Il punto di contatto fra cristianesimo e idealismo
Seconda Parte (2/3)
L’interiorismo agostiniano si accorda con il realismo tomista
contro l’idealismo cartesiano
Un’accusa che Pio X nella Pascendi fa al fenomenismo idealista è quella di immanentismo, ossia di non salvare la trascendenza divina: Dio non si rivela dal di fuori dell’uomo, ma nell’intimo dell’uomo (n.10). Il Papa naturalmente non nega una presenza di Dio alla coscienza, ma si riferisce al principio idealista secondo il quale nulla è esterno al pensiero. Il pensiero, come dice Bontadini, è «intrascendibile» e questo per la semplice ragione che l’essere è l’essere pensato. Al n.80 il Papa pone chiaramente la questione:
«Domandiamo: siffatta immanenza distingue o no Dio dall’uomo? Se lo distingue, che differisce dunque tal dottrina dalla cattolica? Se poi non la distingue, eccoci di bel nuovo nel panteismo. Ma di fatto l’immanenza dei modernisti» (cioè degli idealisti) «vuole ed ammette che ogni fenomeno di coscienza nasca dall’uomo in quanto uomo. Dunque di legittima conseguenza deduciamo che Dio e l’uomo sono la stessa cosa; e perciò il panteismo».
Per l’immanentismo tutto è immanente alla coscienza, Dio compreso. Nulla è al di fuori. Questa immanenza va ben distinta da quella che troviamo in Agostino e Tommaso, perchè in loro essa si accompagna a una trascendenza fuori della coscienza. Mentre l’immanenza idealista esclude la trascendenza, perché l’essere coincide col pensiero, in Agostino e Tommaso l’immanenza è la presenza nel pensiero del reale conosciuto e pensato in quanto pensato, restando essere esterno in quanto reale in sé stesso.
La verità che abita nell’anima di Agostino non è la res in anima di Tommaso. Questa è l’ente di ragione, prodotto della ragione, rappresentazione del reale esterno. La verità interiore di Agostino invece non è affatto prodotta dalla mente umana, ma è, come in Platone, la luce intimamente trascendente dell’ideale divino che brilla al di sopra dell’anima e illumina l’anima.
Né ciò che è fuori dell’anima per Agostino è esattamente ciò che è l’extra animam di Tommaso. Per Agostino dalla conoscenza di noi stessi possiamo salire alla scoperta di Dio, ma Agostino non nega che le cose esterne siano prove dell’esistenza di Dio.
Tommaso segue Aristotele nel respingere le idee platoniche come essenze- modello delle cose trascendenti le cose stesse e invece apprezza l’idea platonica nel senso di modello delle cose presente nella mente divina. Egli vede anche l’idea come progetto operativo nella mente di Dio e in quella dell’uomo. Invece egli, seguendo Aristotele, mette al posto dell’ideale morale agostiniano di marca platonica il fine dell’agente come perfezione e perfettivo dell’agente.
Agostino non nega affatto l’esistenza e la conoscibilità delle cose esterne e della natura che ci circonda. Tommaso riconosce la maggior nobiltà del mondo della coscienza rispetto al valore ontologico delle cose esterne materiali. Afferma però che da esse si può arrivare alla conoscenza di Dio, cosa che non nega neppure Agostino.
Agostino ammira come Platone, lasciando l’incertezza delle cose sensibili, trovi rifugio nel mondo interiore delle idee, senza per questo negare l’intellegibilità delle cose sensibili. L’idea platonica è modello esemplare della realtà e criterio per giudicarne il valore. Tommaso applicando il principio di causalità sale dal mosso al motore immobile, dal diveniente alla causa prima, dal contingente al necessario, dal buono all’ottimo, dal fine immediato al fine ultimo.
Agostino chiama «interiori» i valori spirituali ed «esteriori» le cose materiali. L’esterno, infatti, per lui è l’esterno nello spazio, cosa che conviene appunto alle cose materiali. Ma è chiaro che anche le altre sostanze spirituali sono, «fuori» nel senso che sono distinte dall’anima o dall’io.
Tommaso invece non ha problemi a chiamare esterne anche le realtà spirituali, le altre persone, gli angeli, Dio e il mondo dell’al di là. Infatti per lui dire esterno è come dire realmente distinto.
