Della stessa sostanza del Padre
Riflessioni sul dogma cristologico di Nicea
per una nuova evangelizzazione
Prima Parte (1/4)
Alla ricerca di una definizione dell’identità di Cristo
La prima preoccupazione della Chiesa dopo la presenza terrena di Gesù Cristo, fu quella di chiarire chi fosse Gesù e come definirne la natura e la personalità. Egli infatti aveva dato segni impressionanti di non avere solo poteri umani, ma anche divini, ed aveva affermato di se stesso cose che solo Dio può dire di Se stesso. Molti ne erano scandalizzati pensando che fosse un megalomane, oppure, vedendo la novità del suo insegnamento, pensavano che fosse un ribelle alla legge di Mosè. Ma altri, vedendo i miracoli che faceva, constatando le sue esimie virtù e il bene che faceva al prossimo, pensavano che fosse il Messia promesso dai profeti. Altri ancora, constatando la sua apparente sconfitta e l’insuccesso presso le autorità, pensarono che fosse impossibile che fosse il Messia.
Fu così che nacquero accesi dibattiti su questo argomento riguardante l‘usìa, la natura o essenza di Cristo. Alcuni come Ario, ritenevano che Gesù fosse solo simile, òmoios al Padre, ma ammettere che fosse uguale o identico al Padre nella divinità pareva troppo.
Per poter comprendere e chiarire il significato del dogma niceno, occorre dare la definizione di cinque concetti che prendiamo dalla metafisica:
1. L’essenza (usìa), che è ciò che una cosa è e risponde alla domanda che cosa è?
2. La sostanza (hypostasis), che è una natura singola completa atta a sussistere;
3. La natura (fysis), che è l’ente determinato in quanto principio di attività;
4. La persona (prosopon), in quanto natura spirituale individuale sussistente;
5. La sussistenza (yparxis), che è l’essere in sé e non in altro, che è l’atto d’essere proprio della sostanza e della persona.
La parola sostanza[1], come sappiamo, viene substantia, a sua volta proveniente dall’aristotelico ypokèimenon, che sarebbe il «soggiacente», ciò che sta sotto. Il greco ha ypostasis,che significa qualcosa che sta sotto a qualcosa che sta ritto ed è stabile (dal verbo sìstemi, da cui stasis o sistema). Affine all’ypokèmenon in latino abbiamo il subiectum, il «posto-sotto», il soggetto. Gli Scolastici hanno il termine suppositum.
Quella però che la Chiesa latina nel dogma chiama substantia corrisponde a ciò che Aristotele chiamava usìa, parola derivata da usa, participio presente femminile del verbo einai, essere. Oggi rendiamo il termine usìa con essenza, che è ciò che l’ente è. L’usia è l’essenza dell’ente (on). Per questo per Aristotele l’usia, che noi chiamiamo sostanza, è l’ente nel senso più reale, solido, saldo, pieno, principale e più forte.
Qui abbiamo evidentemente l’idea di un sopra e un sotto. Come mai? Perché Aristotele interpretò la trasformazione dell’ente materiale come processo per il quale un ypokèimenon, la materia cambia di forma e intese questo ypokimenon come qualcosa, la materia (yle), che soggiace e sostiene e quindi sta sotto alla forma (morfè, eidos).
Potremmo chiederci: ma se sostanza implica un composto di materia e forma, mentre Dio è pura forma, puro spirito, come fa la Chiesa a definire Dio come sostanza? Perché qui sostanza vale la pura forma sussistente o separata di Aristotele (usìa coristè), che è lo spirito.
E i Greci come fanno a chiamare ypostasis la persona divina? Perché essi chiamano ipostasi ciò che noi Latini chiamiamo persona e chiamano usia, essenza ciò che noi chiamiamo sostanza o natura. Per questo essi hanno «dalla stessa essenza o natura del Padre», mentre noi abbiamo «della stessa sostanza del Padre».
È chiaro peraltro che qui sostanza ed ipostasi hanno perduto il riferimento alla materia per restare pura forma, puro spirito, nus per Aristotele, pneuma nel greco di San Paolo, rùach in ebraico. È la sostanza o forma spirituale, Dio, l’anima umana e l’angelo.
