta la legge da mettere in pratica per ottenere il possesso del fine.
La ragione umana, nell’indagine delle cause prime, giunge alla scoperta di una causa prima, che conosce la ragione di tutte le cose e dà ad esse la loro ragion d‘essere in quanto causa del loro essere. Noi possiamo conoscere il perché delle cose solo entro certi limiti, perché le cose non le abbiamo ideate e create noi, ma questa causa prima che è Dio. Per questo noi in molti casi ci troviamo davanti a realtà per noi misteriose. L’indagine in certi casi può svelare il mistero, ma in altri casi il mistero, soprattutto quello divino, è per noi impenetrabile, per quanto possiamo far luce.
Un atto della ragione che qui dobbiamo prendere in speciale considerazione è l’atto di fede, il credere. Con questo atto la ragione coglie una verità che non le è evidente né riesce a dimostrare, ma sa che è una verità in forza dell’autorità del rivelante, uomo o Dio. Nel caso della fede la volontà, attirata dall’autorità del rivelante, comanda alla ragione, che è al corrente dei segni di credibilità prodotti dal rivelante, di aderire al messaggio del rivelante prendendolo per vero, anche se non sa perchè è vero.
La ragione sa tuttavia almeno che quanto è rivelato è possibile. Infatti un messaggio assurdo non sarebbe credibile. Credervi non sarebbe virtù, come dice Tertulliano, ma sarebbe stoltezza. Pensare che Dio ci dia a credere delle assurdità o delle corbellerie è offendere Dio. Il credibile non è contro la ragione, non ripugna alla ragione. Può sembrare tale, ma sta alla teologia spiegare che non è così. In realtà il credibile è in armonia con la ragione, e il credere, se non è un atto emanato dalla ragione, è comunque un atto intellettuale conforme a ragione, secondo ragione e preparato da una verifica condotta dalla ragione circa i motivi per credere.
I due famosi princìpi agostiniani intelligo ut credam, capisco per credere, e credo ut intelligam, credo per capire, devono essere posti in successione: il secondo al primo, perché il nostro conoscere inizia con l’attività razionale e solo successivamente veniamo a contatto, se ciò ci è concesso, col messaggio cristiano di fede e quindi possiamo, illuminati da Dio, accedere alla fede, anche se è vero che Dio illumina anche coloro che senza colpa ignorano Cristo e la Chiesa.
Osserviamo poi che noi possiamo dimostrare e comprendere totalmente ed esaustivamente con la nostra ragione i prodotti della nostra ragione, come per esempio le leggi della logica o gli enti matematici o i simboli e i segni del linguaggio o il funzionamento di una macchina da noi costruita o un’intenzione del nostro pensiero. Qui vale il principio di Gianbattista Vico verum ipsum factum. Ma davanti a certe realtà o a certi pensieri ci accorgiamo che appartengono a una ragione superiore alla nostra. Si tratta di cose che non riusciamo a spiegare o a motivare. La nostra ragione è oltrepassata da un’intellegibilità che ci sfugge e non riusciamo a comprendere o a dimostrare o a fondare nella nostra ragione.
Esistono inoltre enti conoscenti a noi superiori, gli angeli, e a noi inferiori, gli animali, che non fanno uso della ragione, i primi perché hanno un intelletto puramente intuitivo così perfetto e potente, che non ne hanno bisogno; i secondi perché non la posseggono, non avendo un’anima razionale, ma solo sensitiva, per cui tutto il loro conoscere si risolve nell’attività dei sensi esterni ed interni.
Nella nostra natura invece l’attività intellettuale propria dell’angelo si congiunge con quella psichica propria dell’animale, per dare origine a un sapere che è ad un tempo sensibile ed intellettuale. Ciò è dovuto al fatto che come gli animali e a differenza degli angeli che sono puri spiriti, noi possediamo un corpo, per cui dato che il corpo agisce nel tempo, il nostro sapere procede si svolge nel tempo, con una ordinata – si suppone - successione di stati e di atti della ragione nei quali avviene un continuo scambio ed un continuo andirivieni dal senso all’intelletto o viceversa, dall’induzione alla deduzione, dall’esperienza alla ragione e dalla ragione all’esperienza.