La proposta di Gustavo Bontadini
Fin dal sorgere del cristianesimo i filosofi cattolici si posero il problema oltre a quello di confutare le eresie e gli errori dei pagani, di come trovare elementi validi nelle filosofie non cristiane, tali da poter essere inseriti nella filosofia cattolica.
Questo problema si pose in modo acuto con l’avvento di Cartesio, il quale in un momento di crisi, di incertezza, di sfiducia, di smarrimento, di conflittualità e di scetticismo della filosofia europea occidentale dopo le guerre di religione, si presentò come autore un nuovo metodo a suo dire risolutivo, per raggiungere la verità in filosofia e nelle scienze, come se prima di lui l’umanità non fosse ancora riuscita a dar fondamento e certezza alla filosofia, e quindi come se il metodo comunemente seguito in precedenza dalla società e dalla Chiesa, basato sulla filosofia platonico-agostianiana ed aristotelico-tomista, già approvato ed appoggiato dalla Chiesa come conforme alla fede, si fosse rivelato dubbio o insufficiente. Cartesio persuase molti ad abbandonare il precedente metodo, che a suo dire, non aveva condotto a vere certezze e non forniva princìpi inoppugnabili e verità evidenti.
Cartesio cominciò col mettere in dubbio le evidenze sensibili, con la pretesa di sostituirle con quello che a suo dire era il principio e la via della certezza, della verità, del sapere e della metafisica: il suo famoso cogito ergo sum, dove non si capisce per quale motivo, asserendo di proporre «meditazioni metafisiche», prende ad oggetto del sapere non l’ente ma il proprio io, scambiando così la filosofia con l’autobiografia. In secondo luogo Cartesio dubitando dell’evidenza sensibile, dubita dell’indubitabile. In terzo luogo asserendo che la mente possiede in modo innato l’idea di Dio dà per evidente ciò che è da dimostrare. In quarto luogo non dice qual è l’oggetto del cogito e se cogito vuol dire dubito di tutto, che senso ha e quale fondamento può dare al sapere il sapere di dubitare di tutto.
Con tutto ciò nelle riflessioni di Cartesio non mancavano stimoli interessanti sul valore delle idee, dello spirito, della ragione e della coscienza. Per questo, sin dall’apparire dell’idealismo cartesiano, davanti alle opposizioni che suscitò tra i cattolici, iniziarono i tentativi di conciliare la filosofia cartesiana con quella cattolica, come per esempio il tentativo di Malebranche, benché nel 1663 – e si poteva ben comprendere - il sant’Offizio avesse proscritto le opere di Cartesio.
Nell’800 si rinnovò il tentativo con la corrente degli ontologisti, che fu però condannata dalla Chiesa. Nel medesimo secolo ricordiamo il tentativo del Beato Antonio Rosmini, il quale si confrontò con Kant con le migliori intenzioni, benchè purtroppo egli, non ben formato nella filosofia scolastica, avesse usato delle formule inadatte che sapevano di idealismo, e per questo avvenne la condanna post obitum, nel 1887, delle famose «quaranta proposizioni».
La famosa enciclica Pascendi di San Pio X del 1907 mette in guardia contro un falso ammodernamento della filosofia cattolica, condanna il fenomenismo positivista, l’immanentismo, il soggettivismo e il panteismo, lascia trasparire il rifiuto del fenomenismo kantiano, tutti fenomeni connessi con l’idealismo, ma non fa il nome dell’idealismo.
Nonostante questa messa in guardia, pochi decenni dopo alla Facoltà teologica cattolica di Lovanio, il Padre Joseph Maréchal, ritenta l’impresa di recuperare il kantismo, presentando un’interpretazione della gnoseologia tomista in chiave kantiana, tentativo naturalmente non riuscito, che fa di Tommaso un kantiano, tentativo che tuttavia non fu condannato dalla Chiesa, com’era successo nei tentativi precedenti.
Davanti al successo dell’idealismo nei primi decenni del ‘900, per esempio con Gentile nell’Italia fascista e con Hegel nella Germania nazista, i tomisti come per esempio il Garrigou-Lagrange, il Maritain, il Gilson, il Cordovani, lo Zacchi, il Masnovo, il de Tonquéde attuarono una buona confutazione dell’idealismo dimostrando i suoi errori. Ma restava aperta ancora una volta la domanda se non si potessero trovare elementi positivi e punti di contatto con la concezione realistico-biblico-tomista della conoscenza.