La Chiesa fissa anche i termini del linguaggio di fede.
Il Concilio di Nicea chiama Gesù «Figlio di Dio», «nato dal Padre» (ghennethenta), «monoghenè ek tes usìas tu Patròs», unigenito Figlio dalla sostanza del Padre, «ghennethenta, u poiethenta», generato, non creato. È evidente già da queste parole la professione di fede nella divinità di Cristo.
Già il chiamare Gesù Figlio di Dio (Uiòs tu Theù) e Signore (kyrios) è un implicito riconoscimento della divinità di Cristo. Il Concilio infatti riprende il senso nel quale Cristo nel Vangelo parla di sé come Figlio di Dio, chiamando il Padre come il suo Padre a significare che Gli è Padre in modo esclusivo, dicendo che Lui ed il Padre sono una cosa sola, di essere uscito dal Padre, di avere in sé la vita come il Padre, e di avere gli stessi poteri del Padre.
Ma, come tutti sanno, il vocabolo, che è un neologismo, che i Padri hanno coniato per significare la divinità di Cristo, è il famoso omoùsios, che tanto fu contrastato dagli ariani e sempre è contrastato da tutti coloro che non riconoscono che Gesù è Dio, Figlio del Padre.
Sbagliato sarebbe invece parlare della stessa essenza del Padre, giacchè è ovvio che Padre e Figlio, in quanto tali, non sono la stessa cosa, ma sono distinti, come avviene del resto anche tra noi. Tra di noi padre e figlio sono della stessa natura umana specifica, ma non individuale. Invece in Dio Padre e Figlio sono della medesima natura divina, che è singolare e individuale, una di numero.
Per questo, mentre fra di noi il figlio ha una natura singola diversa da quella del Padre, in Dio il Figlio, benché personalmente distinto dal Padre, ha la stessa natura singola divina del Padre, una di numero che è ad un tempo specie, ma non come la specie umana che abbraccia molti uomini, perchè l’esser Dio non è un’essenza universale astraibile dall’individuo, una specie come avviene nelle creature, che abbia sotto di sé degli individui, altrimenti avremmo il politeismo. Invece il vero Dio o è uno solo. O è singolo ed unico, o non è Dio. Ammettere diversi dèi vuol dire ammettere che uno non abbia ciò che ha l’altro. Ma allora che ne sarebbe della totalità assoluta, che è attributo necessario per parlare dell’esser Dio?
La nozione di Dio o di natura divina non è una nozione analogica, una e molteplice o diversificata, come per esempio quella dell’essere, della vita o della bontà. È invece una nozione assolutamente una ed univoca, con precisi attributi distintivi ed esclusivi, che la distinguono da ogni altra nozione, benché venga concepita nell’orizzonte dell’essere.
La nozione analogica di Dio è alla base del politeismo e di quella falsa concezione della pluralità delle religioni, che si limita a notare le diversità, riducendo la fede ad opinione (le «fedi»), trascurando l’universalità del concetto di Dio e lasciando trasparire un implicito politeismo.
Ciò non toglie la possibilità e il dovere di formare un concetto generico di divinità, perché l’astrarre e la considerazione dell’universale sono necessari al pensiero. Ma dobbiamo stare attenti che quando si tratta di stabilire che cosa occorre attribuire alla divinità, dobbiamo aver cura di attribuirle anche la singolarità, altrimenti sarebbe impossibile l’assolutezza, essa pure attributo necessario alla divinità.
Il Concilio di Nicea ha voluto chiarire il rapporto del Figlio col Padre: Gesù è Figlio di Dio, è Dio come il Padre; Egli è col Padre un solo Dio, ma nel contempo è Persona divina distinta dalla Persona del Padre. Gesù è uguale al Padre come Dio, ma è distinto dal Padre come Figlio.