Così iniziamo con un contatto sensibile con le cose materiali esterne e giungiamo alla coscienza di noi stessi mettendo in opera la riflessività dell’intelletto, ed una volta in possesso dei princìpi e degli ideali, giudichiamo circa gli atti da compiere e ritorniamo con l’azione sul piano dell’esperienza.
Gli animali si fermano a questo contatto trasferendo i contenuti intenzionali (le sensazioni, le immagini, i giudizi del senso, i ricordi) nel loro senso interno. A noi ciò non basta, ma ci occorrono l’intelletto e la ragione, con i quali cogliamo l’essenza delle cose, al che segue l’atto del nostro potere appetitivo, che non è solo l’appetito sensibile, ma anche la volontà.
L’articolazione intenzionale del nostro pensiero
Bisogna innanzitutto distinguere il pensabile dal conoscibile. Il pensabile è ciò che, non essendo contradditorio, è realizzabile o, se non è realizzabile, quanto meno è possibile oggetto del nostro intelletto. Noi possiamo pensare o immaginare cose possibili che non esistono nella realtà o che possono esistere. Il conoscibile è invece un ente possibile realizzato o esistente nel mondo ideale o nella realtà, che può essere attinto o compreso dall’intelletto e dalla ragione.
Bisogna inoltre distinguere il conoscibile dallo scibile e dal credibile. Conoscibile è in generale ciò che può essere attinto, colto o appreso dal nostro intelletto. Può essere il dato scientifico o il dato evidente; ma può essere anche il credibile, ciò che non riusciamo o possiamo a dimostrare razionalmente; è al di sopra della nostra personale ragione, ma noto alla scienza o alla ragione umana come tale o ad altri più istruiti di noi, oppure si tratta di un dato divinamente rivelato, al di là della ragione come tale, come sono i dati della fede cristiana.
Benchè Dio propriamente non eserciti l’attività razionale, in quanto essa comporta un succedersi di proposizioni o di giudizi nel tempo, mentre la mente divina è puro pensiero sussistente identico all’essere divino, è conveniente distinguere una ragione divina dalla ragione umana. È evidente infatti che la nostra ragione si scopre limitata nel suo potere, soggetta all’errore, stimolata dalla presenza della realtà che ci circonda, bisognosa di essere educata e regolata, semplice facoltà in un soggetto, per cui ora agisce ora non agisce, diversamente presente nei vari individui umani che la posseggono, soggetta quindi a diversi gradi di perfezione. Come non accorgersi che la nostra ragione esiste un quanto creata da Dio, che, dotandoci di ragione, ci ha creati a sua immagine e somiglianza?
Dunque ecco l’importanza di far buon uso della nostra ragione, rispettando le regole del suo buon funzionamento, senza pretendere di sapere di più di quanto essa può sapere, ma nel contempo valorizzandola al massimo delle sue forze, la cui massima prestazione comporta la scoperta dell’esistenza di Dio e degli attributi divini, principio della conoscenza della legge morale che deve fare da guida nel nostro cammino verso Dio.
Ciò invece che è credibile è al di là e al di sopra di ciò che per noi è scibile e immediatamente constatabile: sono i dati della storia, i messaggi dell’autorità umana e divina, le testimonianze di Cristo, degli apostoli, della Chiesa, dei credenti in Dio. Ma noi non potremmo prender per veri questi messaggi e queste testimonianze, a non fossimo già in possesso di un sapere razionale che il dato di fede conferma, arricchisce, perfeziona, corregge e sovrasta nel suo inesauribile ed incomprensibile mistero naturale e soprannaturale.
La demenza e la stoltezza
La prima è un disturbo o una disfunzione psichica involontaria e quindi non colpevole, curabile dallo psichiatra. La seconda è una disfunzione spirituale dell’intelletto e della volontà, e quindi colpevole, per la quale l’intelletto, con procedimento sofistico, reso ottuso dalle attrattive carnali, offuscato da vane immaginazioni, impugna con superbia e protervia la verità conosciuta e la volontà, trascinata da cattive passioni, opta, come scopo della vita, per se stessa o per beni terreni anziché per Dio. Lo stolto è difficilmente guaribile a causa della superbia, che facilmente ne è causa. La stoltezza ha spessa la forma di una falsa sapienza.