Nell’orizzonte dello sviluppo della filosofia cattolica promosso dal Concilio Vaticano II emerge la figura del filosofo cattolico, Gustavo Bontadini, il quale già negli anni ’50, tentò una conciliazione dell’idealismo col cristianesimo. Ma egli fu solo uno dei numerosi filosofi cattolici, che sin dal sorgere del cristianesimo vollero tentare un confronto col pensiero non-cristiano, per vedere che cosa di esso poteva essere utilizzato per l’edificazione della filosofia cattolica.
L’impresa del Bontadini di mettere a confronto l’idealismo col realismo biblico-tomista offre un certo interesse per la capacità che ha avuto di evidenziare alcuni punti di contatto fra idealismo e realismo che sono i seguenti:
1) Il primato dello spirito sulla materia[1];
2) L’identità del pensiero e dell’essere in Dio[2],
3) L’idea come produttrice di realtà[3];
4) L’autocoscienza[4];
5) L’identità intenzionale di pensiero ed essere nell’atto del conoscere[5].
Bontadini non è riuscito a liberarsi totalmente dall’idealismo
Inoltre, per raggiungere quella realtà che è esterna o nello spazio o solo nell’essere, il nostro pensiero non ha bisogno di uscire da se stesso, non viaggia nello spazio come una freccia che debba colpire un bersaglio o una mano che venga allungata per afferrare un oggetto, anche se non è proibito usare queste metafore, ma, essendo il pensiero immateriale e sovraspaziale, è chiaro che, per quanto la cosa sia misteriosa, il pensiero prende sì dal di fuori di sé, ma non si amplia e non si arricchisce andando fuori, ma cogliendo dentro di sé, mediante una rappresentazione da lui prodotta interna a lui, ciò che è fuori e resta fuori. In certo modo porta dentro di sé immaterialmente o intenzionalmente ciò che resta fuori materialmente od ontologicamente.
Inoltre, se il pensiero immanentizza in tal modo il reale, Dio stesso compreso (il concetto di Dio), non vuol dire, come crede Bontadini, che il pensiero umano sia intrascendibile, ma vuol dire che sa aprirsi al reale ed accogliere concettualmente o idealmente il reale o altro da sé nel suo seno, per esprimerlo poi nel linguaggio.
Però il pensiero è capace di elevarsi ed allargarsi alla comprensione di ogni ente, compresa la realtà divina, col formare la nozione analogica dell’essere, una, gerarchizzata, molteplice e diversificata, la quale coglie in qualche modo implicitamente e virtualmente la totalità dell’essere, Dio compreso.
Bontadini considerava come tutti i postcartesiani Cartesio come il fondatore della filosofia moderna, come fondatrice di quell’idealismo che avrebbe portato a Gentile, la cui filosofia è la filosofia per eccellenza, come lasciano intendere queste sue parole dove è evidente l’assolutizzazione del pensiero identificato con l’essere:
«In verità il pensiero non ha bisogno di garanzie; esso è già per sé stesso la garanzia del proprio valore, la propria misura, la propria fondazione. È una verità, questa, senza della quale non s’entra nel sacrario della filosofia»[6].
Infatti l’idealista non prende come misura del suo sapere il reale, ma se stesso e ciò che è già contenuto nella sua coscienza. Ne viene per conseguenza che il principio della sua azione non è l’obbedienza alla realtà, ma alla propria volontà. Non è l’aderire, ma il contraddire.
Da Parmenide a Cartesio attraverso Protagora
Bontadini era convinto che il cartesianismo sviluppato da Gentile fosse un’acquisizione e un progresso definitivi della filosofia moderna. Tuttavia, come cattolico che conosceva la filosofia realista aristotelico-tomista, non mancò di accorgersi, dopo un primo periodo di entusiasmo quasi incondizionato per Gentile, che la sua filosofia ingiustamente si oppone al patrimonio classico fatto proprio dalla filosofia cattolica approvata dalla Chiesa, mentre questa certo non approvava l’idealismo tedesco nato da Lutero e da Cartesio, che corrompeva il concetto biblico-cristiano della conoscenza e quindi della fede.