Una volta chiarito questo punto, il Concilio di Calcedonia si concentrerà sulla Persona di Cristo, per mettere in luce il mistero dell’Incarnazione[2]: la Persona del Figlio, il Verbo del Padre, ha assunto una natura umana e l’ha unita a Sé, facendola sussistere della sua stessa sussistenza, sicchè Gesù è una persona divina, il Figlio, in due nature: quella divina di nato dal Padre e quella umana, di nato da Maria.
Nel Concilio di Costantinopoli del 381 la Chiesa chiarisce che dal Padre non procede solo il Figlio, ma anche lo Spirito Santo, nesso d’Amore fra Padre e Figlio, che completa l’opera santificante del Figlio. Nel Concilio di Trento chiarirà quella che è stata l’opera redentrice[3] e santificatrice di Cristo[4]: donarci la vita eterna[5]. Il Concilio Vaticano II chiarirà la natura e l’opera della Chiesa[6] la comunità di salvezza fondata da Cristo.
Una storia tormentata
Come è venuto in mente ai Padri del Concilio di Nicea di far uso della nozione di sostanza (usìa) per significare la divinità di Cristo? Come è noto, la nozione di sostanza è una nozione spontanea della mente umana, essa certamente analogica, dove le modalità principali sono la sostanza materiale e quella spirituale, visibilia et invisibilia.
Aristotele ha avuto il merito immortale di esplorarla, esplicitarla, definirla e approfondirla, ma non si tratta di una particolare nozione o opinione proprie dell’aristotelismo o della cultura greca, bensì, come ho detto, della ragione umana come tale, si tratti dell’indigeno dell’Amazzonia, dell’aborigeno dell’Australia o del pigmeo africano. Nella Scrittura non esiste un termine ebraico specifico o esattamente corrispondente ad usìa o ypostasis o substantia, ma è chiaro che la nozione, benché espressa in forme concrete e personalistiche e non metafisiche. è presentissima e fondamentale. Senza la nozione di sostanza, il pensiero, soprattutto quello filosofico e teologico, è impossibile oppure vaga tra le ombre, i fantasmi e le apparenze.
Come fa notare il Daniélou[7] con abbondanza di citazioni bibliche e del primo giudeo-cristianesimo, ciò che per la metafisica è la sostanza (usìa), per il linguaggio biblico è il Nome (ebr. scem) di Dio, nome che non è soltanto come per noi oggi, un semplice dato o segno anagrafico, una parola convenzionale che designa e distingue quella data persona, ma rappresenta l’essenza, la natura, la sostanza di quella persona. Il «Nome di Gesù» nel Nuovo Testamento significa la natura divina di Cristo, perchè è lo stesso «Nome» del Padre, Colui Che È.
Daniélou nota inoltre in modo interessante come San Giovanni, benchè ebreo, nel designare la divinità del Verbo e parlando ai Greci, non usa il termine greco ònoma, che per i Greci come per noi oggi era una semplice designazione convenzionale, ma usa il termine greco Logos, molto più denso di significato, capace di indicare la divinità e al contempo la figliolanza del Verbo.
Nonostante tutto ciò, è impressionante constatare come il pensiero europeo, col sorgere prima di Lutero e poi di Cartesio, cominci a distogliere lo sguardo e l’interesse per Dio come ente e come sostanza, un Dio esterno e trascendente, per volgerlo a Dio in quanto presente e immanente nell’io, un Dio interiore, per Lutero come Cristo Salvatore, per Cartesio come Dio presente nella coscienza, la cui idea è innata.
È un’alterazione idealistica dell’impostazione agostiniana, mista di protagorismo, che porterà nel secolo XVIII al sorgere della massoneria e nel secolo XX alle conseguenze catastrofiche del fascismo, del nazismo e del comunismo, flagelli apocalittici allontanati dall’opera conciliatrice del Concilio Vaticano II, ma che sono mostri che possono ricomparire se non manteniamo la vigilanza.
Nel soggettivismo luterano-cartesiano il subjectum, la sostanza non è più l’ente extramentale indipendente dall’io, la res, la cosa in sé, ma è il Dio-per-me, Dio-in-me, Dio-pensato-da-me, è la mia coscienza, è l’io in quanto penso Dio e mi metto in rapporto con Lui, sono termine dell’azione divina salvifica nei miei confronti. Come dirà Hegel al termine di questo percorso: il soggetto ha sostituito la sostanza. Si tratta però non di un Dio che crea me ma di me che pongo Dio per me.