Al falso sapiente appare stolto il vero sapiente. In tal modo San Paolo sembra fare un’apologia della stoltezza, quando esorta il cristiano a «farsi stolto» (I Cor 3,18), stolto, s’intende, agli occhi della sapienza «di questo mondo» (ibid.), che è la vera stoltezza. I dementi sono curati negli istituti psichiatrici, mentre certi falsi sapienti li si può trovare nelle facoltà universitarie di filosofia e teologia. Ma il confine tra gli uni e gli altri a volte è molto sottile, perché il disturbo psichico può essere conseguenza della superbia e delle idee false, mentre l’autismo psichico può dar occasione all’Io assoluto degli idealisti.
Fenomeno demenziale è per esempio l’allucinazione, per il quale il soggetto scambia per dato reale esterno un’immagine della sua immaginazione malata, ossia non adeguata al dato reale. L‘allucinato crede che sia reale il contenuto della sua immaginazione. Non è cosciente del fatto che l’immagine che ha nella sua mente non l’ha ricavata da un contatto sensibile con una realtà esterna, ma è semplice parto della sia immaginazione.
La teoria di Cartesio secondo la quale noi sbagliamo nel ritenere che le immagini che abbiamo in noi di cose da noi ritenute esterne siano vere rappresentazioni di cose realmente esterne, considera come condizione psichica universale e necessaria il fenomeno patologico dell’allucinazione, privandoci del modo di distinguere l’allucinazione dalla sensazione normale, con la pretesa assurda di dimostrare l’esistenza delle cose esterne, che viceversa è un’evidenza immediata della sensazione normale.
L’assurdo non può essere oggetto della fede
Gravissimo equivoco, nel quale è caduto Lutero, è il credere che S.Paolo faccia l’elogio del cristianesimo come stoltezza, per cui per essere buoni cristiani non si deve amare la sapienza, non si deve ascoltare la ragione o ben ragionare, ma al contrario, bisogna opporsi alle esigenze della ragione, a ciò che detta la ragione o è razionalmente accettabile, bisogna farsi stolti e odiare la ragione, perché la ragione totalmente corrotta dal peccato originale è falsa ed inganna, e quindi si oppone alla verità di fede e non può accettarla perché la considera nemica.
Lutero con Tertulliano dice: credo quia absurdum, senza rendersi conto della gravissima offesa che arreca a Cristo, considerandolo uno stolto e un impostore che ci prende per fessi obbligandoci a credere a delle assurdità. Così Lutero non si perita di sostenere delle assurdità ammettendo in Dio l’irrazionalità e il peccato, la possibilità della fede senza la ragione, la coesistenza del peccato con la grazia, della salvezza senza il merito, della Scrittura senza la Tradizione apostolica, oppure facendole passare come verità di fede, come appunto la sua tesi del contrasto fra ragione e fede, la negazione dell’esistenza di un vero Dio prima dell’Incarnazione, del libero arbitrio, della possibilità e necessità dell’osservanza dei comandamenti, delle opere e dei meriti, la predestinazione all’inferno.
Il teologo luterano non cerca di sciogliere le apparenti contraddizioni del dato rivelato; non cerca di spiegare come sia possibile che una vergine partorisca, che un morto risorga, che un uomo sia Dio, che in Dio vi siano tre persone, che Cristo dia da mangiare la sua carne o che la sofferenza liberi dalla sofferenza. Anzi, come Tertulliano, si crogiola nell’assurdo proprio perchè vede in esso il contenuto della fede.
Per lui il dato di fede, proprio perchè di fede, deve essere contradditorio, deve essere in contrasto con la nostra ragione, se no, non sarebbe dato di fede. Confonde ciò che è al di sopra della nostra ragione con ciò che è contro. Confonde ciò che è impossibile alle nostre forze con ciò che è assolutamente impossibile, perchè non può esistere e quindi non può essere pensato.
L’onnipotenza è poter fare tutto ciò che è fattibile. Il fatto che Dio rispetti il principio di non-contraddizione non pone un limite alla sua potenza. Quando diciamo che Dio non può creare l’assurdo, quel «non può» non significa limite, ma si riferisce, al contrario, al fondamento di tale potenza.
Lutero crede che ciò che è logicamente ed ontologicamente impossibile per noi non lo sia per Dio, perché Egli starebbe al di sopra del sì e del no. In Lui, come dice il Cusano, ciò che per noi sono gli opposti in Lui coincidono come se non fosse Dio stesso, garante del principio di identità e non-contraddizione e non fosse per noi modello di fedeltà e lealtà nel pensare e nell’agire.