Solo che invece di trovarne la fondazione in Platone ed Aristotele, credette di trovarla in modo ancor più radicale in Parmenide, tanto poi da arrivare alla conclusione che la vera anima della metafisica di San Tommaso non è Aristotele, ma Parmenide.
Ma ecco che poco dopo Protagora Socrate scopre l’inganno accorgendosi che la verità non è data dal fatto che sia il pensiero a misurare l’essere, ma è l’essere che misura il nostro pensiero. Non dobbiamo accontentarci delle apparenze soggettive, o a lasciarci suggestionare da ciò che sembra a noi, ma dobbiamo dare una definizione dei valori, capire qual è la loro essenza. Allora avremo la misura della verità per poter giudicare in campo speculativo e morale.
Dobbiamo badare a ciò che è, l’ente, l’on e non a ciò che sembra a me, perché può essere errato. È il pensiero che è ordinato all’essere e non viceversa, come credevano Parmenide e Protagora. E così nasce il realismo, il vero metodo per raggiungere la verità, conforme alla rivelazione biblica e al cristianesimo.
Assistiamo con Platone qui ad un duplice fenomeno: da una parte, come noterà Heidegger, c’è una degradazione dell’oggetto del pensiero, ma dall’altra con Platone l’oggetto del pensiero ossia il vero non è più, come per Protagora, ciò che appare o sembra (id quod videtur), ma ciò che è (id quod est), l’ente. Le cose non sono ordinate a me, ma sono io che sono ordinato alla realtà fuori di me, al di sopra di me. Ecco l’idea platonica.
Ma anche in Aristotele la prospettiva del vedere, idein, o theorein, da cui idea, visione, dal sanscrito vid che vuol appunto dire vedere, resta in perfetta conformità col vedere o la visione (eb. hazon) della Bibbia e del cristianesimo. Ecco dunque la metafora biblica e platonica della luce per simboleggiare la verità della conoscenza. L’errante viceversa è un cieco.
Fine Seconda Parte (2/3)
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 22 marzo 2025
La verità che abita nell’anima di Agostino non è la res in anima di Tommaso. Questa è l’ente di ragione, prodotto della ragione, rappresentazione del reale esterno. La verità interiore di Agostino invece non è affatto prodotta dalla mente umana, ma è, come in Platone, la luce intimamente trascendente dell’ideale divino che brilla al di sopra dell’anima e illumina l’anima.
Né ciò che è fuori dell’anima per Agostino è esattamente ciò che è l’extra animam di Tommaso. Per Agostino dalla conoscenza di noi stessi possiamo salire alla scoperta di Dio, ma Agostino non nega che le cose esterne siano prove dell’esistenza di Dio.
Senza abbandonare l’idealismo, Bontadini pensò di togliergli
quella protervia che faceva dell’atto del pensiero il produttore di sé stesso e
dell’essere inteso come divenire alla maniera di Hegel. Con buona pace di
Cartesio, che comunque considerava il fondatore della filosofia moderna come
vero filosofare, il cattolico Bontadini non seppe fare a meno di vedere la
verità anche nella metafisica classica dell’essere.
Solo che invece di trovarne la fondazione in Platone ed Aristotele, credette di trovarla in modo ancor più radicale in Parmenide, tanto poi da arrivare alla conclusione che la vera anima della metafisica di San Tommaso non è Aristotele, ma Parmenide.
L’errore di Platone, scoperto poi da Aristotele, è stato quello di confondere l’essenza dell’ente con la sua perfezione ontologica o morale. Platone capì che l’ideale trascende il dato di fatto spesso difettoso e ne costituisce il modello di perfezione. Ma l’essenza della cosa non trascende la cosa, ma le è immanente: è ciò che la cosa è e la costituisce in sé stessa; è la forma stessa della cosa.
Ma anche in Aristotele la prospettiva del vedere, idein, o theorein, da cui idea, visione, dal sanscrito vid che vuol appunto dire vedere, resta in perfetta conformità col vedere o la visione (eb. hazon) della Bibbia e del cristianesimo. Ecco dunque la metafora biblica e platonica della luce per simboleggiare la verità della conoscenza. L’errante viceversa è un cieco.
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