Con Lutero e Cartesio, sorge pertanto un processo di progressivo oscuramento della nozione metafisica e realistica di sostanza, per il quale il pensiero dissestato viene a barcollare e ad oscillare in movimenti pendolari, dialettici, inconcludenti, esasperanti e disastrosi tra idealismo e materialismo. Non si vede più la distinzione fra materia e spirito, tra il vero e il falso, tra il bene e il male, tra l’essere e il nulla.
Il ripiegamento narcisistico dell’io su se stesso, la sua diffidenza nel contatto con la realtà esterna e con il prossimo, il suo eccessivo preoccuparsi di se stesso e confidare in se stesso, l’eccessiva importanza data all’agire dell’io, portano, sotto il pretesto della libertà, ad un’esagerata valutazione della propria individualità e delle proprie idee, delle proprie volontà, dei propri gusti, delle proprie esperienze ed opinioni, come se tutto ciò dovesse costituire la sorgente della verità o addirittura della stessa realtà. L’oggettività, l’obiectum tende ad essere sostituito dalle vedute del subiectum.
Col pretesto della dignità del cogito, del sum, del pensiero, della persona, dello spirito, della coscienza e della libertà, l’io deve e vuole dominare su tutto e tutto dev’essere ordinato a lui e controllato da lui, compreso Dio stesso.
Tutto ciò porta evidentemente a svilire o svuotare l’idea di Dio come ente e come sostanza personale esterna all’io, indipendente dall’io, che sta di fronte all’io e che trascende l’io, e a ridurre Dio ad un’idea innata nell’io. Se c’è una sostanza, questa è l’io. Tutto il resto, Dio compreso, gira attorno all’io, emana dell’io ed è al servizio dell’io. L’egoismo non è più un peccato di superbia, ma il principio di tutta la filosofia e di tutta la sapienza[8].
Così circa la questione della sostanza la filosofia viene ad impelagarsi nei secoli seguenti soprattutto con Leibniz, Locke, Spinoza, Berkeley, Hume, Kant fino ad Hegel ed a Bergson, in una serie infinita di fraintendimenti e contrasti, fino ad arrivare al vano tentativo contemporaneo, presente anche fra i teologi e gli esegeti biblici, di accantonare senz’altro la categoria della sostanza per definire l’essenza di Dio con gli arbitri dell’immaginazione creativa, i paradossi della dialettica hegeliana e la letteratura delle scuole medie, quando proprio il Concilio Vaticano I definisce l’essenza di Dio come «una singularis substantia spiritualis».
Fine Prima Parte (1/4)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 11 aprile 2025
Per poter comprendere e chiarire il significato del dogma niceno, occorre dare la definizione di cinque concetti che prendiamo dalla metafisica:
- L’essenza (usìa), che è ciò che una cosa è e risponde alla domanda che cosa è?
- La sostanza (hypostasis), che è una natura singola completa atta a sussistere;
- La natura (fysis), che è l’ente determinato in quanto principio di attività;
- La persona (prosopon), in quanto natura spirituale individuale sussistente;
- La sussistenza (yparxis), che è l’essere in sé e non in altro, che è l’atto d’essere proprio della sostanza e della persona.
La Chiesa Latina non se la è sentita di imitare l’audacia del greco coniando un termine equivalente nelle varie lingue, per esempio in italiano si potrebbe usare il vocabolo omoùsio. Quanto all’espressione «della stessa sostanza del Padre», sarebbe stato meglio, a mio avviso, dire della stessa natura del Padre. Propriamente, infatti, non esiste una sostanza del Padre, come se il Padre fosse una sostanza o avesse una sostanza. Invece il Padre ha o è una natura divina.
Sbagliato sarebbe invece parlare della stessa essenza del Padre, giacchè è ovvio che Padre e Figlio, in quanto tali, non sono la stessa cosa, ma sono distinti, come avviene del resto anche tra noi. Tra di noi padre e figlio sono della stessa natura umana specifica, ma non individuale. Invece in Dio Padre e Figlio sono della medesima natura divina, che è singolare e individuale, una di numero.