Ma poi il bello è che Lutero, in nome del principio di non contraddizione osa respingere la coesistenza della grazia col merito e col libero arbitrio, l’armonia tra fede e ragione, nega il mistero della transustanziazione eucaristica; si appella a sproposito al principio di non-contraddizione per respingere certi misteri della fede e non si perita di violarlo nel concepire le sue eresie ed assurdità
Invece bisogna dire che il dato di fede non sarebbe credibile se non fosse gnoseologicamente ed ontologicamente possibile, ossia appartenente al campo dell’essere e con una propria identità, se non fosse un qualcosa o se fosse contradditorio, perché il contradditorio non può esistere. Il dato di fede dev’essere credibile e per essere credibile, dev’essere pensabile e possibile effetto dell’azione divina e non nostra. Noi saremmo stolti e insensati se credessimo ad una cosa assurda o impossibile.
I luterani, volendo dare una base filosofica al luteranesimo, benchè Lutero, a parte il suo «maestro» Ockham, odiasse la filosofia, fraintendendo la condanna paolina della filosofia, utilizzarono l’essenzialismo esistenzialistico e volontarista di Suarez[1], ma poi, sorto Cartesio, trovarono che egli era molto meglio per la sua assolutizzazione della coscienza individuale, similmente a quanto aveva fatto Lutero.
Fine Prima Parte (1/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 2 maggio 2024
Ciò che stimola l’atto del ragionare è il contatto dell’intelletto con la realtà esterna mediante i sensi. L’intelletto dà il via al cammino della conoscenza col formare la nozione dell’ente, che ricava per astrazione dalle nozioni degli enti sensibili con i quali viene a contatto mediante l’esperienza.
Tanto la ragione che l’intelletto formano il mondo del pensiero, della coscienza, della conoscenza e del sapere, grandi espressioni dello spirito. L’intelletto intuisce, vede, astrae, concettualizza, questiona, distingue, unisce, afferma, nega, giudica, contempla. La ragione indaga, dubita, discute, confuta, opina, dimostra, risolve, conclude.
Un atto della ragione che qui dobbiamo prendere in speciale considerazione è l’atto di fede, il credere. Con questo atto la ragione coglie una verità che non le è evidente né riesce a dimostrare, ma sa che è una verità in forza dell’autorità del rivelante, uomo o Dio. La ragione sa tuttavia almeno che quanto è rivelato è possibile. Invece il dato scientifico non è solo conoscibile, ma anche scibile: lo possiamo dimostrare razionalmente e quindi è contenuto entro i limiti della nostra ragione e della nostra coscienza.
Considerando il fatto che la ragione è sana quando funziona correttamente sul piano psichico e su quello spirituale, considerando le disfunzioni della ragione bisogna distinguere rispettivamente la demenza dalla stoltezza.
Il dato di fede dev’essere credibile e per essere credibile, dev’essere pensabile e possibile effetto dell’azione divina e non nostra. Noi saremmo stolti e insensati se credessimo ad una cosa assurda o impossibile.
Immagine da Internet: San Giovanni Evangelista, Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio
[1] Cf É.Gilson, L’Ètre et l’essence, Vrin, Paris 1981,c.V.
La ricerca di voler comprendere razionalmente la grandezza di Dio è inutile: o hai la Fede e ti lasci condurre da Lui o non ce l'hai. Nel secondo caso diventa inutile mettere il tutto in discussione
RispondiEliminaCaro Anonimo,
Eliminacertamente la fede è una luce superiore alla ragione.
Tuttavia è impossibile arrivare alla fede senza prima far uso della ragione, perché la fede suppone l’esistenza di Dio previamente dimostrata dalla ragione. Infatti nella fede io credo a quello che la Chiesa mi dice a nome di Cristo, del quale so che è Dio. Ma, se io previamente non so che Dio esiste, come faccio a credere che Cristo sia Dio?
Inoltre c’è da considerare che la ragione serve anche per credere alla Chiesa, come dice Sant’Agostino: “Non potrei credere a Cristo, se non credessi nella Chiesa”. E’ infatti la Chiesa che mi presenta Cristo e che mi indica a chi devo credere per potermi salvare.