Da notare poi che l’espressione italiana «della stessa sostanza del Padre» non coincide con quella greca «dalla sostanza del Padre». L’italiano mette in luce che il Figlio ha la stessa natura divina del Padre, esprime l’omoùsios. Il greco evidenzia che il Figlio procede dalla medesima natura divina del Padre, e quindi è Dio Figlio da Dio Padre, dove Figlio e Padre ovviamente sono distinti, ma la divinità è la stessa, una di numero, in entrambi.
[1] Sulla questione metafisica della sostanza, vedi M.-D.Philippe, L’être. Recherche di une philosophie première, I, Éditions P.Téqui, Paris 1972; Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.
[2] Vedi il mio libro Il mistero dell’Incarnazione del Verbo, Edizioni ESD, Bologna 2003.
[3] Vedi il mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004.
[4] Vedi il mio libro La gloria di Cristo, Edizioni ESD, Bologna 2011.
[5] Vedi il mio libro La vita eterna. I punti fermi della nostra speranza, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2015.
[6] J. Maritain, De l’Eglise du Christ. La personne de l’Eglise et son personnel, Desclée de Brouwer, Bruges 1970.
[7] La teologia del giudeo-cristianesimo, Edizioni Dehoniane, Bologna 1998, pp.253-273.
[8] Questo passaggio dall’aristotelismo al cartesianismo in cristologia è ben sintetizzato dal Card. Pietro Parente, L’Io di Cristo, Istituto Padano di Arti grafiche, Rovigo 1981, pp.311-317.
Caro Padre Giovanni,
RispondiEliminalei ha scritto:
“Il Concilio Vaticano II chiarirà la natura e l’opera della Chiesa[6] la comunità di salvezza fondata da Cristo”.
È questa una ulteriore conferma che il grande Concilio del 900, al di là del proponimento iniziale di san Giovanni XXIII, non si limitò trattare temi squisitamente pastorali, ma inevitabilmente dovette affrontare anche questioni dottrinali?
Caro Bruno,
Eliminafu S. Paolo VI ad aggiungere al Concilio una finalità dottrinale col proporre il tema della Chiesa.
Lei ha scritto:
RispondiElimina“è impressionante constatare come il pensiero europeo, col sorgere prima di Lutero e poi di Cartesio, cominci a distogliere lo sguardo e l’interesse per Dio come ente e come sostanza, un Dio esterno e trascendente, per volgerlo a Dio in quanto presente e immanente nell’io, un Dio interiore, per Lutero come Cristo Salvatore, per Cartesio come Dio presente nella coscienza, la cui idea è innata.
È un’alterazione idealistica dell’impostazione agostiniana, mista di protagorismo, che porterà nel secolo XVIII al sorgere della massoneria e nel secolo XX alle conseguenze catastrofiche del fascismo, del nazismo e del comunismo, flagelli apocalittici allontanati dall’opera conciliatrice del Concilio Vaticano II”.
Potrebbe soffermarsi un po’ su come l’alterazione della visione agostiniana del divino, ad opera di Lutero e Cartesio, abbia avuto, come conseguenze pur remote, l’affermarsi di due ideologie per molti aspetti diverse, quali il comunismo ateo e il nazismo neopagano?
Caro Bruno,
Eliminal'interiorità agostiniana è la presenza di Dio alla coscienza come luce trascendente della ragione, alla quale la ragione attinge per ricever luce, mentre l'interiorità luterano-cartesiana è il veder Dio come immanente nella coscienza e per la coscienza.
Da qui gli idealisti ricaveranno il concetto di Dio non come realtà trascendente ma come idea della mente. Da qui risulta che Dio non è più il creatore dell'uomo, ma è un'idea posta dall'uomo (Hegel, nazismo).
Da qui Marx ricaverà che allora Dio non esiste come realtà che trascende l'uomo, ma è un prodotto fantastico pseudoconsolatorio dell'uomo alienato dallo sfruttamento capitalistico.